
Seconda puntata sulla crisi del calcio. Dopo aver affrontato i problemi che affliggono il nostro campionato, leggi qui, vediamo come gli altri campionati hanno saputo aggiornarsi e superarci con politiche di modernizzazione e cura dei vivai. E l’idea Superlega alle porte…
La profonda crisi del calcio italiano è espressa come meglio non si potrebbe dai continui scivoloni della serie A nella classifica del Ranking Uefa (“Ranking Uefa, l’indecoroso declino del calcio italiano”). La deriva del sistema è legata soprattutto alla carenza di scelte in campo organizzativo, che vede implicate la Figc di Giancarlo Abete e la conduzione delle Leghe professionistiche.
Altro che modello italiano
Nel calcio esiste un modello inglese che, forse, non tutti invidiano. Alcuni, anzi, proprio non vogliono sentirne parlare. Eppure la struttura messa in piedi Oltre Manica per dare ordine alle quattro categorie professionistiche (dalla prima alla quarta divisione nazionale) si è dimostrata nel tempo vincente rispetto alla nostra. A livello di gestione, è forse meglio avere a che fare con la pletora di club che affligge il nostro sistema (spalmata tra serie A, serie B, Prima e Seconda Divisione di Lega Pro) o non piuttosto interagire con un sistema agile e malleabile costruito su 92 squadre suddivise in quattro categorie? Senza contare che gli stadi inglesi, quasi tutti di proprietà spesso anche nella Football League 1 (la nostra Prima Divisione), sono confortevoli e anche per questo sempre pieni di tifosi. Nonostante i biglietti siano molto più cari che da noi e la crisi economica tutt’altro che tenera da sopportare a quelle latitudini.
C’è anche un modello tedesco, altrettanto sobrio da un punto di vista organizzativo. In Germania, come in Inghilterra, gli stadi sono sempre colmi ai limiti della capienza. I biglietti d’ingresso alle partite sono i meno cari d’Europa. Se ci sono riusciti loro, perché non dobbiamo riuscirci anche noi? Va detto che la Bundesliga sta dando lezioni a tutto il calcio europeo. La Germania infatti, oltre a vantare i migliori bilanci societari del vecchio continente, ha visto più che triplicare i suoi ricavi negli ultimi dieci anni (passati da 577 a 1.715 milioni di euro). Quali le ragioni di un successo che rischia di diventare travolgente e si prepara a far mangiare la polvere a nazioni di grande tradizione sportiva come la nostra?
1. Bilanciamento delle entrate. Il presidente di Lega Reinhard Rauball ha spiegato in modo chiaro il segreto per uscire indenni dalla crisi economica globale. In Bundesliga la tv-dipendenza non esiste. Sponsor, merchandising e ticketing coprono quote elevate dei ricavi. I proventi da diritti tv sono di poco superiori al 30% (in Italia sono mediamente al 64%).
2. Stadi moderni e indici di occupazione ai limiti della capienza. Il confronto su questo terreno è improponibile. Rispetto alla povera Italia del terzo millennio, che deve fare i conti con impianti obsoleti e con un calo crescente del pubblico pagante. Quest’anno il trend degli spettatori in Germania sarà in ulteriore crescita.
3. Biglietti di ingresso a basso costo. Il costo dei tagliandi per assistere alle partite di Bundesliga è il più basso d’Europa. I biglietti sono alla portata di tutte le tasche. Nel pieno rispetto di quello spirito nazional-popolare di uno sport come il calcio che, da lungo tempo, è ormai evaporato nel Belpaese.
4. Equa distribuzione delle risorse. Non ci sono in Germania figli dell’oca bianca e dell’oca nera, come di norma avviene in Italia con vantaggi a carico delle solite privilegiate che finiscono per ammazzare il campionato di serie A e impedire ogni sorta di ricambio. Una voce importante, che porta a campionati sempre combattuti. Da venti anni il vincitore non viene fuori prima delle due ultime giornate e negli ultimi cinque anni si sono aggiudicati lo scudetto tre club diversi.
5. Cura dei vivai. In Bundesliga ogni anno sono investiti cento milioni di euro nelle accademie che alimentano i vivai. Il massimo campionato tedesco è una palestra per nuovi talenti e i club privilegiano i giovani che provengono dai rispettivi settori giovanili. Gli allenatori tedeschi, meno soggetti alla logica del risultato che imprigiona gli omologhi italiani, non hanno remore a lanciare in prima squadra i giovani che hanno qualità. Tra il 2008 e il 2009 la Germania ha fatto incetta di titoli nel settore giovanile, conquistando i titoli europei Under 17, Under 19 e Under 21 (divenuti i veri serbatoi della Nazionale maggiore). Senza contare che, nell’ultima stagione di Bundesliga, gli Under 23 scesi in campo hanno raggiunto la rispettabile percentuale del 15%. Un dato sul quale il presidente della Figc Abete, l’allenatore degli Azzurrri Prandelli e la sua triade di supporto tecnico (Baggio, Rivera e Sacchi) dovrebbero attentamente meditare.
Infine esiste un modello spagnolo. Pur se afflitto da una crisi che sta investendo pesantemente molte società della Liga, il calcio iberico inanella un successo dopo l’altro a livello internazionale. Gli stadi sono sempre affollati e costruiti a misura degli spettatori. Da quelle parti è un vero piacere assistere alle partite. Insomma tutt’altra cosa rispetto a quanto ci tocca vedere nel nostro disastrato panorama.
Il fatto è che, in Italia, il ricordo di un “modello” tricolore si è via via scolorito con il passare del tempo. Si naviga a vista. Il calcio, plasmato a misura della pay tv, sta debilitando le ultime resistenze di una tifoseria che nel passato aveva pochi raffronti in Europa. Manca una linea politica comune, condivisa e sostenibile. Ognuno continua a zappare il suo orticello, dimentico dell’interesse generale. Latita la lungimiranza, che pure dovrebbe contrassegnare l’agire degli umani. Gli stadi sono decrepiti e fatiscenti. L’acquisto dei biglietti è stato trasformato in una corsa a ostacoli. Durante le partite, salvo rare e meritorie eccezioni, prevale un senso di opaco grigiore. Se ancora esiste un modello italiano, si è ormai auto-confinato nella scelta indiscriminata di mettere più barriere possibili alle trasferte e di rallentare in tutti i modi consentiti l’accesso del pubblico negli stadi. Ciò avviene con misure preventive che sono anche e soprattutto punitive nei confronti della parte sana dei tifosi che ancora hanno voglia di assistere dal vivo alle partite. Ecco dunque gli stadi vuoti, la deriva tecnica del nostro calcio, l’arretramento progressivo nelle classifiche internazionali, il disincanto degli appassionati. Dov’è finito il campionato più bello del mondo? E’ davvero questo il modello con cui pensavamo di confrontarci nel terzo millennio?
L’ormai prossima introduzione del fair play finanziario rischia dunque di dare la spallata finale al traballante sistema pallonaro italiano.
Fair Play Finanziario
Il sistema di controllo dei bilanci introdotto dalla Uefa di monsieur Platini si basa su un assioma semplicissimo: un euro speso per ogni euro incassato. Nonostante questo molti club continuano a fare il gioco sporco, alla faccia della lealtà sportiva e dei criteri di pari opportunità. I club dovrebbero sopravvivere con le proprie forze, diversificando sempre più i ricavi. Le entrate andrebbero equamente suddivise tra diritti tv, incassi da stadio (ticketing), sponsorizzazioni e marketing, plusvalenze tra acquisti e cessioni, merchandising. In questa prospettiva il calcio italiano arriva al nastro di partenza in forte ritardo. Lo dimostra un recente studio di Deloitte – società di analisi, consulenza e revisione – che ha elaborato un rapporto sulla situazione complessiva della serie A mettendo a confronto i dati della stagione 2009-2010 con quelli della stagione precedente. I ricavi sono aumentati del 3,6%, toccando quota 1miliardo 736milioni di euro, ma il 52% è rappresentato dai proventi della vendita alle pay tv dei diritti televisivi. Il costo del lavoro è in crescita esponenziale. Gli stipendi (calciatori, tecnici, dirigenti e quant’altro) si mangiano l’80% del fatturato (contro il 74% della stagione precedente). Da registrare un calo delle plusvalenze (-11%) che indica una diminuzione del valore dei cartellini al momento delle cessioni. L’autosufficienza economica verso la quale spinge il ffp è dunque di là da venire per i club della serie A italiana. L’apporto di capitale da parte dei proprietari delle società riveste ancora un ruolo fondamentale nella sostenibilità economico-finanziaria. Nonostante un fatturato in crescita l’apporto di capitali dei proprietari risulta ancora determinante. Pesa fortemente il ritardo accumulato nella costruzione di nuovi stadi allineati ai parametri del calcio europeo. La nota positiva è rappresentata dalla tenuta complessiva del settore rispetto ad altri comparti economici che in Italia sono in forte sofferenza. I ricavi record registrati dalle leghe calcistiche in tutta Europa dimostrano la buona capacità del settore di resistere alle turbolenze economiche.
Questa tendenza trova conferma anche in una ricerca di Stage Up sulle sponsorizzazione sportive. Il loro valore in serie A è diminuito solo dell’1,1%, a fronte di un calo del 9.6% in tutti i settori economici. I 20 club della massima serie, secondo questa analisi, incassano dalle aziende 220,9 milioni di euro. In particolare Fiorentina, Inter, Juventus, Lazio, Milan, Napoli e Roma raccolgono il 75% del totale, vale a dire 165,4 milioni.(Fonte calciopress)
Idea Superlega calcistica europea
Il modello della Superlega è noto: un torneo riservato ai top club dei 5 più importanti campionati europei (Premier League, Liga, Serie A, Bundesliga e Ligue 1), senza retrocessioni e senza nuovi innesti (almeno nella fase iniziale). Una specie di Nba in salsa europea, anche se il nuovo torneo andrebbe “mixato” con i campionati nazionali che certo non potrebbero scomparire anche se obbligatoriamente vedrebbero ridotto il numero delle formazioni partecipanti.
Un campionato ricchissimo – secondo solo all’Nfl, la lega di football americano statunitense – capace di generare 6,3 miliardi di euro. A tanto, secondo StageUp, ammonterebbe il fatturato di una Superlega calcistica europea, espressione dei principali mercati continentali. A giudizio della società bolognese, il nuovo campionato continentale si posizionerebbe giusto alle spalle dell’Nfl – che fattura 7,4 miliardi di euro – superando la Major League di baseball statunitense, il cui giro d’affari è pari a 5,9 miliardi di euro e al campionato di basket della Nba, capace di 3,4 miliardi. Facendo il paragone con l’attuale Champions League, Superlega incasserebbe sei volte tanto e quadruplicherebbe i ricavi medi per singolo club della Serie A, oggi pari a 78 milioni di euro contro i 231 milioni di una squadra Nfl e i 113 milioni di una franchigia Nba. In base ai numeri messi in fila da StageUp, per quanto riguarda i ricavi per singola gara giocata, una squadra Nfl oggi incassa, in media, da diritti tv, commerciale e biglietteria sette volte di più di un club di Serie A: 14,4 milioni contro poco più di 2 milioni di euro. Una franchigia Nba, considerato l’elevato numero di partite giocate in stagione, incassa “appena” 1,4 milioni per gara.
“L’analisi sul potenziale di una eventuale Superlega – spiega in una nota Giovanni Palazzi, presidente di StageUp – dimostra come l’appeal globale del calcio possa generare straordinari ricavi. Va solo definito un modello di business vincente. Quello della Nfl, ad esempio, è particolarmente accentrato sugli aspetti commerciali e di finanziamento per la costruzione degli stadi nonchè sull’equità competitiva garantita, in larga parte, dall’applicazione di un tetto salariale rigido. Una eventuale Superlega, calata sulle problematiche europee di uniformità fiscale e giuslavoristica – chiosa – non potrà fare a meno di confrontarsi su questi aspetti”.
Fuori gioco. Calcio e potere. Da Della Valle a Berlusconi, da Preziosi a Moratti. La vera storia dei presidenti di Serie A
. I presidenti sgomitano, attaccano, fanno gol o li subiscono, tra affari, cordate e lobby, patti di sindacato, banche e giornali, operazioni immobiliari e finanziarie, rapporti con la politica, in tribuna e fuori dallo stadio. La trama del potere vista attraverso il calcio passa dalla Prima alla Seconda Repubblica, da Andreotti a Berlusconi, da Geronzi a Profumo.