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Lisbon Revisited

Fernando-Pessoa

Nulla mi lega a nulla.
Voglio cinquanta cose allo stesso tempo.
Bramo con un’angoscia di fame di carne
quel che non so cosa sia –
definitamente l’indefinito…
Dormo irrequieto e vivo in un irrequieto sognare
di chi dorme irrequieto, mezzo sognando.
Mi hanno chiuso tutte le porte astratte e necessarie,
Hanno abbassato le tende dal di dentro di ogni ipotesi che avrei potuto vedere dalla via.
Non c’è nel vicolo trovato il numero di porta che mi hanno dato.
Mi sono svegliato alla stessa vita a cui mi ero addormentato.
Perfino i miei eserciti sognati sono stati sconfitti.
Perfino i miei sogni si sono sentiti falsi nell’essere sognati.
Perfino la vita solo desiderata mi stanca; perfino questa vita…
Comprendo a intervalli sconnessi;
scrivo a intervalli di stanchezza;
e perfino un tedio del tedio mi getta sulla spiaggia.
Non so quale destino o futuro compete alla mia angoscia disalberata;
non so quali isole del Sud impossibile mi aspettano naufrago;
o quali palmeti di letteratura mi daranno almeno un verso.
No, non so né questo né altro né niente…
E in fondo al mio spirito, dove sogno quel che sognai,
nelle estreme pianure dell’anima, ove ricordo senza motivo
(il passato è una nebbia naturale di lacrime false),
nelle strade, nei sentieri di remote foreste
ove ho supposto il mio essere,
fuggono in rotta, ultimi resti
dell’illusione finale,
i miei sognati eserciti, sconfitti senza essere esistiti,
le mie coorti ancora da esistere, sgominate in Dio.
Un’altra volta ti rivedo,
città della mia infanzia paurosamente perduta…
città triste e lieta, un’altra volta sogno qui…
Io? Ma sono lo stesso che qui è vissuto, e qui è tornato,
e qui è tornato a tornare, e a ritornare.
E qui di nuovo sono tornato a tornare?
O siamo tutti gli Io che sono stato qui o sono stati,
una serie di chicchi-enti legati da un filo-memoria,
una serie di sogni di me, di qualcuno fuori di me?
Un’altra volta ti rivedo,
col cuore più lontano, l’anima meno mia.
Un’altra volta ti rivedo – Lisbona e Tago e tutto – passeggero inutile di te e di me,
straniero qui come in ogni parte,
casuale nella vita come nell’anima,
fantasma errante in sale di ricordi,
al rumore dei topi e delle tavole che scricchiolano
nel castello maledetto di dover vivere…
Un’altra volta ti rivedo,
ombra che passa attraverso ombre, e brilla
un momento a una funebre luce sconosciuta,
e penetra nella notte come una scia di nave si perde
nell’acqua che cessa di udirsi…
Un’altra volta ti rivedo,
ma, ahi, me non rivedo!
S‘è rotto lo specchio magico in cui mi rivedevo identico,
e in ogni frammento fatidico vedo solo un pezzo di me – un pezzo di te e di me!…

Fernando Pessoa da Poesia di Álvaro de Campos

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La Tabaccheria

fumo-di-sigaretta

Non sono niente.
Non sarò mai niente.
Non posso voler essere niente.
A parte questo, ho dentro me tutti i sogni del mondo.
Finestre della mia stanza,
Della stanza di uno dei milioni al mondo che nessuno sa chi è
(E se sapessero chi è, cosa saprebbero?),
Vi affacciate sul mistero di una via costantemente attraversata da gente,
Su di una via inaccessibile a tutti i pensieri,
Reale, impossibilmente reale, certa, sconosciutamente certa,
Con il mistero delle cose sotto alle pietre e agli esseri,
Con la morte che porta umidità nelle pareti e capelli bianchi negli uomini,
Con il Destino che guida il carretto di tutto sulla strada di niente.
Oggi sono vinto, come se sapessi la verità.
Oggi sono lucido, come se stessi per morire,
E non avessi altra fratellanza con le cose
Che un commiato, e questa casa e questo lato della via diventassero
La fila di vagoni di un treno, e una partenza fischiata
Da dentro la mia testa,
E una scossa dei miei nervi e uno scricchiolio di ossa nell’allontanamento.
Oggi sono perplesso, come chi ha pensato e creduto e dimenticato.
Oggi sono diviso tra la lealtà che devo
Alla Tabaccheria dall’altra parte della strada, come cosa reale dal di fuori,
E alla sensazione che tutto è sogno, come cosa reale dal di dentro.
Sono fallito in tutto.
Ma visto che non avevo nessun proposito, forse tutto è stato niente.
Dall’insegnamento che mi hanno impartito,
Sono sceso attraverso la finestra sul retro della casa.
Sono andato in campagna pieno di grandi propositi.
Ma là ho incontrato solo erba e alberi,
E quando c’ era, la gente era uguale all’altra.
Mi scosto dalla finestra, siedo su una poltrona. A che devo pensare?
Che so di cosa sarò, io che non so cosa sono?
Essere quel che penso? Ma penso di essere tante cose!
E in tanti pensano di essere la stessa cosa che non possono essercene così tanti!
Genio? In questo momento
Centomila cervelli si concepiscono in sogno geni come me,
E la storia non ne rivelerà, chissà? , nemmeno uno,
Non ci sarà altro che letame di tante conquiste future.
No, non credo in me.
In tutti i manicomi ci sono pazzi deliranti con tante certezze!
lo, che non possiedo nessuna certezza, sono più sano o meno sano?
No, neppure in me…
In quante mansarde e non-mansarde del mondo
Non staranno sognando a quest’ora geni-per-se-stessi?
Quante aspirazioni alte, nobili e lucide -,
S?, veramente alte, nobili e lucide -,
E forse realizzabili,
Non verranno mai alla luce del sole reale nè troveranno ascolto?
Il mondo è di chi nasce per conquistarlo
E non di chi sogna di poterlo conquistare, anche se ha ragione.
Ho sognato di più di quanto Napoleone abbia realizzato.
Ho stretto al petto ipotetico più umanità di Cristo.
Ho creato in segreto filosofie che nessun Kant ha scritto.
Ma sono, e forse sarò sempre, quello della mansarda,
Anche se non ci abito;
Sarò sempre quello che non è nato per questo;
Sarò sempre soltanto quello che possedeva delle qualità;
Sarò sempre quello che ha atteso che gli aprissero la porta davanti a una parete senza porta,
E ha cantato la canzone dell’Infinito in un pollaio,
E sentito la voce di Dio in un pozzo chiuso.
Credere in me? No, nè in niente.
Che la Natura sparga sulla mia testa scottante
Il suo sole, la sua pioggia, il vento che trova i miei capelli,
E il resto venga pure se verrà o dovrà venire, altrimenti non venga.
Schiavi cardiaci delle stelle,
Abbiamo conquistato tutto il mondo prima di levarci da letto;
Ma ci siamo svegliati ed esso è opaco,
Ci siamo alzati ed esso è estraneo,
Siamo usciti di casa ed esso è la terra intera,
Più il sistema solare, la Via Lattea e l’Indefinito.
(Mangia cioccolatini, piccina; Mangia cioccolatini !)
Guarda che non c’è al mondo altra metafisica che i cioccolatini.
Guarda che tutte le religioni non insegnano altro che la pasticceria.
Mangia, bambina sporca, mangia!
Potessi io mangiare cioccolatini con la stessa concretezza con cui li mangi tu!
Ma io penso e, togliendo la carta argentata, che poi è di stagnola,
Butto tutto per terra, come ho buttato la vita.
Ma almeno rimane dell’amarezza di ciò che mai sarà
La calligrafia rapida di questi versi,
Portico crollato sull’Impossibile.
Ma almeno consacro a me stesso un disprezzo privo di lacrime,
Nobile almeno nell’ampio gesto con cui scaravento
I panni sporchi che io sono, senza lista, nel corso delle cose,
E resto in casa senza camicia.
(Tu, che consoli, che non esisti e perciò consoli),
Dea greca, concepita come una statua viva,
O patrizia romana, impossibilmente nobile e nefasta,
O principessa di trovatori, gentilissima e colorita,
O marchesa del Settecento, scollata e distante,
O celebre cocotte dell’epoca dei nostri padri,
O non so che di moderno – non capisco bene cosa -,
Tutto questo, qualsiasi cosa tu sia, se può ispirare che ispiri!
Il mio cuore è un secchio svuotato.
Come quelli che invocano spiriti invocano spiriti invoco
Me stesso ma non trovo niente.
Mi avvicino alla finestra e vedo la strada con assoluta nitidezza.
Vedo le botteghe, vedo i marciapiedi, vedo le vetture passare,
Vedo gli enti vivi vestiti che s’incrociano,
Vedo i cani che anche loro esistono,
E tutto questo mi pesa come una condanna all’esilio,
E tutto questo è straniero, come ogni cosa.
Ho vissuto, studiato, amato, e persino creduto,
E oggi non c’è mendicante che io non invidi solo perchè non è me.
Di ciascuno guardo i cenci e le piaghe e la menzogna,
E penso: magari non ho mai vissuto, nè studiato, nè amato, nè creduto
(Perchè si può creare la realtà di tutto questo senza fare nulla di tutto questo);
Magari sei solo esistito, come una lucertola cui tagliano la coda
E che è irrequietamente coda al di qua della lucertola.
Ho fatto di me ciò che non ho saputo,
E ciò che avrei potuto fare di me non l’ho fatto.
Il domino che ho indossato era sbagliato.
Mi hanno riconosciuto subito per quello che non ero e non ho smentito, e mi sono perso.
Quando ho voluto togliermi la maschera,
Era incollata alla faccia.
Quando l’ho tolta e mi sono guardato allo specchio,
Ero già invecchiato.
Ero ubriaco, non sapevo più indossare il domino che non mi ero tolto.
Ho gettato la maschera e dormito nel guardaroba
Come un cane tollerato dai gestori
Perchè inoffensivo
E scrivo questa storia per dimostrare di essere sublime.
Essenza musicale dei miei versi inutili,
Magari potessi incontrarmi come una cosa fatta da me,
E non stessi sempre di fronte alla Tabaccheria qui di fronte,
Calpestando la coscienza di stare esistendo,
Come un tappeto in cui un ubriaco inciampa
O uno stoino rubato dagli zingari che non valeva niente.
Ma il Padrone della Tabaccheria s’è affacciato all’entrata ed è rimasto sulla porta.
Lo guardo con il fastidio della testa piegata in malo modo
E con il fastidio dell’ anima che distingue male.
Lui morirà ed io morirò.
Lui lascerà l’insegna, io lascerò dei versi.
A un certo momento morirà anche l’insegna, e anche i versi.
Dopo un po’ morirà la strada dov’era stata l’insegna,
E la lingua in cui erano stati scritti i versi.
Morirà poi il pianeta ruotante in cui è avvenuto tutto questo.
In altri satelliti di altri sistemi qualcosa di simile alla gente
Continuerà a fare cose simili a versi vivendo sotto cose simili a insegne,
Sempre una cosa di fronte all’altra,
Sempre una cosa inutile quanto l’altra,
Sempre l’impossibile, stupido come il reale,
Sempre il mistero del profondo certo come il sonno del mistero della superficie,
Sempre questo o sempre qualche altra cosa o nè l’uno nè l’altra.
Ma un uomo è entrato nella Tabaccheria (per comprare tabacco?),
E la realtà plausibile improvvisamente mi crolla addosso.
Mi rialzo energico, convinto, umano,
Con l’intenzione di scrivere questi versi per dire il contrario.
Accendo una sigaretta mentre penso di scriverli
E assaporo nella sigaretta la liberazione da ogni pensiero.
Seguo il fumo come se avesse una propria rotta,
E mi godo, in un momento sensitivo e competente
La liberazione da tutte le speculazioni
E la consapevolezza che la metafisica è una conseguenza dell’essere indisposti.
Poi mi allungo sulla sedia
E continuo a fumare.
Finche il Destino me lo concederà, continuerò a fumare.
(Se sposassi la figlia della mia lavandaia
Magari sarei felice.)
Considerato questo, mi alzo dalla sedia.
Vado alla finestra.
L’uomo è uscito dalla Tabaccheria (infilando il resto nella tasca dei pantaloni?).
Ah, lo conosco: è Esteves senza metafisica.
(Il Padrone della Tabaccheria s’è affacciato all’entrata.)
Come per un istinto divino Esteves s’è voltato e mi ha visto.
Mi ha salutato con un cenno, gli ho gridato Arrivederci Esteves! , e l’universo
Mi si è ricostruito senza ideale ne speranza, e il Padrone della Tabaccheria ha sorriso.

Fernando Pessoa

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Domenica in Poesia: Fernando Pessoa

Tutte le lettere d’amore sono ridicole

Tutte le lettere d’amore sono
ridicole.
Non sarebbero lettere d’amore se non fossero
ridicole.

Anch’io ho scritto ai miei tempi lettere d’amore,
come le altre,
ridicole.

Le lettere d’amore, se c’e’ l’amore,
devono essere
ridicole.

Ma dopotutto
solo coloro che non hanno mai scritto
lettere d’amore
sono
ridicoli.

Magari fosse ancora il tempo in cui scrivevo
senza accorgermene
lettere d’amore
ridicole.

La verita’ e’ che oggi
sono i miei ricordi
di quelle lettere
a essere ridicoli.

(Tutte le parole sdrucciole,
come tutti i sentimenti sdruccioli,
sono naturalmente
ridicole).

Fernando António Nogueira Pessoa (Lisbona, 13 giugno 1888 – Lisbona, 30 novembre 1935).  Poeta, scrittore e aforista portoghese. Per tutta la vita, trascorsa per la maggior parte in una stanza ammobigliata in affitto a Lisbona, dove sarebbe morto in solitudine, Fernando Antonio Nogueira Pessoa rimase pressochè sconosciuto al mondo editoriale ed al grande pubblico. Pure, oggi egli viene comunemente riconosciuto come il più importante poeta portoghese moderno, membro più rappresentativo del Gruppo Modernista conosciuto anche come Orpheu.
Era nato a Lisbona nel 1888, il padre Joaquim de Seabra Pessoa morì di tubercolosi quando Fernando era poco più che un bambino e la madre si risposò con il console portoghese per il Sud Africa dove la famiglia si trasferì nel 1896. Qui restò per tre anni, imparando perfettamente la lingua inglese ed interessandosi alla lettura delle opere di Shakespeare e Milton. Tornò a Lisbona nel 1905 per iscriversi all’Università, avrebbe tuttavia bbandonato gli studi molto presto per iniziare a lavorare come traduttore per conto di aziende commerciali. Nel frattempo iniziò a scrivere letter ed articoli per riviste letterarie quali l’Orpheus, suscitando spesso vivaci polemiche per le idee ed i termini anticonformisti. La sua prima collezione di poesie Antinous fu scritta in lingua inglese ed apparve nel 1918. Pure in inglese furono redatte le successive due raccolte e soltanto nel 1933 pubblicò il primo libro, Mensagem, in portoghese che, come i precedenti, passò completamente inosservato.
La maggior parte delle sue poesie apparvero su riviste letterarie quali Athena da lui stessa diretta e sotto gli pseudonimi di Campos, Reis e Caeiro, veri e propri alter ego, ciascuno dotato di una different epersonalità e di un proprio background (Campos un ingegnere affascinato da Walt Whitman, Reis un dottore epicureo dalla solida cultura classica )che spesso animavano le pagine di Athena dandosi battaglia, ora lodando ed ora criticando le “reciproche” opere.
Pessoa morì il 30 Novembre 1935, la sua fama iniziò a diffondersi, in Portogallo e poi in Brasile, a partire dal 1940 e tutte le sue opere furono pubblictae postume. Ricordiamo Poesias de Fernando Pessoa (1942) ed Odes de Ricardo Reis (1946). La sua autobiografia scritta sotto lo pseudonimo di Bernardo Soares, apparve solo nel 1982. A.T.


Il libro del genio e della follia. “Il genio è la peggiore maledizione con cui Dio può benedire un uomo”. La questione del rapporto tra il genio e la follia e dell’identità – psicologica e storica – del genio costituì per Pessoa una vera e propria ossessione durante l’intero arco della vita.

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