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Le multinazionali più grandi del mondo: Quante sono, dove sono e chi sono

multinazionali più grandi

Le multinazionali nel mondo sono 387 (335 industriali, 29 TLC e 23 utilities), fatturano complessivamente 12.206 mld di euro e danno lavoro a quasi 32 milioni di persone.

In proporzione, le nordamericane fatturano di più, ma creano minore occupazione di quelle russo-asiatiche. Le europee hanno mediamente una dimensione maggiore. In un clima di generale stabilità, la Gazprom, per il “gioco dei cambi”, nel 2012 diventa la più grande del mondo superando la Toyota (in testa alla classifica dal 2005), ma questo sorpasso è, appunto, sostanzialmente “fittizio”, perchè essenzialmente motivato dai movimenti valutari: nel 2012 il rublo si è apprezzato del 3,6% rispetto all’euro, mentre lo yen si è deprezzato dell’11,8%. Nelle utilities, l’ENEL entra per la prima volta nei primi tre giganti del mondo, collocandosi dietro alle due francesi (1° EdF, 2° GDF Suez) e davanti a tedesche (E.ON) e spagnole (Iberdrola).

Aspetti economico-patrimoniali delle multinazionali nel periodo 2002-2012

L’Oriente batte l’Occidente per volumi di vendite, stabilità finanziaria e liquidità; l’Occidente, pur se con margini in calo nel 2012, vince ancora per redditività ed efficienza. L’Europa è dietro l’Oriente e il Nord America nei ricavi high tech (che assicurano un maggiore rendimento del capitale), ma sta recuperando terreno investendo soprattutto nella ricerca di alta tecnologia (farmaceutica in primis).

Le multinazionali italiane sono fanalino di coda in Europa

L’Italia scende da 17 nel 2011 a 16 nel 2012. Positivi segnali da tecnologia e occupazione, ma nel complesso ancora troppo deboli e troppo lontane da tedesche e francesi. Restano quindi perdenti nel confronto con Germania e Francia (minore redditività, minore solidità finanziaria, minore produttività e minore capacità di profitto). Il contributo al fatturato aggregato europeo delle multinazionali con sede in Italia è pari al 7%, contro il 26% del Regno Unito, il 21% della Germania e il 15% della Francia.

Le multinazionali italiane

I giganti del petrolio

I ricavi petroliferi hanno progressivamente eroso quote di mercato alla manifattura (hanno resistito solo l’elettronica e la farmaceutica), il che ha aumentato il potere dei governi che controllano il 70% del fatturato petrolifero mondiale. In proporzione, le multinazionali occidentali del petrolio fatturano di più, ma creano minore occupazione di quelle russo-asiatiche. Nel 2012, la più grande società petrolifera mondiale è la Royal Dutch Shell (una delle storiche “sette sorelle”), seguita dalla PetroChina e dalla ExxonMobil. Pur continuando a crescere per dimensione e ricavi, i giganti del petrolio hanno margini ancora lontani dai livelli pre-crisi (anche se superiori a quelli della manifattura) e quelli occidentali nemmeno creano occupazione.

L’Eni, che si colloca al quarto posto per dimensione nel 2012, non sfigura tra i giganti petroliferi europei. In Europa, nell’ultimo decennio, l’Eni guadagna quote di mercato, grazie alla maggiore corsa dei ricavi (essenzialmente all’estero, a causa della contrazione domestica nei consumi di petrolio). In un mercato con margini in calo, l’Eni si distingue nel decennio per maggiore redditività.

In una situazione di stagnazione del lavoro, l’Eni diminuisce l’occupazione home country più della media europea, ma è più dinamica nel creare occupazione all’estero. Rispetto ai suoi maggiori competitor europei, l’Eni nel 2012 è seconda per solidità finanziaria e sesta per liquidità (in entrambe le classifiche sale di quattro posizioni grazie alla cessione della Snam nell’ottobre 2012); è terza per redditività operativa, per competitività e per investimenti nelle attività di esplorazione.

E’ il quinto produttore europeo di idrocarburi con una quota del 12,2% e la produzione avviene per oltre la metà nel continente africano, mentre i maggiori competitor europei sono più orientati all’Asia-Russia. E’ in quarta posizione per riserve di idrocarburi con una stima attuale di 11,5 anni di autonomia, la più lunga dopo la BG Group.

Multinazionali petrolifere europee- riserve di idrocarburi

Tendenze globali nel primo trimestre 2013

In ripresa i ricavi e i margini del Giappone, in frenata Nord America ed Europa, così come l’Italia. Tengono l’alimentare, il cartario e il chimico-farmaceutico, soffrono i materiali da costruzione e l’energetico (in linea con il calo del prezzo del greggio del 4,7% nel primo trimestre 2013/2012). Di contro, migliorano leggermente i risultati patrimoniali delle multinazionali nel mondo, con una generalizzata diminuzione dei DF rispetto al CN; solo le nordamericane rimangono in linea con il 2012. Le italiane: seguono sostanzialmente l’andamento europeo. Solo la Parmalat, che opera nell’alimentare, registra un discreto aumento dei ricavi e dei margini nel 2013. Anche i risultati patrimoniali vedono un generale calo dei DF rispetto al CN, come nel resto dell’Europa.  
*Indagine sulle multinazionali (2002-2013)



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Lo “sporco” prezzo del petrolio

prezzo-petrolio

Dietro alle attuali oscillazioni nel prezzo del petrolio si muove un esercito di grandi petro-imprese e trader incravattati che agiscono in piazze lontanissime dai siti di produzione. E l’instabilità in regioni chiave potrebbe essere il risultato di calcoli di mercato.

Restrizioni alle esportazioni di petrolio iraniano, instabilità in Siria e in altri paesi, maggior consumo da parte dei “giganti” asiatici, speculazione finanziaria, ridotta capacità di raffinazione negli Stati Uniti.

Qual è la vera causa delle oscillazioni nel prezzo del petrolio? Per Ralph Nader è questa la ‘vera guerra’ per l’amministrazione Obama.

L’aumento di un solo penny nel prezzo del gasolio – spiega Nader – si traduce in una spesa aggiuntiva, per i consumatori statunitensi, di 1,6 miliardi di dollari. Senza contare gli aumenti delle bollette. E allora perché il prezzo del petrolio è così libero di oscillare, senza meccanismi o istituzioni in grado di controllarlo?

La risposta è agghiacciante: la causa è l’eccessiva libertà di cui godono i cartelli petroliferi, anche all’interno degli stessi Stati Uniti. 

Questo, da quando Ronald Reagan ha sentenziato che ‘il governo non fosse la soluzione, ma il problema’, con la conseguenza che oggi una delle più importanti risorse mondiali, per la quale si fanno accordi politici, si combattono guerre, si rovesciano regimi in ogni angolo del pianeta, è oggetto di “scommesse” per gli speculatori del New York Mercantile Exchange, con il benestare degli organismi statali.

Perché il prezzo del petrolio dipende certamente dalle decisioni del cartello dei maggiori produttori, la famigerata Opec (Organizzazione dei paesi produttori di petrolio), ma sono soprattutto i diktat delle mega-imprese petrolifere e le quotazioni sui maggiori mercati internazionali, New York e Londra in primis, a determinare sbalzi e aumenti inaspettati.

Si crea così un sistema transnazionale che lega nel nome dell’oro nero paesi e attori tra loro geograficamente lontanissimi.

Da un lato i produttori, raggruppati nell’Opec, che possono influenzare il prezzo del petrolio a livello internazionale, aumentando o diminuendo la quantità di produzione del prezioso minerale.

Dall’altro le grandi compagnie petrolifere, che sono in grado di influenzare le scelte e le sorti di governi non soltanto nei paesi dove esse operano, tendenzialmente più instabili, ma anche a casa propria.

Un esempio lampante è il caso della statunitense ExxonMobil, le cui attività in Iraq stanno inasprendo il contrasto tra Baghdad e il Kurdistan iracheno, nonostante l’intervento della Casa Bianca.

Infine, le grandi piazze internazionali, localizzate per lo più in territorio statunitense ed europeo, dove la speculazione finanziaria scommette sul rendimento dei titoli dei beni di consumo, cibo e risorse come il petrolio, influenzando non soltanto i prezzi, ma anche le sorti di chi, alla fine, conta su questi beni per il proprio sostentamento.

Un meccanismo già di per sé complicato, su cui si innestano ulteriori variabili che rendono ancora più difficile la comprensione delle leggi che governano il sistema.

Come ad esempio lo scontro tutto interno all’Opec sulla determinazione delle quote di produzione e sul livello dei prezzi, sui cui si innestano, in seconda battuta, le sanzioni contro l’Iran o la recente morte di Hugo Chávez.

O ancora le grandi crisi che stanno colpendo economie forti come quelle europee o statunitense, con conseguenti oscillazioni dei rispettivi titoli sui mercati internazionali, che creano le condizioni di quella “tempesta perfetta” che alimenta l’attività degli speculatori internazionali, con conseguenti ulteriori sbalzi.

Il problema – continua Nader -, riferendosi al caso statunitense, è che di petrolio a livello mondiale ce n’è in abbondanza. Innanzitutto negli stessi Stati Uniti, produttori e al contempo importatori netti (con grandi costi di “posizionamento strategico” in termini monetari e di vite umane per i propri cittadini). Ma soprattutto nelle regioni del mondo più ricche di petrolio.

È l’Economist stesso a ricordare come l’Iraq, almeno sulla carta, potrebbe risultare decisivo, nei prossimi anni, per mantenere la stabilità dei prezzi del petrolio.

Le sue enormi riserve, 143 miliardi di barili, il 9% delle riserve mondiali, potrebbero riuscire a colmare quei vuoti che i mercati mondiali sembrano temere. Certamente, questo sarà possibile una volta superate le rivalità tra il governo centrale di Baghdad e le autorità del Kurdistan sull’esclusività dello sfruttamento petrolifero, per non parlare delle grandi opere di manutenzione e modernizzazione di cui necessita il sistema infrastrutturale del paese.

Nonostante l’articolo si chiuda con una nota pessimistica, secondo cui le previsioni di Baghdad di portare la produzione a 10 milioni di barili al giorno nel 2020 saranno puntualmente disattese (l’Economist prevede, come ipotesi più probabile, 6 milioni al giorno, per quella data), non significa tuttavia che le paure dei mercati siano sempre giustificate.

Pensiamo alle aree dello stesso Iraq non ancora esplorate dalle compagnie petrolifere, o all’ipotesi di un Iran libero di esportare, senza sanzioni, per non parlare di possibili e inattese sorprese su modello del Venezuela, la cui scoperta di nuovi giacimenti offshore ha permesso al paese di superare l’Arabia Saudita in termini di riserve provate.

Sebbene il petrolio resti una risorsa non rinnovabile e sicuramente sempre meno sostenibile anche dal punto di vista ambientale, è altrettanto vero che le reazioni dei mercati appaiono spropositate.

Così come è chiaro che finché i paesi produttori saranno vittime di ingerenze esterne – attacchi, colpi di stato, guerre commerciali e altre forme di boicottaggio – sarà difficile assicurare un flusso costante. Con conseguenti sprechi e mutilazioni delle capacità produttive, ma soprattutto con la diffusione della tanto temuta instabilità.

Sorge il dubbio, tuttavia, che i mercati non sussultino per timore. A muovere i ‘mercati’ sono persone intenzionate a guadagnare. E più la situazione è instabile e mutevole e maggiore è il guadagno. Perché è proprio questa la caratteristica principale dei mercati, oltre alla loro interconnessione con gli ambienti della politica e dell’economia.

Viene da pensare che, forse, l’instabilità di alcuni paesi chiave non sia tanto un ‘mostro’ da evitare, per certi centri di potere, quanto piuttosto un volano foriero di sempre maggiori occasioni di business.

E’ il caso certamente degli stock exchange, ma anche di diverse industrie, da quelle belliche a quelle edilizie per la ricostruzione, così come di alcuni gruppi politici che altrimenti resterebbero ai margini.

(Fonte osservatorioiraq – Giovanni Andriolo)

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