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Guerre e terrorismo sono stati pianificati da noi



In questo video l’ex generale statunitense Wesley Clark, già comandante dell’operazione “Allied Force” della NATO nella guerra del Kosovo, svela i piani di guerra aggressivi degli Stati Uniti. Afferma che l’attacco alla Libia fosse già stato previsto dai vertici militari USA subito dopo l’11 settembre. In questo documento (“Rebuilding America’s Defenses“), prodotto dall’influente think tank PNAC nel  settembre del 2000, viene descritto un piano volto a consolidare l’egemonia statunitense attraverso degli interventi militari verso quei paesi considerati una minaccia per questa egemonia. I membri fondatori del PNAC sono Dick CheneyDonald Rumsfeld, rispettivamente vicepresidente e segretario della difesa sotto la presidenza Bush nel 2001. Continue Reading

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Mai dire droni: Ogni terrorista ucciso, 28 vittime civili

droni militari

I raid dei droni “Predator”, la versione B/MQ-9 “Reaper” (“Mietitore”) dal costo di circa 17 milioni di dollari, lanciati dalla Cia americana, come quello in cui sono morti in gennaio i cooperanti Giovanni Lo Porto e Warren Weinstein, colpiscono sistematicamente basi e militanti dei gruppi antigovernativi in Pakistan, ma anche in Afghanistan. Stime non ufficiali, come quella riferita dal Portale Terrorismo dell’Asia del Sud, sostengono che i velivoli senza pilota statunitensi hanno compiuto in undici anni almeno 310 operazioni in Pakistan, con un bilancio di 2.747 morti. Quasi 3.000 persone innocenti, uomini, donne e bambini, che sono rimaste uccise da un drone lanciato dalla Cia o dal Pentagono. Ma un conteggio esatto non esiste. Li chiamano “danni collaterali”. Gli attacchi dei droni eliminano di sicuro qualche terrorista ma uccidono anche un gran numero di civili innocenti.

Nell’ottobre 2013, Amnesty International ha reso pubblico uno dei più completi studi, dalla prospettiva dei diritti umani, sul programma statunitense relativo all’impiego dei droni. I britannici di Reprieve, organizzazione per i diritti umani, rendicontano l’inefficacia di questi mezzi telecomandati: su 41 bersagli colpiti, 1.147 civili ammazzati. E le lugubri statistiche vanno aggiornate. I britannici sono gli unici in Europa che dispongono di Predator e Reaper dotati di missili Hellfire, fuoco d’inferno, e di bombe a guida laser, prodotti dagli americani. Secondo il rapporto dell’Ong per ogni terrorista ucciso nella “guerra dei droni” condotta dagli Usa, le vittime civili sono state 28.

Il trio Renzi-Alfano-Salvini vogliono usare i droni per bombardare i barconi in Libia: “L’obiettivo è affondare i barconi degli scafisti, impedire che partano”.

Ma senza un sostegno di intelligence sul territorio, è assolutamente dannoso. Come fai a sparare contro un’imbarcazione se non sai con esattezza chi c’è a bordo, se è vuota, se è degli scafisti. Poi è falso dire che i barconi siano libici, in maggioranza provengono da Egitto e Tunisia. Inoltre i barconi sono solo uno degli strumenti usati dai trafficanti: ci sono anche aerei, yacht, falsificazione di documenti, corruzione, eccetera.

L’ipotesi di usare i droni per colpire e affondare i barconi dei trafficanti di esseri umani, prima che partano dalle coste nordafricane, è solo una chiacchiera inutile e illusoria. Semplice propaganda in attesa della prossima tragedia.

Afferma il generale Fabio Mini, che nel 2002-03 fu a capo della missione Nato in Kosovo: “L’opzione droni e blocchi navali nel Mediterraneo è inutile senza soluzioni nei Paesi di partenza, spesso coperti’ dalle connivenze occidentali. Bisogna partire dalla resa dei conti sulle responsabilità. I regimi locali sono i primi responsabili dell’esodo perché incapaci di creare condizioni favorevoli alla popolazione, ai giovani, e soprattutto ai giovani acculturati così necessari alla costruzione di nuove democrazie. I Paesi di origine delle migrazioni di massa e quelli attraversati dovrebbero esser considerati come Stati canaglia, non per colpa del terrorismo e neppure per colpa dei soli governanti locali. Dietro ogni fallimento africano ci sono grandi e medie potenze e grandi corporazioni che lo hanno provocato”.

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La guerra in Libia sarà lunga e costerà molte vite

libia-mappa
A tre anni dall’assassinio di Gheddafi, la Libia è nel caos più completo e già si parla con insistenza di risolvere la questione inviando truppe dall’estero per organizzarvi una seconda, micidiale e sciagurata guerra. Nel corso della prima infausta guerra, voluta soprattutto dalla Francia di Sarkozy, il paese ha subito danni immensi, 25 mila morti e distruzioni valutate dal Fondo Monetario Internazionale in 35 miliardi di dollari. Per combattere l’Isis in Libia serve un’operazione diplomatica e militare complessa. Quello che sta avvenendo in Medioriente non è soltanto il trionfo del male, ma il risultato di una lunga crisi degenerativa che non è mai stata affrontata. Il “Califfato dell’orrore” rappresenta appena un gigantesco bubbone, il segno più evidente di una crisi di coscienza e identità che dilania gli islamici. Non soltanto in Iraq e Siria, ma ovunque. I responsabili dell’islamismo radicale sono i Paesi, Arabia Saudita e gli altri Stati del Golfo, che da trent’anni finanziano un certo tipo di Islam. L’Isis può contare su 35mila combattenti tra Siria e Iraq. L’analisi di Vittorio Emanuele Parsi, direttore dell’Alta scuola in economia e relazioni internazionali.

“L’intervento in Libia sarebbe molto lungo e dispendioso, anche in termini di vite umane. Combattere l’Isis è un’operazione complessa. Non bastano i bombardamenti per fermare l’avanzata dell’Isis, com’è evidente in Siria e Iraq. E là comunque ci sono truppe di terra che combattono. Non ci sono interlocutori affidabili, capaci di coordinare gli interventi. L’Egitto lotta contro l’Isis nel Sinai e sarebbe disposto a farlo anche in Libia. Poi bisognerebbe sondare Algeria e Lega Araba se sono disponibili a una missione con legittimità internazionale. E anche i paesi del Golfo, nonostante il loro giochi poco trasparenti, sono inquieti. Obama per la Siria e Iraq ha chiesto tre anni. Per stabilizzare la Libia non è sufficiente armare delle milizie o bombardare, è necessario cercare degli alleati e accettare la prospettiva di un impegno lungo. Però, se non se ne occupa l’Italia, non lo farà nessuno perché siamo noi i primi a dover essere preoccupati di quanto sta accadendo. Il Paese è scivolato progressivamente in una situazione prima di guerra civile, poi di semi-anarchia. Nessuna delle due autorità che reclamano legittimità ha il controllo del territorio. Questo ha permesso la penetrazione dell’Isis, la milizia jihadista più preparata, da est. È uno scenario somalo, solo un po’ più ordinato perché l’Isis è organizzata. Gheddafi aveva deistituzionalizzato il paese, la sua caduta ha lasciato il vuoto. La Libia è un paese molto complesso a livello tribale che il Rais riusciva a governare solo per i metodi brutali che adottava”.

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Il Medio Oriente in guerra con armi Made in Italy

Italia-armi-Israele

I dittatori, i regimi autoritari e i paesi in conflitto sono da sempre i nostri maggiori acquirenti di armi. Nel nord Africa e in Medio Oriente (Striscia di Gaza, Libia, Iraq, Siria ecc.) si continua a sparare con armi made in Italy.

Nel 2013, abbiamo spedito in giro per il mondo armamenti per 2.725.556.508 euro (ma il valore esatto è di quasi 3 miliardi di euro) con un calo del 7,7% rispetto al record ventennale del 2012. C’è invece una netta diminuzione (-48,5%) nei permessi rilasciati nel 2013, cioè per ordini di armi che verranno consegnate negli anni successivi. E dove esportiamo?

  • Israele (€ 472.910.250),
  • Stati Uniti (€ 419.158.202),
  • Algeria (€ 262.857.947),
  • Arabia Saudita (€ 244.925.280),
  • Turkmenistan (€ 215.821.893),
  • Emirati Arabi Uniti (€ 149.490.989),
  • Belgio (€123.658.464), India (€ 108.789.957),
  • Ciad (€ 87.937.870) e
  • Regno Unito (€ 74.407.416).

Come si può notare tra i primi dieci destinatari delle autorizzazioni all’esportazione solo tre (USA, Belgio e UK) fanno parte delle tradizionali alleanze dell’Italia (Nato e Ue) mentre per la maggior parte si tratta di paesi extra europei, di nazioni in guerra, rette da regimi dispotici o autoritari e da governi responsabili di reiterate violazioni dei diritti umani.

Il maggiore acquirente è Israele soprattutto per l’ordinativo alla Alenia Aermacchi di 30 velivoli addestratori M-346 e altro materiale per un valore complessivo di quasi 473 milioni di euro. Ed è incredibile visto che la Spagna ha già deciso di sospendere in via cautelare l’invio di armi e il Regno Unito, dopo aver reso nota una revisione delle proprie esportazioni militari per le forze armate israeliane, ha dichiarato un possibile blocco di una dozzina di licenze di esportazione di materiali militari impiegati da Israele nel conflitto a Gaza. L’Italia, invece, che è il maggior fornitore nell’Ue di sistemi militari a Israele, non solo non ha annunciato alcuna restrizione, ma il Ministero degli Esteri ha eluso la questione dichiarando in Parlamento che “l’Italia non fornisce ad Israele sistemi d’arma di natura offensiva”.

In Algeria vendiamo elicotteri Agusta Westland AW139 comprensivi di apparecchiature per la visione all’infrarosso, 28 caschi militari e altre amenità per un valore complessivo di € 258.241.013. Prosegue anche la fornitura all’Arabia Saudita dei caccia Eurofighter (denominati El Salaam). Tra le armi esportate all’Arabia Saudita figurano però anche 600 bombe 2000LB Blu 109 attiva per un valore di € 15.600.000 ed inoltre 1000 bombe 500LB MK82 inerte e 300 bombe 2000LB MK84 inerte per complessivi € 8.500.000 tutte prodotte dalla RWM Italia di Ghedi (Rheinmetall Group). E 100mila granate cal. 40/46 MM TP Low Velocity esportate a Riyad da Simmel Difesa per € 6.291.000.

Nei magazzini dell’Esercito Italiano, oltre a decine di migliaia di kalashinkov e Rpg anticarro bottino di sequestri durante la guerra balcanica che dovrebbero esser ora distribuiti ai curdi, si stima siano ammassati 1100 carri armati e 3000 veicoli corazzati. Tra gli altri, ne hanno usufruito il Pakistan, il Libano, i cui soldati nel 2006 fronteggiavano gli israeliani con gli stessi elmetti usati a El Alamein dagli italiani, l’Albania, Panama (grazie agli uffici dell’“ambasciatore” berlusconiano Valter Lavitola) e la Libia pre e post Gheddafi.

Quindi ricapitolando, le forniture di sistemi militari italiani sono sempre più indirizzate verso le zone di forte tensione del Medio Oriente e del nord Africa, invece di inviare un contingente di “peace enforcement” sostenuto dall’Unione europea che si attenga strettamente alle regole del diritto internazionale e non alimenti il conflitto, noi continuiamo ad armarli.

La legge italiana, ricorda la Rete Italiana per il Disarmo, “vieta l’esportazione di sistemi militari verso i Paesi in stato di conflitto armato e ribadisce che eventuali diverse deliberazioni del Consiglio dei Ministri sono da adottare solo dopo aver consultato le Camere”.

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