Ecco chi ha armato l’Isis

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Da dove vengono le armi dell’Isis? La risposta è nel report di Amnesty International intitolato “Fare scorta: come abbiamo armato lo “Stato islamico”. Il rapporto spiega come il gruppo armato stia usando oltre 100 diversi tipi di armi e munizioni, in larga parte prelevate dai depositi militari iracheni, concepite e prodotte in almeno 25 paesi compresi Russia, Cina, paesi dell’ex blocco sovietico, Usa e alcuni stati dell’Unione europea. 

Queste forniture sono state pagate col petrolio o sono state oggetto di accordi tra il Pentagono e la Difesa irachena o, ancora, frutto di donazioni da parte della Nato. La maggior parte di esse è stata presa dai depositi militari finiti sotto il controllo dello “Stato islamico” o da quei depositi illecitamente trasferita. Tra le armi avanzate finite nelle mani dello “Stato islamico” vi sono i sistemi di difesa aerea portabili a spalla (noti con l’acronimo Manpads), missili anti-carro guidati, veicoli blindati da combattimento, fucili d’assalto come gli Ak russi e gli M16 e i Bushmaster statunitensi.

La maggior parte delle armi convenzionali usate oggi dallo “Stato islamico” risale al periodo che va dagli anni Settanta agli anni Novanta e comprende pistole, rivoltelle e altre armi leggere, mitragliatrici, armi anti-carro, mortai e altra artiglieria. Assai utilizzati sono i fucili simili ai kalashnikov dell’era sovietica, prodotti principalmente in Russia e Cina.

Anche l’Italia ha giocato un ruolo non indifferente nell’armare lo “Stato islamico”, rifornendo durante la guerra del 1980-88, secondo fonti ufficiali Usa reperibili online, sia l’Iraq che, in maniera meno trasparente, l’Iran. Dal 2003, l’Italia ha partecipato alla cosiddetta “guerra al terrore“, nel cui contesto al dipartimento della Difesa Usa fu concessa ulteriore libertà di trasferire armi all’Iraq, attraverso l’Iraq Relief and Reconstruction Fund, prima, e l’Iraq Security Forces Fund, tra il 2004 e il 2007. Ciò esentava il Pentagono dal doversi conformare a qualsiasi disposizione di legge, incluse quelle relative ai diritti umani. In quegli anni, mentre finivano in circolazione le scorte eccedenti delle forze armate irachene sconfitte e poi congedate, la coalizione guidata dagli Usa firmò contratti per almeno un milione di dollari in ulteriori armi leggere e milioni di munizioni, provenienti anche dall’Italia. L’ascesa dello “Stato islamico” e le sue conquiste territoriali tra giugno e agosto 2014 hanno determinato un grande cambiamento nelle politiche internazionali relative alla fornitura di armi nella regione. Nel 2014, infatti, gli Usa hanno coordinato sforzi congiunti per rispondere alla domanda di armamenti dell’Iraq cominciando a rifornire regolarmente, insieme ad altri 11 paesi europei tra cui l’Italia, anche le forze curde che si opponevano nel paese allo “Stato islamico”. Continue Reading

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La guerra in Libia sarà lunga e costerà molte vite

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A tre anni dall’assassinio di Gheddafi, la Libia è nel caos più completo e già si parla con insistenza di risolvere la questione inviando truppe dall’estero per organizzarvi una seconda, micidiale e sciagurata guerra. Nel corso della prima infausta guerra, voluta soprattutto dalla Francia di Sarkozy, il paese ha subito danni immensi, 25 mila morti e distruzioni valutate dal Fondo Monetario Internazionale in 35 miliardi di dollari. Per combattere l’Isis in Libia serve un’operazione diplomatica e militare complessa. Quello che sta avvenendo in Medioriente non è soltanto il trionfo del male, ma il risultato di una lunga crisi degenerativa che non è mai stata affrontata. Il “Califfato dell’orrore” rappresenta appena un gigantesco bubbone, il segno più evidente di una crisi di coscienza e identità che dilania gli islamici. Non soltanto in Iraq e Siria, ma ovunque. I responsabili dell’islamismo radicale sono i Paesi, Arabia Saudita e gli altri Stati del Golfo, che da trent’anni finanziano un certo tipo di Islam. L’Isis può contare su 35mila combattenti tra Siria e Iraq. L’analisi di Vittorio Emanuele Parsi, direttore dell’Alta scuola in economia e relazioni internazionali.

“L’intervento in Libia sarebbe molto lungo e dispendioso, anche in termini di vite umane. Combattere l’Isis è un’operazione complessa. Non bastano i bombardamenti per fermare l’avanzata dell’Isis, com’è evidente in Siria e Iraq. E là comunque ci sono truppe di terra che combattono. Non ci sono interlocutori affidabili, capaci di coordinare gli interventi. L’Egitto lotta contro l’Isis nel Sinai e sarebbe disposto a farlo anche in Libia. Poi bisognerebbe sondare Algeria e Lega Araba se sono disponibili a una missione con legittimità internazionale. E anche i paesi del Golfo, nonostante il loro giochi poco trasparenti, sono inquieti. Obama per la Siria e Iraq ha chiesto tre anni. Per stabilizzare la Libia non è sufficiente armare delle milizie o bombardare, è necessario cercare degli alleati e accettare la prospettiva di un impegno lungo. Però, se non se ne occupa l’Italia, non lo farà nessuno perché siamo noi i primi a dover essere preoccupati di quanto sta accadendo. Il Paese è scivolato progressivamente in una situazione prima di guerra civile, poi di semi-anarchia. Nessuna delle due autorità che reclamano legittimità ha il controllo del territorio. Questo ha permesso la penetrazione dell’Isis, la milizia jihadista più preparata, da est. È uno scenario somalo, solo un po’ più ordinato perché l’Isis è organizzata. Gheddafi aveva deistituzionalizzato il paese, la sua caduta ha lasciato il vuoto. La Libia è un paese molto complesso a livello tribale che il Rais riusciva a governare solo per i metodi brutali che adottava”.

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L’età d’oro delle forze speciali degli USA, in missione in 150 nazioni

US Navy SEALs

“Il seguente articolo è ciò che volevo evidenziare da oltre una settimana, ma le notizie erano così travolgenti che semplicemente non ne ho avuto la possibilità, finora. Avendo spese molto tempo a cercare di capire il mondo, mi stupisco sempre di ciò che leggo. Mentre i lettori abituali di questo sito sono ben consapevoli di come aggressivo e irresponsabile sia l’impero USA, distribuendo risorse militari all’estero, credo che parte delle seguenti informazioni, li renderanno ancora più inquieti.

Durante l’anno fiscale che si è concluso il 30 settembre 2014, le forze delle operazioni speciali (SOF) statunitensi erano presenti in 133 Paesi, circa il 70% delle nazioni del pianeta. Secondo il tenente-colonnello Robert Bockholt, ufficiale delle relazioni pubbliche del Comando Operazioni Speciali (SOCOM). Nell’arco di tre anni le forze d’élite del Paese erano attive in più di 150 Paesi nel mondo conducendo missioni che vanno dai raid notturni alle esercitazioni. E quest’anno potrebbe essere record. Solo un giorno prima del raid fallito che pose fine alla vita di Luke Somers, solo 66 giorni dall’inizio dell’anno fiscale 2015, le truppe d’élite statunitensi avevano già messo piede in 105 nazioni, circa l’80% del totale nel 2014. Nonostante dimensioni e scopi, tale guerra segreta globale in gran parte del pianeta è ignota alla maggior parte degli statunitensi. A differenza della debacle di dicembre nello Yemen, la stragrande maggioranza delle Special Ops rimane completamente nell’ombra, nascosta al controllo esterno. In realtà, a parte modeste informazioni divulgate attraverso fonti altamente selezionate dai militari, fughe ufficiali della Casa Bianca, SEALs con qualcosa da vendere e qualche primizia raccolta da giornalisti fortunati, le operazioni speciali statunitensi sono mai sottoposte a un esame significativo, aumentando le probabilità di ripercussioni impreviste e conseguenze catastrofiche. Il comando è allo zenit assoluto. Ed è davvero un periodo d’oro per le operazioni speciali“. Queste sono le parole del generale Joseph Votel III, laureato a West Point e Army Ranger, quando assunse il comando della SOCOM lo scorso agosto. E non credo che sia la fine, anzi. Come risultato della spinta di McRaven a creare “una rete globale interagenzie di alleati e partner delle SOF“, ufficiali di collegamento delle Operazioni Speciali, o SOLO, sono ora incorporati nelle 14 principali ambasciate degli USA per aiutare a consigliare le forze speciali di varie nazioni alleate. Già operano in Australia, Brasile, Canada, Colombia, El Salvador, Francia, Israele, Italia, Giordania, Kenya, Polonia, Perù, Turchia e Regno Unito, e il programma SOLO è pronto, secondo Votel, ad espandersi in 40 Paesi entro il 2019. Il comando, e soprattutto il JSOC, ha anche forgiato stretti legami con Central Intelligence AgencyFederal Bureau of InvestigationNational Security Agency, tra gli altri. La portata globale del Comando Operazioni Speciali si estende anche oltre, con più piccoli ed più agili elementi che operano nell’ombra, dalle basi negli Stati Uniti alle regioni remote del sud est asiatico, dal Medio Oriente agli austeri avamposti nei campi africani. Dal 2002, SOCOM è stato anche autorizzato a creare proprie task force congiunte, una prerogativa normalmente limitata ai comandi combattenti più grandi come CENTCOM. Si prenda ad esempio la Joint Special Operations Task Force-Filippine (JSOTF-P) che, al suo apice, aveva circa 600 effettivi statunitensi a sostegno delle operazioni di controterrorismo dagli alleati filippini contro gruppi di insorti come Abu Sayyaf. Dopo più di un decennio trascorso combattendo quel gruppo, i numeri sono diminuiti, ma continua ad essere attivo mentre la violenza nella regione rimane praticamente inalterata.

L’Africa è, infatti, diventato un luogo importante per le oscure missioni segrete degli operatori speciali statunitensi. “Questa particolare unità ha fatto cose impressionanti. Che si trattasse di Europa o Africa, assumendovi una serie di contingenze, avete tutti contribuito in modo assai significativo“, aveva detto il comandante del SOCOM, generale Votel, ai membri del 352.mo Gruppo Operazioni Speciali presso la loro base in Inghilterra, lo scorso autunno. Un’operazione di addestramento clandestina delle Special Ops in Libia implose quando milizie o “terroristi” fecero irruzione due volte nella base sorvegliata dai militari libici, e saccheggiarono grandi quantità di apparecchiature avanzate e centinaia di armi, tra cui pistole Glock e fucili M4 statunitensi, così come dispositivi di visione notturna e laser speciali che possono essere visti solo da tali apparecchiature. Di conseguenza, la missione fu abbandonata assieme alla base, che fu poi rilevata da una milizia. Nel febbraio dello scorso anno, le truppe d’élite si recarono in Niger per tre settimane di esercitazioni militari nell’ambito di Flintlock 2014, una manovra antiterrorismo annuale che riuniva le forze di Niger, Canada, Ciad, Francia, Mauritania, Paesi Bassi, Nigeria, Senegal, Regno Unito e Burkina Faso. Diversi mesi dopo, un ufficiale del Burkina Faso, addestratosi all’antiterrorismo negli Stati Uniti nell’ambito del Joint Special Operations presso l’Università del SOCOM nel 2012, prese il potere con un colpo di Stato. Le operazioni delle forze speciali, invece, continuano. Alla fine dello scorso anno, per esempio, nell’ambito del SOC FWD dell’Africa occidentale, i membri del 5° battaglione del 19.mo Gruppo Forze Speciali collaboravano con le truppe d’élite marocchine per l’addestramento in una base presso Marrakesh. Lo schieramento in nazioni africane, però, avviene entro la rapida crescita delle operazione all’estero del Comando delle Operazioni Speciali. Negli ultimi giorni della presidenza Bush, sotto l’allora capo del SOCOM, ammiraglio Eric Olson, le forze speciali sarebbero state dispiegate in circa 60 Paesi. Nel 2010 in 75, secondo Karen DeYoung e Greg Jaffe del Washington Post. Nel 2011, il portavoce del SOCOM, colonnello Tim Nye, disse a TomDispatch che il totale sarebbe stato 120 Paesi entro la fine dell’anno. Con l’ammiraglio William McRaven, in carica nel 2013, l’allora maggiore Robert Bockholt disse a TomDispatch che il numero era salito a 134 Paesi. Sotto il comando di McRaven e Votel nel 2014, secondo Bockholt, il totale si ridusse leggermente a 133 Paesi. Il segretario alla Difesa Chuck Hagel aveva osservato, tuttavia, che sotto il comando di McRaven, dall’agosto 2011 all’agosto 2014, le forze speciali erano presenti in più di 150 Paesi. In effetti, SOCOM e tutti i militari degli Stati Uniti sono più che mai impegnati a livello internazionale, in sempre più luoghi e in una sempre più ampia varietà di missioni“, ha detto in un discorso nell’agosto 2014.

Il SOCOM ha rifiutato di commentare la natura delle missioni o i vantaggi dell’operare in tante nazioni. Il comando non farà neanche il nome di un solo Paese in cui le forze delle operazioni speciali USA sono state dispiegate negli ultimi tre anni. Uno sguardo ad alcune operazioni, esercitazioni ed attività rese pubbliche, però, dipinge un quadro di un comando in costante ricerca di alleanze in ogni angolo del pianeta.

A settembre, circa 1200 specialisti e personale di supporto statunitensi si unirono alle truppe d’élite di Paesi Bassi, Repubblica Ceca, Finlandia, Gran Bretagna, Lituania, Norvegia, Polonia, Svezia, Slovenia nell’esercitazione Jackal Stone, dedicata a tutto, dai combattimenti ravvicinati alle tattiche da cecchino, dalle piccole operazioni su imbarcazione a missioni di salvataggio degli ostaggi. Per i capi delle Black Ops degli USA, il mondo è tanto instabile quanto interconnesso. Vi garantisco che ciò che succede in America Latina influisce su ciò che accade in Africa occidentale, ciò che interessa l’Europa meridionale riguarda ciò che accade nel sud-ovest asiatico“, ha detto l’anno scorso McRaven a Geolnt, un incontro annuale dei dirigenti dell’industria spionistica con i militari. La loro soluzione all’instabilità interconnessa? Più missioni in più nazioni, in più di tre quarti dei Paesi del mondo, sotto il mandato di McRaven. E la scena sembra destinata ad ulteriori operazioni simili in futuro. “Vogliamo essere ovunque“, ha detto Votel a Geolnt. Le sue forze sono già sulla buona strada nel 2015. “La nostra nazione ha aspettative molto alte dalle SOF“, ha detto agli operatori speciali in Inghilterra lo scorso autunno. “Si rivolgono a noi per missioni molto dure in condizioni molto difficili“. Natura e sorte della maggior parte di quelle “missioni dure” tuttavia, rimangono ignote agli statunitensi. E Votel a quanto pare non è interessato a far luce. “Mi dispiace, ma no“, fu la risposta di SOCOM alla richiesta di TomDispatch per un colloquio con il capo delle operazioni speciali sulle operazioni, in corso e future. In realtà, il comando rifiutò di mettere qualsiasi personale a disposizione per una discussione di ciò che fa in nome degli USA e con i dollari dei contribuenti. Non è difficile indovinarne il motivo. Attraverso una combinazione abile di spavalderia e segretezza, fughe ben piazzate, abili marketing e pubbliche relazioni, coltivazione della mistica del superman (con un ciuffo dalla torturata fragilità di lato) e di estremamente popolari e pubbliciazzatti assassinii mirati, le forze speciali sono diventate le beniamine della cultura popolare statunitense, mentre il comando continua a vincere a Washington il pugilato sul bilancio. Ciò è particolarmente evidenziato da ciò che realmente accade sul campo: in Africa, armamento ed equipaggiamento di militanti e addestramento di un golpista; in Iraq, le forze d’elite statunitensi implicate in torture, distruzione di case, uccisione e ferimento di innocenti; in Afghanistan stessa storia, con ripetute segnalazioni di civili uccisi; mentre in Yemen Pakistan, e Somalia è lo stesso. E questo è solo una minima parte degli errori delle Special Ops. Quindi non solo il pubblico statunitense non ha idea di cosa succeda, ma ciò spesso finisce in un disastro. Vedasi più sotto.

Dopo più di un decennio di guerre segrete, sorveglianza di massa, un numero imprecisato di incursioni notturne, detenzioni ed omicidi, per non parlare di miliardi su miliardi di dollari spesi, i risultati parlano da soli. Il SOCOM ha più che raddoppiato le dimensioni e il segreto JSOC sarebbe grande quasi quanto il SOCOM nel 2001. Dal settembre di quell’anno, 36 nuovi gruppi terroristici sono nati, tra cui divesre succursali, propaggini e alleati di al-Qaida. Oggi, tali gruppi ancora operano in Afghanistan e Pakistan, dove ora ci sono 11 riconosciuti affiliati di al-Qaida, e cinque nella prima, così come in Mali, Tunisia, Libia, Marocco, Nigeria, Somalia, Libano e Yemen, tra gli altri Paesi. Un ramo è nato con l’invasione dell’Iraq, alimentato da un campo di prigionia statunitense, ed ora noto come Stato islamico che controlla una larga parte del Paese e della vicina Siria, un proto-califfato nel cuore del Medio Oriente che i jihadisti, nel 2001, potevano solo sognarsi. Quel gruppo, da solo, ha una forza stimata di circa 30000 armati che sono riusciti a conquistare grandi territori ed anche la seconda dell’Iraq, pur essendo incessantemente colpiti fin dall’inzio dal JSOC. “Dobbiamo continuare a sincronizzare il dispiegamento delle SOF in tutto il mondo“, dice Votel. “Dobbiamo tutti sincronizzarci, coordinarci e preparare il comando“. Ad essere fuori sincrono è il popolo statunietnse, costantemente tenuto all’oscuro di ciò che gli operatori speciali statunitensi fanno e dove lo fanno, senza citare i fallimenti e le conseguenze che hanno prodotto. Ma se la storia insegna, i blackout sulle Black Ops contribuiranno a garantire che continui ad esserci l’”età d’oro” dell’US Special Operations Command. Ripetete dopo di me: USA! USA!” Tyler Durden, Zerohedge

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L’invio delle armi in Iraq ci costerà 2 milioni di euro

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Mandare le armi in Iraq ci costerà la bellezza di 1,9 milioni di euro. Lo ha riferito al Parlamento la ministra della Difesa, Roberta Pinotti. Nel 2013, abbiamo spedito in giro per il mondo armamenti per 3 miliardi di euro.

“È autorizzata per l’anno 2014, la spesa di euro 1.965.886 per il trasporto degli aiuti umanitari a favore della popolazione civile irachena effettuato nel mese di agosto, nonché per il trasporto del materiale di armamento ceduto, a titolo gratuito, alla Repubblica dell’Iraq”. È questo il testo dell’emendamento del governo presentato in aula alla Camera, sugli aiuti militari ai peshmerga curdi nell’ambito della crisi in Iraq. Dunque, solo per il trasporto delle armi si prevede una spesa di 1,9 milioni di euro. La consegna inizierà al termine della prima decade di settembre.

L’Italia ha intenzione di consegnare ai militanti curdi:

  • 100 mitragliatrici 42/59 calibro 7,62 con 100 treppiedi con 250mila munizioni
  • 100 mitragliatrici M-2 Browning calibro 12.7 con 250mila munizioni
  • 1.000 razzi per Rpg 7
  • 1.000 razzi per Rpg 9
  • 400mila proiettili calibro 7,62 per mitragliatrici di fabbricazione sovietica (confiscati dall’autorità giudiziaria durante un sequestro in mare avvenuto anni fa, nel corso del conflitto nei Balcani)

Il ministro ha sgombrato il campo dai dubbi circa la legittimità della fornitura ai curdi e l’efficienza del materiale assicurando che “le armi sono funzionanti e c’è una norma che dice che possono essere usate a fini istituzionali, dunque non vedo dove sia il problema”. La copertura finanziaria dell’emendamento viene individuata con la riduzione di spesa prevista per le missioni italiane in Afghanistan.

Rimangono però in sospeso due dubbi. La prima è chi controllerà in che mani finiscano le armi italiane, visto sia la presenza di diverse milizie curde sia perché i miliziani dello Stato Islamico hanno invaso il Nord Iraq con le armi comprate da occidentali e arabi per i ribelli “moderati” siriani, gli stessi che avrebbero venduto Steven all’Isis, il secondo giornalista americano decapitato dai miliziani.

La secondo, più grave, e che dare armi ai Curdi e dargliele direttamente, significa riconoscere il nostro coinvolgimento in un conflitto che è difficile non chiamare guerra. In poche parole, con questa mossa, siamo ufficialmente in guerra contro lo Stato Islamico. Preparaci dunque alle possibili rappresaglie islamiste che potrebbero assumere la forma di atti terroristici. L’Isis, si combatte isolandola in modo chirurgico, senza regalargli e dare per scontata nessuna alleanza, e combattendola contemporaneamente sul piano culturale, economico-logistico, e militare.

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Isis, al-Qaeda e le strategie mediatiche del terrorismo

ISIS-al-Qaeda-terrorismo-Osama-bin-Laden-Abu-Musab-Zarqawi

La strategia del terrore attraverso le decapitazioni dei kuffar contraddistingue IS ed è destinata a continuare perché è parte della sua identità, del suo brand e delle sue origini.

“Noi dobbiamo partire da un presupposto: il terrorismo è comunicazione, ma è molto chiaro. Se noi vogliamo fare paura, dobbiamo minacciare. E questo è un punto fondamentale che il terrorismo conosce bene e da sempre utilizza le strategie della comunicazione come strategie di guerra che si muovono su un campo diverso da quello di battaglia. Come ci sono combattenti capaci sul campo, ci sono combattenti formati nelle nostre università – molto probabilmente – che si preoccupano di fare comunicazione in Is per Is. E questo è un aspetto. Quindi, non servono tanti soldi, ma comunque Is è l’organizzazione che ha più soldi in questo momento. E’ difficile stimare, ma ci sono stime che si attestano attorno ai 5-6-7 milioni di dollari al giorno, come entrate. Da dove? Bè, dal petrolio, primo aspetto: Is controlla buona parte di Siria e Iraq che ha grandi pozzi di petrolio. Oggi viene venduto sottocosto: 25-30 dollari a barile contro i 100. E la prima grande domanda che faccio a tutti è: ma se viene venduta sottocosto, chi lo compra? E questa è una grande domanda, perché non vorrei che quel petrolio girasse attorno a canali strani che poi lo portino comunque alle nostre pompe di benzina: perché staremmo finanziando Is. E questo è un aspetto. Poi, ha conquistato una parte di Iraq: dalla banca centrale di Mosul conquistata sono entrate diverse centinaia di milioni di dollari nelle tasche di Is. E infine, wahabiti arabi sono la testa del serpente da sempre. Soldi, da quelle parti ne arrivano! Ma anche le collocazioni strane di alcuni Paesi del Golfo, come il Qatar in particolar modo: il sostegno che questo Paese sta dando a tutti i movimenti, dal Nordafrica ai mediorientali, è altamente problematico. Sicuramente, ci sono connessioni poco pulite. Dipende da che punto di vista si guardano, ma diciamo molto interessate al finanziamento di Is da parte di istituti nazionali. Il terrorismo “fa cassetta”, rende. Vuol dire che il terrorismo rende comunicativamente e l’esempio più chiaro torna indietro di un po’ di anni, a Osama bin Laden, quando ricordiamoci che spesso venivano annunciati suoi proclami con dei trailer – quindi, con delle “promozioni” – di 20 secondi… Queste promozioni di 20 secondi occupavano i giornali e i media per due giorni, e poi il vero discorso di Osama non compariva. Ma per due giorni, tutto il mondo occidentale era in allarme, in allerta, bloccato per quello che Osama avrebbe potuto dire. Bastava la minaccia, senza realizzare di per sé l’evento. Questo il terrorismo lo sa: lo sa molto bene. Is – oggi la più problematica e più pericolosa organizzazione terroristica che ci troviamo ad affrontare – usa la comunicazione in maniera perfetta per i suoi obiettivi. Le decapitazioni – ricordiamo Berg, ricordiamo Pearl – non sono una novità ed entrano nella strategia comunicativa. Che cosa rappresentano? Una minaccia. E’ una minaccia che Is fa ai suoi nemici. Sono trasmesse con filmati molto semplici e brutali, proprio quelli che vanno a occupare il pubblico più vasto dei media. Ma accanto a questo, infatti, ci sono altri filoni di comunicazione. Abbiamo citato i social: nei social troviamo i profili dei combattenti. Questa è una comunicazione virale: guardatemi, come sono bravo, bello, con una K47, ad ammazzare la gente! Seguitemi! E’ una comunicazione che promuove imitatori per andare a combattere nell’Is. Accanto, c’è il terzo filone della comunicazione: Is, da un mese, ha incominciato a produrre brochure e volantini bellissimi per far vedere come sia bello andare a vivere nello Stato Islamico. Non ci sono fucili: ci sono campi di grano, fiumi che scorrono e panetterie che sfornano pani fumanti. Servono ad attrarre le famiglie. Sono tre linee comunicative in parallelo, strategicamente organizzate, che Is sta utilizzando per organizzare al meglio e stabilizzare al meglio il suo “califfato”. I media fanno parte del gioco, vengono spesso utilizzati – i media occidentali – per le loro caratteristiche, dalle strategie mediatiche del terrorismo”. Marco Lombardi, professore di Sociologia e comunicazione presso l’Università Cattolica e direttore del centro per lo studio del terrorismo dell’ateneo milanese.

ISIS opera in modo indipendente e in opposizione agli altri gruppi del teatro siriano, quali Jabhat al-Nusra, il Fronte Islamico e l’Esercito Libero Siriano con i quali ha avuto frequenti scontri a fuoco con perdite. Inoltre, ISIS è accredito di significative risorse finanziarie derivanti da attività connesse al crimine organizzato nelle aree che controlla, da sovvenzioni della diaspora islamica nel mondo e dalle sponsorizzazioni di alcuni Stati del Golfo. Fino a ottobre 2013, queste risorse finanziarie erano utilizzate da ISIS anche per provvedere a buona parte delle necessità di al-Nusra ma con l’irrigidirsi del conflitto tra le due fazioni, ISIS ha di fatto “tagliato i fondi”, creando serie difficoltà di mantenimento ai combattenti di al-Nusra. Con tali risorse a disposizione il progetto di ISIS, in continuità con ISI, ha da subito mirato alla realizzazione di un Califfato su scala globale: immagine che spesso si ritrova nelle sue comunicazioni sintetizzata in un mondo sotto la bandiera nera.

E’ nell’aprile del 2013 che ISIS cerca di cambiare “pelle” diventando appunto Islamic State of Iraq and the Levant (ISIS/ISIL): ciò venne rifiutato decisamente da al-Nusra per ottenere da Abu Bakr al-Baghdadi (Abu Dua) una ancora più dura risposta espansiva delle attività in Siria. Nell’agosto del 2013, l’intelligence americana valuta ISIS/ISIL ben radicato in Siria, con circa 5.000 combattenti a disposizione molti dei quali stranieri, con controllo diretto delle province di Aleppo, Idlib e Raqqa. Proprio al-Zawhiri, in un messaggio trasmesso da Al-Jazeera nel novembre del 2013 tornava a ordinare lo scioglimento di ISIS riconoscendo Al-Nusra come la fazione del jihad globale legittimata in Siria.

Come si può notare la realtà del jihad combattente, e di conseguenza politico, in Siria è complessa e conflittuale. Ed è conseguenza della profonda ristrutturazione di AQ (al-Qaeda) nel suo complesso.

E’ nota la caratteristica del branding AQ e della sua organizzazione in movimento flessibile, opportunista, in franchising avviata nel 2006 ma arrivata nelle forme ultime dopo la morte di Osama Bin Laden, con la leadership di Al Zawhairi.

Tale riorganizzazione è proprio avviata da Zawahiri nel 2006, con l’idea di rendere operativamente più autonome le componenti regionali di AQ e diminuire la pressione economica su AQ Centrale da parte di queste: in quel tempo i denari cominciavano a scarseggiare. Oggi, come si vede, AQ è frammentata in componenti indipendenti in Medio Oriente, Nord Africa, Penisola Arabica orientate e ispirate dal comando centrale. La conseguenza della autonomia si è concretizzata sia sul piano operativo sia sul piano economico, lasciando maggiore indipendenza a ciascun comandante di definire piani e meccanismi di attrazione delle risorse e del personale combattente. In questo contesto ISIS ha conseguito una serie di vantaggi, che si ricordano: capacità di attrazione di denari, anche con traffici più vicini alla criminalità, con la possibilità di spenderli anche per finanziare i viaggi e la formazione dei combattenti e forza ideale per attrarre seguaci, disponendo dell’unico teatro del jihad direttamente connesso al sogno del Califfato: il Levante (in Sham), dunque in una sorta di terra “mitica”.

jjIl 9 luglio del 2005, al-Zawahiri scriveva una lettera di circa 6000 parole al rivale, combattente Abu Musab Zarqawi: la “discussione” tra i due, sulla interpretazione delle strategie e delle politiche di Al-Qaeda era evidente. Nella lettera, Zawahiri (ala politica ideologica) illustrava a Zarqawi (ala combattente dura) gli obiettivi a lungo termine di AQ in Iraq e Medio Oriente e criticava il comandante militare per il suo modo di fare la guerra agli americani e ai civili iraqeni. Tutte cose che suono molto attuali se lette nel dettaglio.

Infatti, Zawhairi suggeriva di essere pronti, non appena le truppe straniere avessero lasciato l’Iraq, a occupare quanto più territorio iracheno nell’inevitabile vuoto che avrebbero lasciato, per dichiarare un “emirato”, prodomo al futuro esteso “califfato”.

Nella medesima lettera, Zawhairi scriveva a Zarkawi che i musulmani non avrebbero mai trovato di loro gradimento, né accettabili, le scene violente della decapitazione degli ostaggi trasmesse nei video di Zarkawi. Dunque di evitarle.

Come si vede, nel 2005 i due leader di AQ discutevano di avvenimenti che si realizzano, o tornano a realizzarsi, quasi dieci anni dopo.

Eventi comprensibili alla luce della storia di IS, e della linea diretta di successione da al-Zarkawi ad al-Baghdadi. Eventi che ormai confermano l’indipendenza di IS da AQ, il suo brand e la sua identità che si fonda sul sangue e che, pertanto, in questa fase di consolidamento chiamerà ancora più sangue e atrocità nel futuro prossimo. La contesa tra Zawhairi e Zawrkawi finì solo perché un attacco preciso dall’aria eliminò il comandante.

Fonti:

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