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La mano di Giulio

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E’ morto oggi alle 12.25 nella sua abitazione di Roma Giulio Andreotti.  Aveva compiuto 94 anni il 14 gennaio scorso. Senatore a vita dal 1991, è stato il 16º, 19º e 28º Presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica Italiana e ha ricoperto più volte numerosi incarichi di governo. E’ morto un pezzo della storia italiana, con tutti i suoi segreti. Andreotti e la politica dei famosi accordi con la Mafia. Il condannato prescritto per mafia, questa la sentenza, confermata in Cassazione, con la quale la Corte d’Appello di Palermo, il 3 maggio 2003, ha assolto il sen. Andreotti per intervenuta prescrizione del reato di associazione a delinquere. “Andreotti ha commesso il reato di partecipazione all’associazione per delinquere (Cosa Nostra, ndr)… concretamente ravvisabile fino alla primavera 1980… estinto per prescrizione. L’imputato ha indotto i mafiosi a fidarsi di lui e a parlargli anche di fatti gravissimi (come l’assassinio di Mattarella) nella sicura consapevolezza di non correre il rischio di essere denunciati, ha omesso di denunciare le loro responsabilità, malgrado potesse, al riguardo, offrire utilissimi elementi di conoscenza. Aveva una propensione a intrattenere personali, amichevoli relazioni con esponenti di vertice di Cosa Nostra… (per) utilizzare la struttura mafiosa per interventi extra ordinem … forme di intervento para-legale che conferisce, a chi sia in possesso dei canali che gli consentano di sperimentarle, un surplus di potere rispetto a chi si attenga ai mezzi legali. La manifestazione di amichevole disponibilità verso i mafiosi è stata consapevole e autentica e non meramente fittizia. I fatti non possono interpretarsi come una semplice manifestazione di un comportamento solo moralmente scorretto e di una vicinanza penalmente irrilevante, ma indicano una vera e propria partecipazione alla associazione mafiosa, apprezzabilmente protrattasi nel tempo”. 

Questo scrisse  nella prefazione del  libro L’innocenza di Giulio, Gian Carlo Caselli il procuratore che avviò il processo al senatore a vita.

Lo ammetto. Sono un mostro. Nel senso latino di monstrum: un essere fuori dell’ordine naturale. Eh sì, perché sono l’unico giudice in Italia (credo al mondo) che può «vantare» una legge scritta apposta per lui, contro di lui. Nel paese delle leggi ad personam, che hanno inquinato il sistema violando i principi fondamentali dell’ordinamento e la stessa regola di «buona fede legislativa», troviamo – tanto per non farci mancare nulla – anche una legge «contra personam», scritta apposta per impedirmi di partecipare alla nomina del nuovo procuratore nazionale antimafia dopo che Piero Luigi Vigna era scaduto dall’incarico. Perché tutta questa attenzione? Detto e ripetuto pubblicamente da fior (si fa per dire) di uomini politici: dovevo pagare il processo al senatore Andreotti perché, come capo della Procura di Palermo – dove avevo chiesto di essere mandato dopo le stragi Falcone e Borsellino – avevo osato indagare e poi processare il Divo Giulio. La legge «contra personam» sarà poi dichiarata incostituzionale e cassata dal nostro ordinamento, ma frattanto i giochi erano ormai irreversibilmente fatti: io (il mostro) estromesso dal concorso, senza che nessuno trovasse nulla da ridire, né chi si vedeva tolto dai piedi un concorrente, né il Csm che aveva accettato disinvoltamente di concludere una procedura inquinata da un cambiamento delle regole a partita aperta e ormai quasi conclusa. Peccato che da «pagare», per il processo Andreotti, non ci fosse un bel niente. Al contrario, la conclusione del processo dà sostanzialmente ragione all’accusa, che perciò non ha nulla da farsi perdonare, anzi. Vero è che la stragrande maggioranza dei cittadini italiani è convinta (in perfetta buona fede, perché questo le è stato fatto credere con l’inganno) che Andreotti sia innocente. Di più: vittima di una persecuzione che lo ha costretto a un doloroso calvario di una decina d’anni per l’accanimento giustizialista di un manipolo di manigoldi. Ma la realtà vera è ben diversa, come anche questo lavoro di Giulio Cavalli facilmente dimostra. Per parte mia, cosa dire di più? Può essere utile una breve storia del processo. In primo grado l’imputato Andreotti viene effettivamente assolto. Di fatto per insufficienza di prove, ma assolto. Contro l’assoluzione ricorrono la Procura della repubblica e la Procura generale. La Corte d’appello di Palermo riforma la sentenza del tribunale. L’imputato è dichiarato responsabile del delitto di associazione a delinquere con Cosa nostra per averlo «commesso» (sic) fino al 1980; il delitto è commesso ma prescritto, e solo per questo motivo all’affermazione di colpevolezza non segue la condanna. Dopo il 1980 la Corte conferma l’assoluzione. Contro la sentenza d’appello ricorre in Cassazione l’accusa, perché vuole che la colpevolezza sia riconosciuta anche dopo il 1980. Ma in Cassazione (attenzione!) ricorre anche la difesa. È la prova provata che fino al 1980 non c’è stata assoluzione. Non esiste al mondo, infatti, che l’imputato assolto ricorra contro se stesso. Se lo fa, è per ottenere un’assoluzione vera (non spacciata come tale in favore di telecamere urlando «E vai!»). Ora, poiché la Suprema corte ha confermato definitivamente e irrevocabilmente la sentenza d’appello, è semplicemente falso sostenere che Andreotti è stato assolto. Fino al 1980 è stata provata la sua responsabilità per il delitto – ripeto – di associazione a delinquere con Cosa nostra. Fatti gravissimi, meticolosamente elencati e provati per pagine e pagine di motivazione, sfociano nel dispositivo finale. Dimenticavo: ricorrendo in Cassazione l’imputato avrebbe potuto rinunciare alla prescrizione, ma si è ben guardato dal farlo. Forse perché troppo… innocente.

La sentenza che pochi hanno letto. Andiamo a rileggere l’ultima pagina della sentenza della Corte d’appello di Palermo del 2 maggio 2003 (poi confermata in Cassazione) che, a quanto pare, in pochissimi hanno letto e moltissimi non hanno mai voluto o potuto conoscere. I fatti che la Corte ha ritenuto provati in relazione al periodo precedente la primavera ’80 dicono che il sen. Andreotti ha avuto piena consapevolezza che i suoi sodali siciliani intrattenevano amichevoli rapporti con alcuni boss mafiosi; ha quindi coltivato, a sua volta, amichevoli relazioni con gli stessi boss; ha palesato agli stessi una disponibilità non meramente fittizia, ancorché non necessariamente seguita da concreti, consistenti interventi agevolativi; ha loro chiesto favori; li ha incontrati; ha interagito con essi; ha loro indicato il comportamento da tenere in relazione alla delicatissima questione Mattarella, sia pure senza riuscire, in definitiva, a ottenere che le stesse indicazioni venissero seguite; ha indotto i medesimi a fidarsi di lui e a parlargli anche di fatti gravissimi (come l’assassinio del presidente Mattarella) nella sicura consapevolezza di non correre il rischio di essere denunziati; ha omesso di denunziare le loro responsabilità, in particolare in relazione all’omicidio del presidente Mattarella, malgrado potesse al riguardo offrire utilissimi elementi di conoscenza. […] Dovendo esprimere una valutazione giuridica sugli stessi fatti, la Corte ritiene che essi non possano interpretarsi come una semplice manifestazione di un comportamento solo moralmente scorretto e di una vicinanza penalmente irrilevante, ma indicano una vera e propria partecipazione all’associazione mafiosa apprezzabilmente protrattasi nel tempo. […] Si deve concludere che ricorrono le condizioni per ribaltare, sia pure nei limiti del periodo in considerazione [cioè prima della primavera del 1980, nda], il giudizio negativo espresso dal tribunale in ordine alla sussistenza del reato e che, conseguentemente, siano nel merito fondate le censure dei pubblici ministeri appellanti. Non resta, allora, che […] emettere, pertanto, la statuizione di non luogo a procedere per essere il reato concretamente ravvisabile a carico del sen. Andreotti estinto per prescrizione. All’università insegnavano (e forse ancora si insegna) che la pronuncia di Cassazione «facit de albo nigrum… aequat quadrata rotundis». Latino facile, evidentemente ignorato dai commentatori della sentenza Andreotti. Eppure, che le parole sono pietre e quelle della Cassazione addirittura macigni lo sanno tutti. Persino… er Monnezza. Mi riferisco a uno dei polizieschi anni Settanta interpretati da Tomas Milian. Per convincere un amico, il maresciallo Giraldi urla: «Aò, quello che te sto a di’ è Cassazione!». Come a dire, non puoi dubitarne. Evidentemente ciò che vale per er Monnezza non vale per il resto del nostro paese. Dunque «è Cassazione» il fatto che, per un congruo periodo di tempo, il senatore Andreotti è stato colluso con Cosa nostra. Questa verità dovrebbe rimanere scolpita nella memoria del paese, specialmente se parliamo di una persona che per sette volte è stata presidente del Consiglio e per ventidue volte ministro. E invece no. Queste parole sono state sapientemente esorcizzate, stravolte, cancellate. Le sentenze (emesse in nome del popolo italiano) vanno motivate affinché il popolo possa sapere per quali motivi appunto si viene assolti o condannati, ma anche perché il popolo possa conoscere i fatti che stanno alla base dei motivi per cui una persona è chiamata a rispondere di determinate azioni di fronte a un tribunale. Qui il popolo è stato truffato. Dalla motivazione di tutte le sentenze – anche da quella di primo grado, che assolve per insufficienza di prove – emerge una realtà sconvolgente: scambi di favori e, soprattutto, riunioni (per discutere di fatti criminali gravissimi) con capimafia del calibro di Stefano Bontate, provate dalle veridiche dichiarazioni di Francesco Marino Mannoia, testimone oculare di uno di questi incontri. Realtà sconvolgenti, consacrate (ribadisco) da una sentenza passata in giudicato. Sarebbe lecito – almeno – attendersi riflessioni, dibattiti, confronti, analisi. Sarebbe opportuno chiedersi cosa mai sia successo davvero in quella stagione. Su che cosa si sia basato, almeno in parte, il meccanismo del consenso nel nostro paese. Niente di tutto questo. Tutto è stato cancellato, nascosto. Se ne è parlato soltanto per stravolgere i fatti, da parte di tutti: autorevoli leader politici, illustri opinion maker, finanche vertici istituzionali. Dopo la cosiddetta «assoluzione» è stata una corsa alle telefonate di congratulazioni, alle pubbliche e stucchevoli attestazioni di stima. Il massimo dell’impudenza lo raggiunge il presidente della Commissione parlamentare antimafia Roberto Centaro che – all’indomani della sentenza della Corte d’appello – dichiara pubblicamente: «Il grande dibattito mediatico, che si è sovrapposto e ha sostituito il processo, ha seguito i ritmi dell’“analisi politica” (già sperimentata per la valutazione delle responsabilità per le stragi del 1992 e del 1993), pervenendo a un tentativo di condanna, o di attribuzione di mafiosità malamente sbugiardato [corsivo mio, nda] dalle pronunce giurisdizionali. Ciò ha comportato, comunque, l’insinuarsi di ombre e veleni. L’unico risultato è stata una crescente confusione nei cittadini e un senso di sfiducia nelle istituzioni, a fronte di affermazioni perentorie poi rivelatesi infondate in corso d’opera». Centaro ha visto un altro processo, vive in un altro mondo.

La verità negata. La verità è fatta a brandelli. E la sinistra non è stata da meno. Una forza politica che ha sempre fatto della «questione morale» un punto (apparentemente) fondante, non dico che della vicenda dovesse farne una bandiera, ma quanto meno discuterne. Invece l’ha a dir poco rimossa. Anna Finocchiaro, ad esempio, ha liquidato come «inutile perdita di tempo la discussione sulle vicissitudini giudiziarie del senatore Andreotti». Clemente Mastella, ineffabile ministro della Giustizia, ha dichiarato che «invece di parlare della sentenza di Palermo, ad Andreotti bisognerebbe fare un monumento». In questo Mastella è stato ampiamente soddisfatto. Sulla vicenda processuale si è innestato un processo di santificazione mediatica con la sapiente e sottile tessitura dello stesso Andreotti. Grazie alla connivenza di molta politica e di molta informazione egli è riuscito a far passare in secondo piano i gravi fatti evidenziati dal processo, fino a cancellarli. Ha esibito se stesso in mille circostanze su un’infinità di media, cerimonie e manifestazioni, rivitalizzando così il profilo di un grande statista di prestigio internazionale, apprezzato da molti (Vaticano in primis). Fino a sfiorare la nomina alla presidenza del Senato, dopo essere stato designato per rappresentare l’Italia ai funerali di Boris Eltsin. Senza disdegnare, nel contempo, incursioni da star nel mondo della pubblicità, facendo il testimonial della famiglia per la Chiesa cattolica o prestandosi, al fianco di una procace attrice, a promuovere una marca di cellulari. Il risultato è stato una sorta di dilagante giudizio parallelo, nel quale il senatore ha cercato – riuscendoci – di offrire di sé un’immagine di altissimo profilo incompatibile con le bassezze processuali rimestate da piccoli giudici. Anzi – verrebbe da dire – dentro le quali grufolavano piccoli giudici. Una strategia che ha pagato, perché ha trovato un’infinità di sponde, che hanno stravolto la verità, massacrando la logica e il buon senso. Con una conseguenza che va ben oltre il perimetro del processo Andreotti. Parlare di assoluzione, anche a fronte delle gravissime responsabilità provate fino al 1980, non è solo uno strafalcione tecnico. Significa in realtà legittimare (per il passato, ma pure per il presente e il futuro) una politica che contempla anche rapporti organici con il malaffare, persino mafioso. Per poi stracciarsi le vesti se non si riesce – oibò! – a sconfiggere la mafia. Lo ha sottolineato il corrispondente dell’«Economist» David Lane in un’intervista rilasciata al «Venerdì di Repubblica»: premesso che «i politici e i media hanno raccontato un’altra storia, come se la Suprema corte avesse detto che [Andreotti] era innocente», Lane si chiede che cosa questo fatto comporti «sulla determinazione nella lotta al crimine», e risponde che si tratta di «un messaggio chiaro, che piace ai mafiosi». Ovviamente non è con messaggi di questo tipo che si vince la guerra alla mafia. L’intelligente ironia di Giulio Cavalli, dunque, ci offre non solo preziosi elementi di conoscenza di una verità dolosamente nascosta. È anche un antidoto potente contro una patologia che affligge pesantemente il nostro paese: la perdita di memoria che sconfina nell’amnesia, l’irresponsabile sottovalutazione del pericolo che si corre quando si occulta il passato. In sostanza, una mancanza continuativa di coscienza etica, fino all’eclissi della questione morale.

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Piero Grasso e le Travagliate amicizie

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“Piero Grasso non è quello che sembra” tuona Marco Travaglio. Grasso viene definito il cocco del Pdl (che lo impose alla Pna, estromettendo per legge Caselli), del Centro (che voleva candidarlo) e del Pd (che l’ha candidato). In effetti i suoi rapporti col Potere sono da sempre idilliaci: specie da quando subentrò a Caselli alla Procura di Palermo e subito se ne dissociò, abbandonò le indagini su mafia e politica (Cuffaro a parte), allontanò dalla Dda i pm più impegnati su quel fronte, lasciò nel cassetto le carte sequestrate a Ciancimino sulla trattativa, rifiutò di controfirmare l’appello contro l’assoluzione di Andreotti in primo grado, meritandosi gli elogi di Berlusconi e C. e dei “riformisti” centrosinistri, infine ritirò il premio: la legge Bobbio (An), poi dichiarata incostituzionale, che di fatto lo nominava procuratore nazionale antimafia estromettendo il suo unico concorrente Caselli. Da allora, democristianamente, si barcamena. Un giorno dice: “Le stragi furono date in subappalto a Cosa Nostra per gettare l’Italia nel caos e dare la possibilità a un’entità esterna di proporsi come soluzione”, insomma “agevolare l’avvento di nuove realtà politiche che potessero poi esaudire le sue richieste”. Cioè Forza Italia. Un altro, fra gli applausi dei Gasparri, propone “un premio speciale a Berlusconi e al suo governo per la lotta alla mafia”. In attesa del confronto tv tra Grasso e Travaglio godetevi un estratto dal libro di Marco Travaglio e Saverio Lodato Intoccabili“. Da rabbrividire il capitolo riguardante il procuratore Grasso con vicende quasi sconosciute ai più.

Nel luglio del 1999 Gian Carlo Caselli lascia dopo sei anni e mezzo la Procura di Palermo per trasferirsi a Roma come direttore del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria). Ha programmato tutto per andarsene all’indomani della sentenza del Tribunale su Andreotti. Invece un lungo sciopero degli avvocati provoca un inatteso slittamento delle ultime udienze a dopo l’estate. Così l’ormai ex procuratore apprenderà dell’assoluzione del suo imputato più famoso quando già è stato trasferito nella capitale. A Palermo inizia la «fase 3» dell’antimafia. Segnata prima dall’illusione di una continuità con il recente passato. E poi dalla brusca disillusione, di fronte alla realtà di una Procura che sembra ricalcare i passi di una stagione che si sperava definitivamente sepolta. Il Csm designa come nuovo procuratore Piero Grasso, siciliano, 54 anni, ex giudice al tribunale di Palermo, negli ultimi anni pm alla Procura nazionale Antimafia. Già nel 1992 s’era candidato, con la sponsorizzazione del ministro Martelli. Ma il Csm gli aveva preferito Caselli. In un’intervista a Enrico Bellavia e Attilio Bolzoni della «Repubblica», il nuovo procuratore si presenta così: «Sono nato a Licata il 1° gennaio 1945. Veramente sono nato qualche giorno prima, ma i miei genitori mi hanno registrato a gennaio per farmi risultare del ’45 e non del ’44, insomma per farmi guadagnare un anno, allora si usava così. E in effetti, nella mia vita ho guadagnato tempo…». A 4 anni e qualche mese, la prima elementare. A 17 la maturità. A 21 la laurea. A 24 anni la toga di magistrato. «Primo incarico la Pretura di Barrafranca, ma mentre studiavo per il concorso ho lavorato alla segreteria tecnica dell’ufficio di igiene, qui in città [Palermo, N.d.A.] sono venuto quando avevo un mese, sono nato a Licata perché là mio padre lavorava alle Imposte Dirette…». Scrivono Bellavia e Bolzoni: Barrafranca, campagne gialle e arse d’estate e un vento gelido che soffia d’inverno, Sicilia interna, gli abitanti si chiamano barresi, nei bar fanno gelati alla ricotta. Dal piccolo paese dell’entroterra subito a Palermo, sono i primi anni Settanta. Qui è stato appena ucciso un magistrato, il procuratore Pietro Scaglione. Si apre la tragedia siciliana moderna. […] «Arrivammo in tanti al Palazzo di Giustizia in quel periodo», ricorda Grasso, «c’era Mimmo Signorino, c’era Giusto Sciacchitano e c’ero anch’io […]. Eravamo tutti ragazzi, Rocco Chinnici ci chiamava i plasmoniani, i primi italiani cresciuti con i biscotti Plasmon.» Domenico Signorino era suo amico, poi anni dopo fu sospettato di collusioni mafiose. Nel 1992 si suicidò.

Alla Procura di Palermo, Grasso fa un paio d’anni di gavetta, poi viene subito catapultato in inchieste di mafia. Sono gli anni dell’ennesima, grande mattanza. Mario Francese, Michele Reina, Boris Giuliano, Cesare Terranova, Piersanti Mattarella. Quando muore ammazzato il presidente della Regione, Grasso è il pm di turno. Poi il clima in Procura e all’Ufficio istruzione si fa irrespirabile, fra veleni e corvi. Lui chiede il trasferimento e diventa giudice. Un giorno, a metà degli anni Ottanta, lo chiama il presidente del Tribunale: Mi propose di fare il giudice a latere nel maxiprocesso che si doveva celebrare. Io chiesi 24 ore di tempo per decidere: ne volevo parlare con Maria, mia moglie. Dovevamo decidere insieme, io non avevo mai avuto una scorta, non avevo mai fatto parte del pool [antimafia, N.d.A.], sapevo che se avessi accettato quell’incarico sarebbe cambiata per sempre non solo la mia vita, ma anche quella della mia famiglia. Dissi a Maria tutto quello che sarebbe accaduto e che puntualmente poi è accaduto: riceveremo minacce, vivremo come prigionieri, saremo sottoposti a pressioni di ogni genere […]. Alla fine decidemmo democraticamente […]. No, non fu molto democratica la scelta, perché annunciai a mia moglie: se rifiuto, io lascio la magistratura. Così diventai giudice a latere nel maxiprocesso a Cosa Nostra. Le minacce arrivano subito. In tempo reale. Lo stesso giorno in cui accetta, qualcuno citofona a casa sua. Risponde la moglie Maria. La voce scandisce poche parole: «I figli si sa quando escono, ma non si sa mai quando tornano». Il figlio Maurilio, 14 anni, è appena uscito da casa. Lo manderanno fuori Palermo per un po’.

Processare 400 boss, accusati dal pool di Falcone e Borsellino, è un’impresa mai tentata prima. Tre anni di lavoro: sei mesi di preparativi, venti mesi di udienze, un mese e mezzo di camera di consiglio, poi la sentenza e altri otto mesi per scrivere le motivazioni: 8.000 pagine. L’anziano presidente Alfonso Giordano affida il compito a Grasso, che chiede una mano a un nugolo di giovani uditori appena arrivati. Fra di loro ci sono Alessandra Camassa, Franca Imbergamo, Donatella Puleo, Massimo Russo e Antonio Ingroia, questi ultimi allievi prediletti di Borsellino. Depositato il malloppo, Grasso viene chiamato a fare il consulente della commissione Antimafia dal presidente comunista Gerardo Chiaromonte. E si trasferisce a Roma. È il 1989. Due anni dopo, nella capitale arriva anche Falcone, sconfitto prima nella corsa alla guida dell’Ufficio istruzione, poi nella Procura di Giammanco: il ministro Martelli (governo Andreotti) lo nomina direttore degli Affari penali. Grasso è il suo vicecapo di gabinetto. Poi l’estate del ’92: Capaci, via D’Amelio. Nel gennaio ’93, mentre Caselli s’insedia a Palermo, Grasso entra nella neonata Procura nazionale, diretta prima da Bruno Siclari e poi da Piero Luigi Vigna. Proprio in quei giorni la mafia progetta di assassinarlo a Monreale, dinanzi all’abitazione della madre. Poi, all’ultimo momento, il piano viene annullato grazie all’arresto di Riina. Sei anni e mezzo alla Dna. Infine, nel ’99, l’agognata Procura di Palermo.

L’amicizia con Dell’Utri. «Da Caselli», dichiara subito Grasso, «ho ereditato una squadra straordinaria, e non solo sul fronte dell’antimafia». Ci sono, insomma, tutti i presupposti per garantire la continuità di una stagione luminosa, che ha restituito prestigio e autorevolezza alla giustizia siciliana, dopo tanti veleni e morti ammazzati. Il pedigree di Grasso è di tutto rispetto, ed è per questo che le correnti togate più vivaci e attente alla lotta alla mafia, quelle «progressiste» di Magistratura democratica e del Movimento per la giustizia (fondato da Falcone e Almerighi, a cui è iscritto anche Grasso), non hanno dubbi quando debbono sostenere l’ex giudice del maxiprocesso contro un concorrente più anziano e titolato come Giovanni Puglisi, presidente dei gip di Palermo. Il loro appoggio è determinante per la sua nomina. Anche gli uomini di Caselli, a Palermo, fanno il tifo per lui. Sempre nell’intervista alla «Repubblica», il neoprocuratore incappa in una strana sbavatura che riguarda un imputato eccellentissimo della Procura di Caselli: Marcello Dell’Utri, l’uomo che, pochi mesi prima, il Parlamento ha salvato dall’arresto. Ecco: è in questo clima convulso che Grasso lascia cadere un particolare autobiografico che non è un bel segnale per i suoi sostituti impegnati nel processo Dell’Utri e tirati per i capelli in polemiche politiche furibonde. Interpellato dai giornalisti della «Repubblica» sulla sua passione per il pallone, prima irride alle prestazioni sportive di Caselli nella Nazionale dei magistrati («Si impegnava molto, ma con scarsi risultati […]. Anche un rigore s’è mangiato ultimamente»). Poi magnifica le proprie virtù di goleador: Io gioco bene. Ho cominciato prestissimo e potevo fare il calciatore. Ma quando avevo 14 anni ho deciso di studiare e dedicarmi al calcio solo come hobby […]. Giocavo nella Bacigalupo, avevo 14 anni e il mio allenatore ne aveva 17 di anni: era Marcello Dell’Utri. Sul campo della Bacigalupo, nel quartiere palermitano dell’Arenella, Dell’Utri sostiene di aver conosciuto nei primi anni Settanta Vittorio Mangano, poco prima di reclutarlo come «stalliere» di Berlusconi nella villa di Arcore.

È proprio il caso di ricordare, in quel momento, quell’antica conoscenza con l’imputato eccellente della sua Procura, soprattutto in una realtà come quella siciliana che vive di segnali? La singolare metafora calcistica viene immediatamente raccolta da Gianfranco Miccichè, già braccio destro di Dell’Utri in Publitalia e plenipotenziario di Forza Italia in Sicilia, per aprire una linea di credito al «nuovo corso» di Piero Grasso. L’8 febbraio 2000 Miccichè parla al «Corriere della Sera» di «nuovi rapporti» con la Procura che ora, con Grasso, mostrerebbe «minori pregiudizi» e avrebbe «cambiato i metodi». Il giornalista fa notare che la squadra di Grasso è rimasta la stessa di Caselli. Ma Miccichè lo corregge: «Molto dipende dall’allenatore, in una squadra…». Insomma, chi fa il gioco e la formazione è l’allenatore. Che non è più Dell’Utri, ma Grasso. E quella metafora continuerà a produrre per anni allusioni e messaggi trasversali, che si prestano alle più disparate interpretazioni, in un gioco di specchi vagamente pirandelliano. Dell’Utri sceglierà di ricordare quella comune esperienza col procuratore sul campo della Bacigalupo in un altro momento decisivo della sua vicenda giudiziaria: l’ultima dichiarazione spontanea resa al processo di Palermo, il 29 novembre 2004, poco prima della camera di consiglio dei giudici. E lo farà svelando un particolare che molti leggeranno come un avvertimento raggelante a Grasso o al collegio giudicante: Il procuratore Grasso, quando era giovane, giocava a calcio nella mia squadra, la Bacigalupo, ed era famoso perché a fine partita usciva sempre pulito dal campo: anche quando c’era il fango, lui riusciva sempre a non schizzarsi… Nel febbraio 2000, però, quando esce l’intervista di Grasso alla «Repubblica», i magistrati della Procura non fanno caso più di tanto a quello strano accenno non richiesto al Dell’Utri allenatore. In fondo il neoprocuratore ha pure definito quella di Caselli «una squadra straordinaria». E tanto, sul momento, sembra bastare. Quell’intervista tornerà in mente ad alcuni qualche anno dopo, quando la continuità con l’era Caselli si rivelerà una pia illusione.

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