
Siamo tutti chiusi nella trappola del gas. Da un lato chi è costretto alla dipendenza da una risorsa in via di esaurimento e da un mercato in costruzione che la Commissione europea e i governi vogliono vincolare ai mercati finanziari. Dall’altro chi vive dove si estrae il gas, dove i diritti umani e l’ambiente vengono violati e i regimi autoritari controllano la risorsa. La via d’uscita esiste e va ricercata assieme, a partire dai territori e al di fuori delle logiche dei mercati finanziari. Le decisioni che riguardano il sostegno pubblico a nuovi mega progetti nel settore del gas non sono solo tecniche e dettate dall’urgenza di garantire la sicurezza energetica dell’Europa con ogni mezzo, ma altamente politiche e con implicazioni profonde e a lungo termine per i cittadini.
Se il mercato del gas sia una risposta alla crisi del modello produttivo e energetico di molti degli Stati membri dell’Unione europea, o se la sua costruzione sia un fine in sé, dovrebbe essere tema di discussione a partire dai territori in cui viene proposta la costruzione delle nuove grandi opere. Dovrebbe, ma non è. Al contrario, la Commissione europea (un’istituzione non eletta democraticamente) ci indirizza verso la costruzione del mercato del gas, sulla base di decisioni prese dal Consiglio europeo e approvate dal Parlamento alla fine degli anni Novanta. Da allora molto è cambiato in Europa e nel mondo. Dai territori c’è chi richiama le istituzioni al buon senso, sottolineando come la domanda di gas sia in calo drammatico e i consumi siano ben al di sotto delle cifre usate nelle proiezioni a sostegno dei mega progetti definiti come “di priorità comune”. A conferma di questo ci sono dati ufficiali, che ci raccontano che nel marzo del 2014 si è verificata una riduzione della domanda del 24% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, e di una tendenza alla riduzione che procede inarrestabile dal 2005 in poi. I consumi di gas in Italia nel 2013 sono stati di circa 70 miliardi di m3, ben al di sotto degli 86,7 miliardi del 2005, e non sono previsti grandi aumenti nei prossimi anni. Le più grandi compagnie energetiche europee hanno già tagliato la produzione di energia da centrali a gas di 50.000 megawatt, chiudendo numerosi impianti a causa della “diminuzione della domanda, e dell’aumento della produzione di energia da fonti rinnovabili”.
In Italia i rigassificatori di Porto Viro (Rovigo) e di Panigaglia (La Spezia) lavorano a regime ridotto, mentre quello di Livorno – impianto sperimentale offshore costruito da Iren e E.On con il sostegno della Banca europea degli investimenti e già costato oltre 810 milioni di euro – è operativo dalla fine del 2013, ma senza avere rigassificato un solo metro cubo di gas per il mercato. Come se non bastasse, c’è una diatriba aperta con l’AEEG rispetto al diritto o meno ad accedere alla copertura del 71,5% del mancato ricavo promessa con il fattore di garanzia. In questa situazione paradossale, sarebbe auspicabile almeno chiarirci le idee su quale modello di mercato stiamo costruendo in Europa, quali siano le sue implicazioni nel lungo termine e a vantaggio di chi venga costruito.
La scelta della Commissione di sviluppare una rete di infrastrutture gestite privatamente e finanziarizzate sin dall’inizio – ossia dipendenti dal funzionamento dei mercati finanziari, poiché pensate per generare extra profitto principalmente per questi – offre proprio ai grandi attori privati e al settore finanziario l’opportunità di espandere quella capacità di estrazione di ricchezza che hanno già messo in atto in altri ambiti, collegandola a un bene fondamentale, l’energia, di cui non possiamo fare a meno. Di fatto scegliere un modello di mercato altamente finanziarizzato significa permettere ai “soliti noti” di controllare una risorsa – il gas appunto – dall’estrazione alla vendita, e chiedere in alcuni casi al pubblico di farsi carico del pagamento delle grandi infrastrutture necessarie alla sua costruzione fisica. Significa anche che la gestione privata avrà come obiettivo il massimo profitto, e quindi implicherà il massimizzare l’estrazione e la vendita della risorsa in questione, senza guardare agli effetti sull’ambiente e sui diritti umani in paesi “fornitori” come l’Azerbaigian, la Nigeria, il Kazakistan, il Turkmenistan e molti altri, nè alla necessità di avviare una transizione verso un modello economico svincolato dai combustibili fossili. Tutto ciò comporta che la Commissione europea e le altre istituzioni articolino una narrativa complessiva che propone il gas come “unica soluzione” per la transizione “verde” e le infrastrutture collegate come “la priorità” in cui collettivamente dobbiamo credere e investire. Di conseguenza si muovono strumenti vecchi e nuovi di finanza pubblica per far avanzare la nascita di quelle infrastrutture considerate “necessarie” a realizzare questo disegno. Se la costruzione del mercato del gas è divenuta oggi una questione “di principio”, è altrettanto chiaro che l’esistenza di un mondo ancora in qualche modo multipolare, e di diversi centri finanziari, rende questo sforzo ancora più arduo. Insomma, gli interessi in gioco sono molti, su diversi livelli e spesso in conflitto tra loro. Lo si fa per credo, come ben diceva il Commissario Oettinger, e in risposta a richieste ben diverse da quelle a cui potrebbe pensare una famiglia media, ovvero mantenere accese le luci e gli elettrodomestici e potersi riscaldare durante l’inverno. Per uscire da questo circolo vizioso servirebbe fare un passo indietro, spostando l’attenzione su che cosa serve realmente oggi in Europa, a partire dai territori. Quale sistema produttivo si vuole costruire? Uno che sia compatibile con le esigenze delle comunità e con un utilizzo delle risorse ridefinito attorno a valori diversi da quello del profitto di pochi a svantaggio della collettività? Di quale e quanta energia c’è realmente bisogno? Come produrla, allo stesso tempo rompendo la dipendenza dai combustibili fossili, incluso il gas, e al di fuori della logica dei mercati finanziari? Ripartire da queste e altre domande a monte della risposta ideologica del “mercato” ci permetterebbe di evitare che decine di miliardi di euro delle casse comunitarie siano spesi per vincolarci a una risorsa in ogni caso in esaurimento e ai mercati finanziari predatori che puntano a controllarla.
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