Per il 67% dei consumatori Usa, il “parmesan” è Made in Italy

parmesan


Per il 67% dei consumatori statunitensi, il termine “parmesan” non è affatto generico, come sostengono, invece, le industrie casearie americane, ma identifica un formaggio duro con una precisa provenienza geografica, che il 90% degli intervistati indica senza alcun dubbio nell’Italia. Lo rileva un’indagine condotta da Aicod per conto del Consorzio del Parmigiano Reggiano.

Abbiamo mostrato agli intervistati due confezioni di “parmesan” made in Usa – spiega il direttore del Consorzio del Parmigiano Reggiano, Riccardo Deserti – di cui una senza richiami all’Italia e l’altra caratterizzata da evidenti richiami al Tricolore. Già nel primo caso il 38% dei  consumatori ha indicato il prodotto come formaggio di provenienza italiana, ma la situazione è apparsa ancora più grave di fronte alla confezione caratterizzata da elementi di “italian sounding” (ad esempio la bandiera tricolore o monumenti e opere d’arte italiane): in tal caso, infatti, il 67% degli acquirenti americani è convinto di trovarsi di fronte ad autentico prodotto italiano“.

Un inganno – sottolinea il presidente del Consorzio, Giuseppe Alaiche negli Usa colpisce decine di milioni di consumatori e che costituisce un grave pregiudizio all’incremento delle nostre esportazioni e, conseguentemente, un danno palese anche per i nostri produttori”.

A parlare chiaro, ancora una volta, sono le cifre: gli Usa si collocano al terzo posto (dopo Germania e Francia) nella classifica delle esportazioni di Parmigiano Reggiano. Negli States, infatti, nel 2014 sono giunte 6.597 tonnellate di Parmigiano Reggiano, corrispondenti al 17,8% delle esportazioni complessive (44.000 tonnellate), e nei primi otto mesi del 2015 si è registrato un incremento del 28,8%, ed è proprio questo flusso in crescita che potrebbe letteralmente esplodere se venisse quantomeno ridotta la quantità di prodotto che negli Usa si richiama esplicitamente all’Italia.

La battaglia aperta in sede di negoziati TTIP – afferma Alai – non sarà certo facile, perché quelle 100.000 tonnellate di prodotto che circolano negli Usa sono irregolari alla luce della legislazione europea sulle Dop, ma non vengono ancora considerate tali dall’industria e dalla legislazione americanaUna delle chiavi di volta per sconfiggere il prodotto che si richiama al Parmigiano Reggiano e all’Italia – conclude Alai – potrebbe essere proprio questa ricerca che a inizio 2016 presenteremo a Bruxelles e che dimostra inequivocabilmente come i consumatori americani vengano tratti in inganno da pratiche che si traducono in un palese danno per i nostri produttori, titolari della Dop più contraffatta, imitata ed evocata nelle denominazioni che circolano negli Stati Uniti”.

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Non solo Made in Italy

La Top 20 dell'appeal del marchio "Made in" nel mondo

La Top 20 dell’appeal del marchio “Made in” nel mondo

Borse, vestiti, arredamento, vini, Prosciutto di Parma: nel mondo il Made in Italy è un marchio forte. Attenzione però, sedersi sugli allori è vietato. Perché quello italiano non è l’unico “Made in” che conta sulla piazza globale. Siamo troppo abituati a guardare all’Italia e alle nostre eccellenze coi nostri occhi. Se ci affacciamo al mercato mondiale dei consumatori da una finestra diversa, scopriamo che il marchio made in Italy è quinto: davanti, nell’ordine, ha Made in Usa, Made in France, Made in Germany e anche Made in Japan.

La classifica è stata stilata da FutureBrand, che ha vagliato il peso specifico di 140 Paesi e ha dato voce a tutti i consumatori, anche ai consumatori dei Paesi emergenti. Cosa hanno chiesto? Di valutare la reputazione che i Paesi d’origine hanno sulle loro scelte di consumo, di dare un punteggio all’importanza che attribuiscono alla provenienza di un prodotto. Un giudizio sulla qualità, ma anche sulla sicurezza – un tema quanto mai caldo, in epoca di scandali alimentari – e sulla reale provenienza di un bene, dato che sempre più spesso il luogo di progettazione e quello di produzione delle merci non coincidono più.

Dalle indagini è emersa prepotente la forza del marchio Made in Usa: aziende come Gap, Nike, Donna Karan o Calvin Klein sono le primi che balzano alla mente dei consumatori, soprattutto nei Paesi emergenti. Se gli Stati Uniti ottengono il massimo punteggio nelle categorie Moda e Cura della persona, la Francia vince nella Cibo e bevande, mentre la Germania primeggia nella categoria Auto ed è terza per l’elettronica di consumo. Il Giappone, infine, è primo per l’elettronica e va forte anche nel settore automobilistico. E l’Italia? I brand dell’alimentare devono cedere il primo posto ai marchi francesi, che tra gli intervistati esercitano un richiamo maggiore, specie nel settore dei vini. Nel lusso, nonostante le nostre numerose firme, l’Italia è solo terza, alle spalle di Francia e Svizzera.

Il primo posto dei Cantoni in questa categoria è dato dalla presenza di brand che hanno saputo rafforzare il concetto di lusso trasversalmente a diversi segmenti di mercato: dagli orologi (con Rolex, Omega, Longines, Tag Heuer, Vacheron Constantin) al caffè con Nespresso, alla cosmesi con La Prairie, ai sigari con Davidoff, alla gioielleria con Chopard.
«È un fatto – conferma Alessandra Iovinella, managing director di FutureBrand Italia – che le aziende europee tendono a sovrastimare il proprio appeal all’estero. Ma quando entrano in campo l’America Latina o il Medio Oriente, i marchi a stelle e strisce non sono solo fra i primi citati, ma sono anche quelli più in grado di rassicurare sulla provenienza del prodotto, cioè sull’effettivo Made in». Nell’opinione dei consumatori intervistati, i parametri “Paese di origine”, “Paese di progettazione” e “Paese di produzione” sono stati giudicati più importanti di altri fattori di scelta come, per esempio, il prezzo, la disponibilità e lo stile, e si sono posizionati alle spalle del fattore di scelta numero uno: la sicurezza. Ecco perché oggi non è più sufficiente essere identificati con un Paese – per esempio, l’Italia con la moda – per essere riconosciuto come Made In: i brand oggi devono dimostrare di avere una reale e profonda connessione con il Paese da cui provengono per poter contare su un vantaggio competitivo.

Ben vengano dunque le normative a tutela del Made in. Ma potrebbero non essere abbastanza: sia chiaro, la quinta posizione italiana è di tutto rispetto, ma ci obbliga a confrontarci con altre quattro e a imparare a essere competitivi rispetto a loro. «Dobbiamo usare questa posizione per guardare in avanti e avere una prima indicazione delle potenzialità che potrebbero ancora crescere – sostiene Silvia Barbieri, head of strategy di FutureBrand Italia – per esempio, credo che abbiamo la sostanza e la forza potenziale di superare la Francia nel Food & beverage e di attaccare insieme alla Francia il primato della Svizzera nel lusso. Nelle altre categorie, invece, ritengo che l’Italia occupi una posizione che rispecchia le sue forze».

(Da Il Sole 24 Ore del 10 Febbraio 2014)

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