Contrariamente a ciò che raccomandano economisti, esperti e organizzazioni internazionali, il “default” non è affatto il peggiore dei mali. Anzi. Perché la crisi economica che stiamo attraversando, prima di essere la crisi del debito pubblico, è la crisi del sistema bancario. È la crisi di un modello economico basato sulla finanza, che ha concentrato la ricchezza nelle mani delle banche a svantaggio del lavoro salariato. I governi, che non hanno tassato patrimoni e capitali e che non hanno contrastato l’evasione verso i paradisi fiscali, si ritrovano oggi pesantemente indebitati nei confronti dei fondi di investimento stranieri, ma soprattutto nei confronti delle banche europee. Queste ultime hanno bilanci fragili. Hanno creato troppo credito rispetto ai depositi e ai fondi propri.”Diritto all’insolvenza” significa, allora, impedire che in nome della solvibilità del debito pubblico si impongano riforme in senso liberista e ulteriori tagli alle politiche sociali. Significa limitazione dello strapotere della finanza e ripristino di un controllo sociale sull’attività bancaria. Significa ripensare la crisi della zona euro a partire dall’urgenza di nuovi modelli di produzione e di investimento. Il diritto all’insolvenza parte da una domanda semplice: perché dobbiamo pagare per debiti fatti da altri?
I debiti illegittimi, o se preferite “odiosi”, hanno spesso dato inizio ad un’esplosione che dal 1980 a oggi ha portato l’indebitamento estero dei paesi in via di sviluppo a moltiplicarsi otto volte. Nel 2010 la Banca Mondiale misurava in 4.076 miliardi di dollari lo stock di debito estero accumulato da questi paesi, per un costo annuo di 583 miliardi di spesa per interessi. Di questo debito, 1647 miliardi (il 40% circa) costituiscono debito pubblico, e sono dovuti per il 46% a compagnie private, per il 33% ad Istituzioni Internazionali, e per il restante 21% a singoli stati. Guardando alla ripartizione geografica, quasi il 30% del debito pubblico estero è detenuto dai paesi dell’America Latina.
Prefazione del saggio di François Chesnais su “Debiti illegittimi e diritto all’insolvenza. Quando sono le banche a dettare le politiche pubbliche” .
Questa prefazione viene scritta mentre Georges Papandreou ha appena annunciato, il primo novembre, l’organizzazione di un referendum sulle ultime misure di «aiuto» alla Grecia contenute nel travagliato accordo europeo del 26-27 ottobre. La sua decisione può essere vista come una misura disperata da parte di un uomo a fine corsa, distrutto dall’estensione e dalla tenacia della resistenza popolare ai piani di austerità e logorato dal comportamento dei dirigenti francesi e tedeschi nei suoi confronti. L’azione dei giovani ad Atene e a Salonicco nello scorso giugno, lungo la scia del movimento degli Indignati spagnoli, ha rinvigorito una resistenza che si esprime su qualunque terreno. Le confederazioni sindacali sono state obbligate a indire due scioperi generali consecutivi, prima in giugno e poi il 19 ottobre, rendendo l’autorità del governo e del parlamento sempre più problematica. La decisione di Papandreou traduce tanto il carattere socialmente insostenibile della serie di piani di austerità imposta alla Grecia, quanto il carattere politicamente insopportabile della decisione di spedire una squadra di sorveglianza della «trojka» – Commissione, Bce, Fmi – in permanenza ad Atene. Che il referendum abbia luogo o meno, che Papandreou mantenga il posto di Primo ministro o venga cacciato, in Grecia si è aperta una fase di instabilità politica che è possibile prevedere si estenda in altri luoghi della zona euro. L’improvvisa e inattesa comparsa del movimento Occupy Wall Street e il successo politico, innegabile sul piano simbolico, della giornata mondiale del 15 ottobre hanno con questo qualcosa a che vedere. Coi militanti americani che puntando il dito contro il cuore della finanza a Wall Street, a cambiare è il clima politico mondiale nel suo complesso. L’annuncio di un possibile referendum in Grecia ha di nuovo provocato l’ennesimo crollo delle borse, con quelle di Parigi e Milano che il primo novembre risultano le più toccate in ragione del forte arretramento dei valori bancari delle grandi banche francesi e italiane. I governi saranno obbligati a mettere in campo progetti di ricapitalizzazione delle banche il cui contenuto è rimasto molto vago al termine della maratona di Bruxelles. Se la ricapitalizzazione si fonda su finanze pubbliche, come è stato il caso a inizio ottobre per la banca franco-belga Dexia, questo provocherà un ribasso dei giudizi sui paesi da parte delle agenzie di rating. Quelli di Francia e Belgio ne sono minacciati dal 2010. L’annuncio del referendum in Grecia ha ugualmente provocato un rialzo dei tassi di interesse sui debiti pubblici ritenuti più vulnerabili. Dopo la Grecia, il Portogallo e la Spagna, l’Italia è diventata il bersaglio degli investitori finanziari. La prima decisione che il nuovo presidente della Bce, Mario Draghi, è stato obbligato a prendere non appena insediato riguarda l’acquisto di titoli italiani e spagnoli. Il 2 novembre, l’emissione da parte dell’Italia di titoli a dieci anni è avvenuta al tasso record del 6,6%. Lo stesso giorno, l’emissione di titoli a dieci anni da parte del Fondo di stabilità monetaria non ha pressoché trovato acquirenti e dovrà essere rifatta, cosa che mette in dubbio la credibilità di uno dei principali strumenti di sostegno ai paesi della zona euro creato dall’Unione europea. Le decisioni assunte il 26-27 ottobre diventano per questo tanto più problematiche. La natura fortemente prociclica delle politiche di austerità di bilancio e di accelerazione delle privatizzazioni che abbiamo analizzato in questo libro viene oggi largamente riconosciuta, persino molto al di là del circolo degli economisti di sinistra. La Grecia è passata da un tasso di crescita di -2,5% nel primo trimestre 2010 a uno di -5,6% nel terzo trimestre 2011, ma il consiglio degli osservatori più lucidi sulla necessità di una ristrutturazione del suo debito, ovvero di una parziale moratoria, non è stato seguito. La recessione è stata così forte che la riduzione del deficit corrente si è accompagnata a un continuo aggravarsi del rapporto tra debito e Pil, che è passato dal 120% al 150%. In Francia, caso analizzato più avanti, il rapporto tra debito e Pil è cresciuto di tre punti in un anno e, stando alle ultime previsioni, nel 2012 toccherà l’87,4%, per effetto di un rallentamento di cui la politica di austerità è una delle cause. Eppure, l’abbandono di queste politiche non sembra essere in discussione. Non solo perché sono parte integrante dell’arsenale neoliberista e del suo credo, ma anche in virtù della fragilità di molte banche. È una delle questioni centrali di questo libro. Perché da parte degli economisti c’è stata una certa reticenza nel riconoscere che la crisi del debito pubblico di fatto nascondeva – e continua a nascondere – una crisi delle banche, soprattutto europee. I loro bilanci sono gravati da una somma di crediti troppo alti – crediti privati più che crediti pubblici –, di cui una parte è inesigibile e un’altra molto vulnerabile in caso di recessione. I governi e la finanza sono ostaggio della seguente contraddizione: le politiche di austerità portate avanti per ridurre il deficit corrente di bilancio e rassicurare le agenzie di rating e gli investitori finanziari del genere Hedge Funds portano a una contrattazione che indebolisce le banche rendendo più difficile la riscossione di tutte le forme di credito. Da parte dei governi e dei centri di potere della finanza e della grande industria assistiamo allora a fughe in avanti. Si tratta della rappresentazione del vicolo cieco in cui si è messo il capitale al termine di una fase in cui si è dovuto ricorrere al massiccio indebitamento per sostenere la crescita e prolungare le false euforie, o piuttosto le menzogne, di un capitalismo «trionfante» sempre più preda della corruzione. Adesso occorre trasferire la responsabilità di questo stato di cose su altri e continuare, nel bene e nel male, a drenare flussi di ricchezza, di vera sostanza economica, così che il servizio degli interessi del debito sia garantito e il rimborso dei prestiti effettuato quando essi vengono a scadenza. I governi e i media si servono allora di ripetute campagne di colpevolizzazione di massa dei cittadini, perché «capiscano e accettino i sacrifici». L’occultamento delle origini del debito pubblico è una delle condizioni perché l’ingiunzione a «onorare il debito» possa continuare a funzionare. È qui che interviene la necessità, o più precisamente la pressante esigenza, di sondare il debito da molto molto vicino. La genesi e la crescita del debito sono specifici per ogni paese ed è solo esaminandole attentamente che diventa possibile definirne la natura, almeno in parte, odiosa – caso della Grecia – o illegittima, come è il caso di molti paesi. Nel caso della Francia (dove il debito ha raggiunto oltre l’80% del Pil), il principio di analisi formulato in questo libro mostra che la sua illegittimità proviene tanto da un’alta spesa pubblica che presenta i tratti di un regalo fatto al capitalismo (nella fattispecie all’industria degli armamenti), quanto dalla politica fiscale e il modo in cui si è declinata una politica che consiste nel compensare con il prestito l’abbassamento dell’imposizione sul reddito, sul capitale e sul profitto delle imprese, dando prova di grande lassismo in materia di evasione fiscale. Sta ai lettori di questo libro decidere se un lavoro simile può essere fatto anche per l’Italia. L’illegittimità deriva anche dall’esame delle operazioni di «prestito» che dovremmo «onorare». Poiché l’ingiunzione a pagare il debito fa appello a riflessi multisecolari, soprattutto di origine contadina. Si fonda implicitamente sull’idea che a essere date in prestito siano somme frutto di un risparmio pazientemente accumulato attraverso un duro lavoro. È forse questo il caso del risparmio delle famiglie o delle risorse dei sistemi pensionistici per capitalizzazione. Non è quello delle banche o degli Hedge Funds. Quando questi «prestano agli Stati» acquistando dei buoni del Tesoro messi in vendita dai ministeri delle Finanze, si tratta di somme fittizie la cui messa a disposizione si fonda sull’azionamento di un «effetto leva» molto alto, costruito simultaneamente su una rete di transazioni interbancarie e sulla cartolarizzazione di crediti già dalla loro creazione. Anche su questo punto sarebbe possibile procedere a un’analisi, sulla base delle informazioni disponibili, delle operazioni delle grandi banche italiane. La crisi delle banche che si è mostrata in pieno giorno, dopo essere stata truccata da debito degli Stati, è sintomo di un fenomeno più esteso. È una delle manifestazioni della situazione di semiparalisi nella quale versa l’economia capitalistica mondiale, in virtù dell’incapacità da parte dei governi, dei centri privati del potere finanziario e della grande industria a pensarne il funzionamento in termini diversi da quelli dei metodi di una crescita costruita dentro la cornice della globalizzazione neoliberista. Sul piano tanto nazionale quanto mondiale, la borghesia proietta sulla popolazione laboriosa, e in particolare sui giovani, un futuro di povertà e frustrazione, quando non è di miseria. La finanza nata dalla liberalizzazione viene attentamente passata al vaglio nel primo capitolo di questo libro. E la conclusione è che essa non sia riformabile. È l’espressione concentrata di un obiettivo di valorizzazione del capitale, come dice Marx «senza fine e senza limiti», a prescindere dalle conseguenze sociali ed ecologiche per l’umanità. La lotta contro il capitale ha sempre richiesto la ricerca di leve per un’azione comune. Il problema dei debiti europei e del loro annullamento è una di queste leve. E quando una di esse può creare le condizioni per una transizione economica e sociale, occorre afferrarla. È il senso di questo libro e la ragione della mia grande felicità per la sua pubblicazione italiana. 2 novembre 2011.