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L’ inganno shale gas, indipendenza energetica o bolla speculativa?

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Il successo dell’estrazione di petrolio e gas da giacimenti non convenzionali, in particolare le formazioni di scisti (in inglese shale), è uno dei rari raggi di luce negli anni bui di Grande Recessione. L’impatto è stato impressionante.

Da quattro anni gli Usa sono il maggior produttore di gas al mondo e da inizio 2014, con l’equivalente di 11 milioni di barili di petrolio al giorno, sono in testa alla produzione globale di idrocarburi. Il prezzo del gas naturale negli Usa, che a giugno del 2008 aveva superato i 12 dollari per milione di Btu (British thermal units, l’unità di misura più diffusa per il prezzo del gas), piombò a meno di 3 dollari a settembre 2009 e poi fino a un minimo di 2 dollari nell’aprile del 2012. Oggi il prezzo si aggira intorno ai 4 dollari per mBtu. Gli Usa un tempo rassegnati a massicce importazioni di gas liquefatto dal Qatar ora pianificano di esportare verso l’Europa (dove il gas vale 10 dollari per mBtu) e il ricco mercato asiatico (in Giappone il prezzo è circa 15 dollari) e addirittura verso il Medio Oriente.

In taluni settori manifatturieri, inclusi quelli che avevano trasferito le fabbriche in Asia o Messico, ora i costi energetici contenuti (e l’inflazione salariale nei Paesi emergenti) rendono gli Stati Uniti una localizzazione competitiva. L’ottimismo generato da questa manna energetica ha indotto a prevedere che gli Usa possano raggiungere l’autosufficienza energetica nel 2020. Tale epocale inversione non ha sconquassato solo l’economia, ma ha anche accentuato l’istinto isolazionista dell’America profonda e di Barack Obama. Il presidente infatti ha trascurato Libia, Siria, Iraq e teatri di guerra che un tempo avrebbero acceso l’allarme rosso alla Casa Bianca e si è ridestato lentamente dal torpore geopolitico solo di fronte agli sgozzamenti.

Sull’approvvigionamento energetico classe politica, Pentagono, società petrolifere e Wall Street (che ha riversato cascate di dollari su progetti targati shale) dopo decenni di patemi e tensioni sono convinti di potersi rilassare. Tuttavia da questo altare di certezze si odono mandibole di tarli in piena attività: i successi iniziali sono stati inopinatamente proiettati nel futuro per attirare capitali e gonfiare l’ennesima bolla. Una serie di studi del Bureau of Economic Geology (BEG) all’Università del Texas – una tra le più autorevoli think tank in campo energetico – ha rielaborato le previsioni iniziali sulla produzione di shale gas alla luce dei dati fin qui rilevati nei maggiori giacimenti. Tali studi condotti da geologi, economisti e ingegneri forniscono un’analisi, disaggregata per singolo pozzo, fino al 2030 sulla base di diversi scenari di prezzo (che determinano la convenienza economica dell’estrazione). Emerge che, in contrasto con le iniziali proiezioni, la produzione nel bacino texano di Barnett (il più vecchio) segue un declino esponenziale: la produzione raggiunge un picco nei primi mesi di attività, per poi crollare, invece di stabilizzarsi. Per compensare il rapido declino dei primi pozzi (più promettenti e meno costosi) si deve trivellare più intensamente e con tecnologie più sofisticate e i costi si impennano. Piani di investimento e aspettative di profitti rischiano di trasformarsi in perdite per azionisti e finanziatori incauti. Da altri grandi giacimenti di shale gas sfruttati da minor tempo, come Haynesville e Marcellus, si temono analoghi dispiaceri.

Oltre al gas, anche i dati dai pozzi di petrolio da scisti di Eagle Ford in Texas, elaborati da Arthur Berman indicano un preoccupante declino. La Shell ha iscritto a bilancio perdite per 2,1 miliardi di dollari dall’investimento in Eagle Ford. Un altro colosso mondiale delle materie prime, BHP Hilton, che aveva scommesso 20 miliardi di dollari sugli idrocarburi da scisti ha annunciato di voler vendere metà dei suoi bacini. Una doccia gelida è anche arrivata dall’Energy Information Administration(EIA) del governo Usa che ha tagliato del 96 per cento (da 13,7 miliardi di barili ad appena 600 milioni) le stime di petrolio estraibili dal bacino Monterey lungo circa 2500 chilometri in California e considerato (ormai erroneamente) il più grande degli States con due terzi delle riserve petrolifere non convenzionali. Insieme alle stime sono evaporati 2,8 milioni di posti di lavoro attesi entro il 2020, oltre a 24,6 miliardi di dollari introiti fiscali e un 14 per cento di aumento del Pil californiano.

L’epopea dei combustibili fossili oscilla da due secoli tra presagi di esaurimento imminente ed esaltazione da scoperte di giacimenti giganteschi. Lo shale gas ha alimentato aspettative mirabolanti probabilmente destinate ad ridimensionarsi. Il miraggio dello shale aveva colpito dalla Polonia al Regno Unito, dall’Argentina alla Cina. Ma al di fuori del Nord America al momento non si registrano successi di rilievo. In Polonia si sono accumulate perdite e dispute tra governo società petrolifere, mentre Oltremanica il governo sembra scettico. In Italia – dove comunque non si segnalano sostanziali giacimenti non convenzionali e la Strategia Energetica Nazionale esclude espressamente estrazioni da scisti – la Commissione Ambiente della Camera ha approvato da pochi giorni un emendamento che proibisce il fracking, cioè la tecnologia per estrarre lo shale gas.


(Da Il Fatto Quotidiano del 17 Settembre 2014)

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Emilia Romagna: Correlazione tra terremoti e perforazioni? Forse

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È praticamente escluso che l’attività umana sia stata l’unica causa della sequenza sismica avvenuta in Emilia due anni fa. Non è invece possibile escludere, ma neanche provare, che abbia avuto un qualche ruolo nell’innescare quei terremoti, stimolando una faglia già vicina al punto di rottura.

Volendo condensare 213 pagine in poche righe potrebbe essere questo, a grandi linee, il riassunto del report stilato dalla commissione di esperti chiamati a raccolta proprio dalla Regione Emilia Romagna a partire dal maggio 2013 per esprimersi sulle possibili cause del terremoto. Le conclusioni del report sono state anticipate da Science in un articolo pubblicato la settimana scorsa ma il documento completo, che secondo la rivista americana era nelle mani dell’amministrazione emiliana da più di un mese, è stato messo online solo martedì. Lo stato dell’arte delle conoscenze scientifiche non permette di dare conclusioni più nette di queste, e gli imbarazzi e i ritardi che ci sono stati nella pubblicazione del report derivano probabilmente dal fatto che è comunque sulla base di tutti questi condizionali che le amministrazioni locali e nazionali sono ora chiamate a prendere delle decisioni definitive riguardanti la sicurezza dei cittadini. Ma qual è il peso effettivo di quel “non è possibile escludere”?
Per capire come siamo arrivati a questo report e cosa dice davvero nelle sue conclusioni dobbiamo fare un passo indietro di qualche anno, quando nel 2012, a fine maggio, una serie di scosse di terremoto fecero tremare l’Emilia e in Italia si iniziò per la prima volta a parlare diffusamente di fracking, una particolare tecnica per l’estrazione di petrolio e di gas naturale. Tradotto da noi con il termine di fratturazione idraulica, il fracking prevede il pompaggio nel sottosuolo di acqua e additivi chimici ad alta pressione al fine di creare una frattura nello strato roccioso e liberare così il petrolio e il gas imprigionati nelle rocce serbatoio. In quello stesso periodo, negli Stati Uniti, il dibattito sulle possibili nefaste conseguenze del fracking sull’ambiente andava avanti da tempo, tanto che già nel 2010 era stato girato un documentario di denuncia, Gasland, e da lì a qualche mese sarebbe uscito anche un film sul tema, Promised Land, con Matt Damon (che però venne molto criticato, ma questa è un’altra storia). Al fracking, al boom economico che ha scatenato e ai danni che causa all’ambiente National Geographic ha dedicato un reportage nel marzo del 2013 e un servizio sulla possibile correlazione tra le attività di fratturazione idraulica e un terremoto avvenuto in Oklahoma.

Ma con il terremoto in Emilia il fracking non aveva nulla a che fare. Durante l’evento sismico emiliano, mentre la terra ancora tremava sotto le scosse di assestamento dello sciame, iniziò a circolare la voce, diventata virale sul web e ripresa da giornali e televisioni, che i terremoti di quei giorni potessero essere causati dal fracking svolto da qualche multinazionale del gas sul territorio italiano. La notizia era una bufala: attività di questo tipo non erano mai state praticate né autorizzate, né in Emilia né nel resto di Italia. Il nostro, d’altra parte, è un territorio privo di giacimenti di gas da depositi scistosi (o shale gas) il tipo di gas che viene estratto con il fracking.

Questo non bastò a calmare gli animi. Oltre al fracking, una possibile responsabilità umana nelle concause del terremoto poteva ancora venire dall’attività dei siti di estrazione “canonica” presenti in Emilia. In particolare, nelle zone del terremoto, si registrava la presenza dell’impianto geotermico di Casaglia e del campo di estrazione di idrocarburi di Cavone, nei dintorni di Mirandola. Ma il nome che veniva fuori più spesso era quello di Rivara, una frazione di San Felice sul Panaro, nel modenese, il cui territorio era da tempo stato individuato dalla ERG come una zona utile per realizzare un sito di stoccaggio di gas metano nel sottosuolo. La Regione aveva espresso parere negativo sull’autorizzazione ad avviare gli accertamenti tecnici preliminari per la costruzione dell’impianto, ma c’era il dubbio che delle indagini conoscitive invasive fossero state ugualmente effettuate. Possibile allora che queste indagini, qualora prevedessero perforazioni profonde e immissione di fluidi, potessero essere una concausa del terremoto, insieme alle altre attività di estrazione? Visti i dubbi sollevati dall’opinione pubblica, la Regione Emilia Romagna decise di indagare, e chiese a un panel di esperti di stilare un report sull’intera vicenda: quanta responsabilità aveva l’attività umana nel terremoto emiliano?

Quale terremoto?

La sismologia è una scienza relativamente giovane che studia fenomeni naturali complessi e difficili da simulare in laboratorio cercando di analizzarli con strumenti, modelli matematici e teorie in continua evoluzione. Come sappiamo, allo stato attuale delle conoscenze è difficile tirare fuori risposte chiare e univoche sui terremoti. E lo è ancora di più quando si cerca di capire l’influenza dell’attività umana su quella sismica. Se è vero che abbiamo in mano ormai un’ampia letteratura scientifica a riguardo, si tratta per lo più di indagini statistiche che non sono ancora riuscite a fare completa chiarezza sui rapporti di causa ed effetto, o a stilare conclusioni generali a partire dallo studio del singolo caso.

Tra tutti quelli registrati negli ultimi anni, ci sono terremoti nei quali l’attività umana ha effettivamente avuto un qualche ruolo nel portare il sistema generale al punto di rottura e scatenare la scossa. A volte l’attività umana è sufficientemente grande da diventare la causa scatenante del terremoto. Si parla in questo caso di terremoti indotti, caratterizzati da scosse solitamente piuttosto piccole, provocati dall’uomo in una zona altrimenti tranquilla. Come succede ad esempio nel campo di gas di Groningen, nei Paesi Bassi, dove le attività di estrazione hanno da sempre causato piccole scosse bene o male tollerate dagli abitanti, ma dove l’agosto scorso una scossa più grande delle altre, di magnitudo 3.4, ha messo in allarme la stessa società di gestione e ha aperto grandi interrogativi sul futuro e sulle modalità di estrazione in quella zona. Le scosse in casi come questo non sono una conseguenza immediata della perforazione ma una conseguenza a lungo termine dell’estrazione di gas, che provoca un cambiamento nella pressione sotterranea e un conseguente assestamento del terreno.

Ci sono poi i terremoti innescati, forse più diffusi ma più difficili da rintracciare e da modellizzare, dove una piccola perturbazione generata dall’estrazione o dalla reimmissione nel terreno dei liquidi estratti ma non utilizzabili (che è una pratica comune nei campi petroliferi, e non c’entra nulla con il fracking) può essere sufficiente ad attivare il terremoto di magnitudo anche grande. In questo caso parliamo però di una faglia in qualche modo già carica e predisposta: l’attività umana è quindi in questo caso una goccia che fa traboccare un vaso già colmo, una concausa nell’attivazione di un terremoto già pronto a esplodere di lì a poco (dove poco vuol dire però anche qualche anno).

Insomma, nei terremoti di questo tipo l’attività umana può aiutare una faglia a generare un terremoto, ma discernere tra questi terremoti e quelli completamente “naturali” oggi è spesso ancora molto difficile, ed è praticamente impossibile, in ogni caso, quantificare all’interno di una scossa attivata il peso delle “responsabilità” umane.

La commissione ICHESE

La commissione internazionale di esperti nominata dalla Regione Emilia Romagna (identificata con l’acronimo di ICHESE: International Commission On Hydrocarbon Exploration And Seismicity in the Emilia Region) ha iniziato i suoi lavori nel giugno 2013. Dopo una revisione della letteratura disponibile è passata allo studio dei dati, alla ricerca di un eventuale nesso esistente tra le operazioni di iniezione, estrazione e stoccaggio di fluidi e l’attività sismica nell’area emiliana.

Il resto è cronaca di questi giorni: prima le anticipazioni di Science e poi, martedì, la pubblicazione del rapporto completo. Le conclusioni hanno lasciato a bocca asciutta chi si aspettava una risposta netta e inequivocabile, sia in un senso che nell’altro, anche se qualche punto fisso è stato messo. La commissione ha prima di tutto “assolto” in maniera inequivocabile il sito di Rivara, dove non c’è stata alcuna attività di esplorazione mineraria preventiva per il progetto del sito di stoccaggio, si legge nel documento finale. La commissione scrive poi di non aver trovato nessuna evidenza che la sequenza sismica dell’Emilia possa essere stata indotta – cioè provocata completamente – dalle attività antropiche. 

Per quanto riguarda la possibilità che uno dei siti di sfruttamento del sottosuolo possa aver aiutato a innescare il terremoto, la commissione ha trovato una qualche correlazione statistica tra l’attività sismica e quella umana solo per quanto riguarda l’attività di estrazione e iniezione di liquidi nel sito di Cavone nei pressi di Mirandola. Lì una brusca variazione dell’attività di estrazione tra 2011 e 2012 potrebbe aver contribuito a dare il via alla sequenza sismica che ha portato poi alle due grandi scosse di maggio 2012.

Problemi di comunicazione

Quello dei terremoti indotti e innescati dall’uomo è un campo di ricerca che conosciamo ancora poco, dove manca un modello fisico e matematico di riferimento. A questo va aggiunto che i dati a disposizione della commissione, come si legge nel report, sono incompleti a causa delle insufficienze della locale rete di monitoraggio sismico. La base del lavoro effettuato era quindi già in partenza piuttosto debole, e non deve stupire che le conclusioni si siano rivelate non definitive – per forza di cose e non per mancanze scientifiche degli esperti. Anche alla luce di questo, però, la correlazione statistica trovata potrebbe non essere poi così significativa. “Per usare le parole della commissione, non posso escludere che su questo punto abbiano ragione, ma la probabilità che abbiano ragione è piuttosto bassa, ed è poco probabile, come d’altra parte dice lo stesso report, che quello dell’Emilia sia stato un terremoto innescato dall’uomo”, spiega Marco Mucciarelli direttore del Centro Ricerche Sismologiche dell’Istituto Nazionale di Oceanografia e Geofisica Sperimentale (OGS), che sul suo blog ha sollevato anche alcuni dubbi dettagliati e di tipo tecnico sulle analisi statistiche riguardanti il campo di Cavone.

“Il lavoro della commissione dice però delle cose precise su fracking e Rivara, quindi un contributo alla chiarezza l’ha dato. È un report che in questo ha fatto il suo mestiere”, continua Mucciarelli. “Un altro messaggio chiaro è contenuto alla fine: per il futuro, se volete avere risposte certe, l’Italia si dovrà dotare dei sistemi di monitoraggio di queste attività”.

Il linguaggio della scienza è il linguaggio dell’incertezza. Tradurlo in comunicazioni ai cittadini (e in decisioni politiche) è un compito arduo. Il fatto che le istituzioni abbiano deciso per motivi ancora non chiari di rinviare la pubblicazione del report ha alimentato sospetti, preoccupazioni e i soliti complottismi. “Purtroppo”, conclude Mucciarelli, “questa vicenda porta indietro le lancette dell’orologio, e rischia di distruggere quel poco di fiducia che ricercatori e Protezione Civile avevano riguadagnato nei cittadini dopo le vicende dell’Aquila grazie a campagne mirate di comunicazione e informazione sui terremoti”.

(Fonte nationalgeographic)

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Ora è ufficiale: 100 terremoti provocati dal fracking

attività di fracking

Gli eventi sismici avvenuti tra il 2011 e il 2012 sono correlati alle attività del pozzo NS1 adiacente alla città di Youngstown, Ohio in quanto avvenuti in concomitanza con l’aumento della pressione sotterranea dovuta allo stoccaggio dei fanghi di perforazione.

Il legame tra attività di fracking e terremoti è confermato da un’analisi sismologica apparsa recentemente sul Journal of Geophysical Research; lo studio riguarda l’area di Youngstown nell’Ohio e rappresenta un’ulteriore conferma dell’impatto ambientale del fracking dopo quanto emerso già in New Mexico e Colorado.

Tra il gennaio 2011 e il febbraio 2012 sono avvenuti nell’area oltre 100 terremoti di piccola scala (magnitudo da 0,4 a 3,9 (1)). Nell’immagine in alto sono indicati in rosso gli epicentri dei principali eventi sismici, tutti collegabili al pozzo Northstar #1 scavato nell’immediata periferia della città di Youngstown. E’ tra l’altro assolutamente incredibile che sia stato permessa una perforazione in un luogo così prossimo al centro abitato come è possibile vedere dalla mappa in fondo al post (2).
Il pozzo incriminato non era un pozzo produttivo, ma un pozzo di stoccaggio dei fanghi di perforazione del fracking effettuato in Pennsylvania. I ricercatori hanno anche correlato temporalmente il verificarsi dei terremoti con i maggiori incrementi della pressione sotterranea, mentre i periodi di calma sismica sono quelli collegati alla minore pressione.
attività_di_fracking_in_Ohio_sono_correlate_a_100_terremoti_avvenuti_tra_il_2011_e_il_2012

(1) La scala Richter è logaritmica, per cui aggiungendo 1 alla magnitudine, l’energia liberata dal sisma viene moltiplicata circa per 30.
(2) Entrambe le mappe di questo post provengono da uno studio preliminare dell’Ohio Department on Natural Resources, più chiare di quelle presenti nell’articolo che sono in bianco e nero.

(Fonte Ecoblog)

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Terremoti a catena

terremoto

L’idea e’ sempre stata che gli eventi umani che portano ai terremoti siano su scala locale. E cioe’ che se io trivello in un certo posto, l’eventuale sismicita’ indotta comparira’ nelle sue strette vicinanze.

Adesso pero’ arriva questo articolo su Science, a firma di Nicholas J. van der Elst,  Heather M. Savage, Katie M. Keranen, Geoffrey A. Abers, pubblicato il 12 Luglio 2013 a dire che non e’ poi necessariamente cosi vero. Gli autori infatti affermano che eventi sismici di alta magnitudine possono generare onde sismiche alle lunghe distanze che poi possono scatenare terremoti secondari, in zone anche a migliaia di chilometri in distanza, specialmente in luoghi gia’ di per conto loro interessati ad accumulo di pressione, squilibri, instabilita’ e tensioni. Fra queste, guarda caso, le zone dove si pratica la reiniezione di fluidi di perforazione petrolifera.

In pratica: la reiniezione di fluidi porta a scompensi nel sottosuolo, a pressioni sulle faglie sotterranee cosicche’ quando arriva l’onda sismica dai terremoti piu’ distanti, e’ piu’ facile che si scatenino altri terremoti, perche’ il terreno e’ gia’ sotto stress per conto suo. Lo dice chiaramente uno degli autori, Nicholas Van Der Elst:

“The fluids are driving the faults to their tipping point. The remote triggering by big earthquakes is an indication the area is critically stressed.”

“I fluidi portano le faglie al punto di rottura. Il fatto che i grandi terremoti li attivino da lontano, e’ un indicatore che la zona e’ sotto stress critico.”

Ora per tutti i ben pensanti, questo non lo dico io, lo dice Science, che e’ una delle riviste piu’ prestigiose del mondo.

Gli autori portano il caso del terremoto del Cile del 27 Febbraio 2010 di intensita’ 8.8 Richter che causo’ una serie di terremoti di assestamento in tutta la zona attorno a Conception e che secondo gli autori, e’ stato lo stesso che ha portato allo sciame sismico attorno a Prague, Oklahoma. Infatti solo 16 ore dopo l’evento del Cile ci fu il primo terremoto a Prague, Oklahoma, di intensita’ 4.1 Richter. Lo sciame sismico continuo’ per altri mesi, fino all’evento piu’ grande, di intensita’ 5.7 Richter, il 6 Novembre 2011.

L’Oklahoma era territorio non sismico. O almeno lo era prima della reiniezione.

Lo stesso terremoto del Cile, secondo gli autori, ha anche scatenato terremoti al confine fra il Colorado ed il New Mexico, anche qui in prossimita’ di pozzi di reinizione di materiale di scarto da
fracking. Qui il terremoto di intensita’ maggiore e’ stato il giorno 22 Agosto 2011 di magnitudine 5.3 Richter.

Allo stesso modo gli autori indicano che i terremoti al largo delle coste del Giappone di magnitudine 9.0 Richter il giorno 11 Marzo 2011 ha portato allo sciame sismico attorno a Snyder, Texas sei mesi dopo, dove gia’ si erano registrate scosse sismiche collegate all’ estrazione di petrolio e dove l’intensita’ massima raggiunta e’ stata 4.5 Richter. In realta’ per strano che possa apparire, non e’ la prima volta che si parla della possibilita’ che gli sciami sismici possano essere generati da eventi lontani.

Gia’ nel 1992, il terremoto 7.3 Richter a Landers, nel deserto del Mojave di California ha portato ad eventi sismici di magntiudo 5.6 in Nevada, a 150 miglia di distanza.

Nel 2002, si era concluso che un terremoto in Alaska di intensita’ 7.9 Richter avesse innsescato ua serie di terremoti presso il parco Yellowstone a 2,000 miglia di distanza come riportato in questo articolo del 2004 study esegiuto da Stephen Husen, geologo svizzero.

Lo stesso evento dell’Alaska causo’ tremori anche attorno ad altre faglie californiane fra cui quelle di San Andreas, San Jacinto e Calaveras secondo un altro studio del 2008 eseguito dal geofisico dell’USGS Joan Gomber.

Con molta chiarezza, uno degli autori dell’articolo attuale, Goeffry Abers, dice che e’ da 20 anni che si sa che eventi sismici di grande magnitudine possono scatenarne di altri in posto distanti, specie dove le pressioni sotterranee sono elevate.

Semplicemente adesso la connessione include i posti dove le pressioni sotterranee sono elevate a causa dell’opera umana e del seppellimento di monnezza tossica al alta pressione. Negli Stati Uniti centrali, ci sono stati 21 terremoti l’anno dal 1960 al 2000. Nel 2011 il numero e’ salito a 188.

(Fonte dorsogna)

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