Sentite cosa dice Oliver Hart, professore di Economia presso l’Università statunitense di Harvard e nuovo premio Nobel per l’Economia. Hart, nato nel Regno Unito nel 1948, in un’intervista rilasciata all’agenzia di stampa spagnola Efe, boccia la moneta unica e detta anche la strategia per uscirne. L’exit strategy dalla moneta unica indicata da Hart prevede l’istituzione di “una qualche autorità” per permettere ai governi di riacquisire sovranità monetaria. Dopo Paul Krugman, Joseph Stiglitz, Amartya Sen, Milton Friedman, James Mirrless e Christopher Pissarides, arriva il settimo Nobel critico nei confronti della moneta unica. Continue Reading
Eurozona
Il debito pubblico greco è illegale, illegittimo e odioso
“La Grecia si trova a un bivio, dovendo scegliere se proseguire con i programmi di aggiustamento macroeconomico imposti dai creditori o effettuare un cambiamento reale per spezzare le catene del debito. A distanza di 5 anni da quando i programmi di aggiustamento cominciarono, il paese resta profondamente immerso in una crisi economica, sociale, democratica ed ecologica. La scatola nera del debito è rimasta chiusa, e finora nessuna autorità, né greca né internazionale, ha cercato di far luce su come e perché la Grecia sia stata assoggettata al regime della Troika. Il debito, nel cui nome non è stato risparmiato niente, rimane la regola attraverso la quale viene imposto l’aggiustamento neoliberale e la recessione più profonda e prolungata mai vissuta dall’Europa in tempo di pace.
Esiste un bisogno immediato e una responsabilità sociale di indirizzare una gamma di questioni legali, sociali ed economiche che pretendono adeguata considerazione. La risposta del Parlamento Ellenico è stata di istituire, in aprile del 2015, il Comitato per la Verità sul Debito Pubblico, incaricato di investigare la creazione e la crescita del debito pubblico, il modo e i motivi per i quali il debito è stato contratto, e l’impatto che le condizioni legate ai prestiti hanno avuto sull’economia e la popolazione. Il Comitato per la Verità ha il mandato di diffondere la consapevolezza delle questioni riguardanti il debito greco, sia all’interno che internazionalmente, e di formulare argomentazioni e opzioni pertinenti la cancellazione del debito.
La ricerca del Comitato presentata in questo resoconto preliminare fa luce sul fatto che l’intero programma di aggiustamento, al quale la Grecia è stata assoggettata, era e rimane un programma orientato politicamente. L’esercizio tecnico che circonda le variabili macroeconomiche e le proiezioni di debito, cifre legate direttamente alle vite e al sostentamento delle persone, ha fatto sì che le discussioni sul debito restassero a un livello tecnico, basandosi soprattutto sulla tesi che le politiche imposte alla Grecia avrebbero migliorato la sua capacità di ripagare il debito. I fatti presentati in questo resoconto contestano tale tesi.
Tutte le prove da noi presentate in questo resoconto mostrano che la Grecia non solo non ha la capacità di pagare questo debito, ma anche che non dovrebbe pagarlo, prima di tutto perché il debito conseguente alle disposizioni della Troika è una diretta violazione dei fondamentali diritti umani degli abitanti della Grecia. Siamo perciò pervenuti alla conclusione che la Grecia non dovrebbe ripagare questo debito in quanto esso è illegale, illegittimo e odioso.
Il Comitato ha anche compreso che l’insostenibilità del debito pubblico greco era evidente fin dall’inizio ai creditori internazionali, alle autorità greche e ai grandi media. Eppure le autorità greche, insieme ad altri governi dell’UE, cospirarono nel 2010 contro la ristrutturazione del debito pubblico per proteggere le istituzioni finanziarie. I grandi media nascosero la verità al pubblico dipingendo una situazione in cui il salvataggio avrebbe avvantaggiato la Grecia, costruendo al contempo una narrativa secondo la quale la popolazione raccoglieva giustamente il frutto dei propri errori.
I fondi per il salvataggio forniti in entrambi i programmi del 2010 e 2012 sono stati gestiti esternamente tramite schemi complicati che hanno prevenuto ogni autonomia fiscale. L’uso del denaro del salvataggio è strettamente dettato dai creditori, e perciò è indicativo che meno del 10% di questi fondi sia stato destinato alle spese correnti del governo.
Questo rapporto preliminare presenta una prima individuazione dei problemi principali e delle questioni associate con il debito pubblico, e nota cruciali violazioni legali associate con la contrazione del debito; inoltre tratteggia le fondazioni legali sulle quali si può basare la sospensione unilaterale dei pagamenti. I risultati sono presentati in 9 capitoli strutturati come segue:
– Capitolo 1: Debito prima della Troika, analizza la crescita del debito pubblico greco dagli anni ’80, e conclude che l’aumento del debito non fu dovuto a una spesa pubblica eccessiva, di fatto inferiore a quella di altri paesi dell’Eurozona, ma al pagamento di interessi ai creditori a tassi estremamente alti, a spese militari eccessive e ingiustificate, a perdita di gettito fiscale dovuta a esportazioni illecite di capitale, a ricapitalizzazioni statali di banche private, e agli squilibri internazionali creati dai difetti intrinseci della stessa Unione Monetaria.
L’adozione dell’euro portò a un drastico aumento del debito privato, al quale erano esposte importanti banche europee, così come le banche greche. Una crescente crisi bancaria contribuì alla crisi del debito sovrano greco. Il governo di George Papandreou contribuì a presentare la crisi bancaria come una crisi del debito sovrano quando nel 2009 aumentò il deficit e il debito pubblico.
– Capitolo 2: Evoluzione del debito pubblico greco dal 2010 al 2015, conclude che il primo accordo sul prestito del 2010 mirava soprattutto a salvare le banche greche e altre banche private europee, e a permettere alle banche di ridurre la loro esposizione ai titoli di stato greci.
– Capitolo 3: Debito pubblico greco per creditore nel 2015, presenta la controversa natura dell’attuale debito greco, delineando le caratteristiche principali dei prestiti, analizzate in dettaglio nel Capitolo 8.
– Capitolo 4: Il meccanismo del sistema del debito in Grecia, rivela i meccanismi previsti dagli accordi implementati da maggio 2010. Essi crearono un sostanziale ammontare di nuovo debito verso creditori bilaterali e il Fondo Europeo di Stabilità (EFSF), generando al contempo costi abusivi e peggiorando ulteriormente la crisi. I meccanismi rivelano come la maggioranza dei fondi presi a prestito furono trasferiti direttamente alle istituzioni finanziarie. Anziché avvantaggiare la Grecia, essi hanno accelerato il processo di privatizzazioni tramite l’uso di strumenti finanziari.
– Capitolo 5: Condizioni contro la sostenibilità, descrive il modo in cui i creditori imposero condizioni invasive che portarono direttamente all’insostenibilità del debito. Tali condizioni, sulle quali i creditori tuttora insistono, hanno non solo contribuito ad abbassare il PIL e ad alzare l’indebitamento pubblico, portando quindi a un maggiore rapporto debito/PIL, ma hanno anche disegnato cambiamenti drammatici nella società e provocato una crisi umanitaria. Il debito pubblico greco può essere ora considerato totalmente insostenibile.
– Capitolo 6: Impatto dei ‘programmi di salvataggio’ sui diritti umani, conclude che le misure implementate con i ‘programmi di salvataggio’ hanno influenzato direttamente le condizioni di vita delle persone e violato i diritti umani che, secondo il diritto nazionale, regionale e internazionale, la Grecia e i suoi partner sono obbligati a rispettare, proteggere e promuovere. I drastici aggiustamenti imposti all’economia greca e alla società nel suo insieme hanno portato a un rapido deterioramento degli standard di vita, e restano incompatibili con la giustizia sociale, la coesione sociale, la democrazia e i diritti umani.
– Capitolo 7: Questioni legali pertinenti il MOU e gli accordi di prestito, sostiene che si è avuta una violazione dei diritti umani da parte della stessa Grecia e dei prestatori, ovvero degli stati creditori dell’Eurozona, della BCE e del FMI, che hanno imposto tali misure alla Grecia. Tutti questi attori non hanno valutato le violazioni dei diritti umani conseguenti alle politiche da loro imposte alla Grecia, e hanno inoltre violato direttamente la costituzione greca privandola di fatto di gran parte dei suoi diritti sovrani. Gli accordi contengono clausole abusive che costringono la Grecia a rinunciare a elementi importanti della sua sovranità. Questo è evidente nella scelta del diritto britannico, che facilitò l’aggiramento della costituzione greca e dei diritti umani internazionali. Incompatibilità con i diritti umani e gli obblighi consuetudinari, numerosi indizi di malafede nelle parti contraenti, e carattere immorale di questi accordi, rendono questi ultimi invalidi.
– Capitolo 8: Valutazione dei debito rispetto all’illegittimità, l’odiosità, l’illegalità e l’insostenibilità, fornisce una valutazione del debito pubblico greco secondo le definizioni di ‘illegittimo’, ‘odioso’, ‘illegale’ e ‘insostenibile’ adottate dal Comitato. Il capitolo conclude che a giugno 2015 il debito pubblico greco è insostenibile, poiché la Grecia non è attualmente in grado di ripagare il debito senza minare la sua capacità di assolvere i più elementari obblighi relativi ai diritti umani. Inoltre il resoconto fornisce per ogni creditore le prove di casi rivelatori di debiti illegali, illegittimi e odiosi.
Il debito verso il FMI dovrebbe essere considerato illegale poiché la sua concessione violò lo stesso statuto del FMI, e le sue condizioni violarono la costituzione greca, il diritto consuetudinario internazionale e i trattati che la Grecia ha sottoscritto. E’ anche illegittimo, perché le condizioni includono prescrizioni politiche che violano gli obblighi relativi ai diritti umani. Infine è odioso, in quanto l’FMI sapeva che le misure imposte erano antidemocratiche, inefficaci, e avrebbero portato a gravi violazioni dei diritti socio-economici.
I debiti verso la BCE dovrebbero essere considerati illegali poiché la BCE ha scavalcato il suo mandato imponendo l’applicazione di programmi di aggiustamento macroeconomico (ad esempio la deregolamentazione del mercato del lavoro) tramite la sua partecipazione nella Troika. I debiti verso la BCE sono anche illegittimi e odiosi, perché la principale ragione d’essere del Securities Market Programme (SMP) era di fare gli interessi delle istituzioni finanziarie, permettendo alle principali banche private europee e greche di disfarsi dei titoli di stato greci.
L’EFSF si impegna in prestiti senza contante che dovrebbero essere considerati illegali perché in violazione dell’articolo 122 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFEU), oltre a numerosi diritti socio-economici e libertà civili. Per di più, l’Accordo Strutturale sull’EFSF del 2010 e il Master Financial Assistance Agreement del 2012 contengono diverse clausole abusive che rivelano chiaramente cattiva condotta da parte del prestatore. L’EFSF agisce anche contro i principii democratici, rendendo questi debiti particolari illegittimi e odiosi.
I prestiti bilaterali dovrebbero essere considerati illegali perché violano la procedura prevista dalla costituzione greca. I prestiti comportavano chiaramente cattiva condotta da parte dei prestatori, e contenevano condizioni che contravvenivano il diritto o la politica pubblica. sia il diritto dell’UE che quello internazionale sono stati violati per mettere da parte i diritti umani nel disegno dei programmi macroeconomici. I prestiti bilaterali sono anche illegittimi, in quanto non sono stati usati a beneficio della popolazione, ma solo per permettere ai creditori privati della Grecia di essere salvati. Infine, i prestiti bilaterali sono odiosi perché gli stati prestatori e la Commissione Europea erano consapevoli delle potenziali violazioni, ma nel 2010 e 2012 evitarono di valutare l’impatto sui diritti umani dell’aggiustamento macroeconomico e del consolidamento fiscale che costituivano le condizioni per i prestiti.
Il debito verso i creditori privati dovrebbe essere considerato illegale perché le banche private si comportarono in modo irresponsabile prima dell’istituzione della Troika, non osservando la dovuta diligenza, mentre alcune creditori privati come i fondi speculativi agirono anche in malafede. Alcune parti dei debiti verso le banche private e i fondi speculativi sono illegittime per le stesse ragioni per cui sono illegali; inoltre le banche greche furono illegittimamente ricapitalizzate dai contribuenti. I debiti verso le banche private e i fondi speculativi sono odiosi, perché i maggiori creditori privati erano consapevoli che questi debiti non erano contratti nell’interesse della popolazione ma piuttosto a loro proprio vantaggio.
Il resoconto si conclude con alcune considerazioni pratiche.
Il Capitolo 9: Fondazioni legali per il ripudio e la sospensione del debito sovrano greco, presenta le opzioni per la cancellazione del debito, in particolare le condizioni nelle quali, secondo il diritto internazionale, uno stato sovrano può esercitare il diritto di agire unilateralmente per ripudiare o sospendere il pagamento del debito. Esistono diversi argomenti legali che permettono a uno stato di ripudiare unilateralmente il suo debito illegale, odioso e illegittimo. Nel caso greco, tale atto unilaterale potrebbe basarsi sui seguenti argomenti: la malafede dei creditori che spinsero la Grecia a violare il diritto nazionale e internazionale pertinente i diritti umani; la prevalenza dei diritti umani su accordi come quelli firmati dai governi precedenti con i creditori o con la Troika; la coercizione; i termini iniqui in flagrante violazione della sovranità greca e della costituzione; e infine il diritto, riconosciuto dal diritto internazionale, di uno stato a prendere contromisure contro atti illegali dei suoi creditori che danneggino intenzionalmente la sua sovranità fiscale, lo obblighino a contrarre un debito odioso, illegale e illegittimo, e vìolino l’autodeterminazione economica e i diritti umani fondamentali. Per quanto concerne l’insostenibilità del debito, ogni stato ha per legge il diritto di invocare la necessità in situazioni eccezionali per salvaguardare gli interessi essenziali minacciati da un pericolo grave e imminente. In tale situazione, lo stato può essere dispensato dall’adempimento degli obblighi internazionali che aumentino il pericolo, come nel caso dei contratti di prestito. Infine, gli stati hanno il diritto di dichiararsi unilateralmente insolventi, ove il pagamento del debito risulti insostenibile, nel qual caso non commettono un atto ingiusto e non hanno di conseguenza responsabilità. La dignità delle persone vale di più di un debito illegale, illegittimo, odioso e insostenibile.
Avendo concluso un’indagine preliminare, il Comitato considera che la Grecia è stata ed è tuttora la vittima di un attacco premeditato e organizzato da parte del FMI, della BCE e della Commissione Europea. Questa missione violenta, illegale e immorale mirava esclusivamente a spostare il debito privato al settore pubblico.
Rendendo disponibile questo rapporto preliminare alle autorità e al popolo greco, il Comitato considera di aver adempito alla prima parte della sua missione come definita nella decisione del Presidente del Parlamento il 4 aprile 2015. Il Comitato spera che il resoconto sarà uno strumento utile a quanti vogliono uscire dalla logica distruttiva dell’austerità e difendere ciò che oggi è messo in pericolo: i diritti umani, la democrazia, la dignità dei popoli e il futuro delle generazioni a venire.
In risposta a quanti impongono misure ingiuste, il popolo greco potrebbe invocare ciò che Tucidide menzionò riguardo alla costituzione del popolo ateniese: “Di nome è chiamata una democrazia, perché l’amministrazione è gestita con in vista gli interessi dei molti, non dei pochi.” Tratto dall’intero resoconto dalla commissione parlamentare ellenica
>>Leggi il rapporto preliminare dell’inchiesta della Commissione “Verità sul debito pubblico” istituito alcuni mesi fa dal parlamento ellenico
Krugman: “Per uscire dalla crisi la Grecia deve abbandonare l’euro”
Alla luce della vittoria del “no” alla troika in Grecia, P. Krugman sostiene che i veri europeisti dovrebbero esultare. Fortunatamente, si è evitato che le istituzioni europee rovesciassero un altro governo democratico, imponendo politiche che loro stesse ammettono fallite. Come sottolinea il Nobel, l’unica plausibile uscita dalla crisi per la Grecia è un’uscita dall’eurozona, uscita per la quale i maggiori costi – la crisi bancaria e finanziaria – sono ormai stati pagati.
“Domenica l’Europa ha schivato un proiettile. Smentendo molte previsioni, gli elettori greci hanno fortemente sostenuto il rifiuto alle richieste dei creditori da parte del loro governo. E anche i più ardenti sostenitori dell’Unione europea dovrebbero tirare un sospiro di sollievo.
Naturalmente, i creditori non la metterebbero in questo modo. La loro versione dei fatti, ripresa da molti nella stampa finanziaria, è che il fallimento del loro tentativo di costringere la Grecia alla sottomissione è un trionfo dell’irrazionalità e dell’irresponsabilità sui buoni consigli dei tecnocrati.
Ma la campagna di sopraffazione — il tentativo di terrorizzare i greci privando le loro banche di finanziamenti e minacciando il caos generale, il tutto con l’obiettivo quasi dichiarato di disarcionare l’attuale governo di sinistra— è stato un episodio vergognoso per un’Europa che afferma di credere ai principi democratici. Se quella campagna fosse riuscita, si sarebbe stabilito un terribile precedente, anche se i creditori avessero avuto ragione.
Per di più, non ce l’hanno. La verità è che i sedicenti tecnocrati europei sono come medici medievali che insistono nel salassare i loro pazienti — e quando il loro trattamento fa ammalare ancor di più i pazienti, essi chiedono di togliere ancora più sangue. Una vittoria del “Sì” in Grecia avrebbe condannato il paese ad altri anni di sofferenza nell’attuare politiche che non hanno funzionato e addirittura, come dice l’aritmetica, non possono funzionare: l’austerità probabilmente riduce il PIL più velocemente di quanto si riduce il debito, quindi tutta la sofferenza non serve a niente. La schiacciante vittoria del “no” offre almeno una possibilità di una via di fuga da questa trappola.
Ma come gestire questa fuga? C’è un modo per la Grecia di rimanere nell’euro? E questo è in ogni caso auspicabile?
La questione più immediata riguarda le banche greche. Prima del referendum, la Banca Centrale Europea ha tagliato il loro accesso a ulteriori fondi, facendo precipitare il panico e costringendo il governo a imporre la chiusura delle banche e i controlli di capitali. La Banca Centrale deve ora affrontare una scelta difficile: se riprendesse il normale finanziamento sarebbe come ammettere che il congelamento precedente era politico, ma se non lo facesse, in pratica costringerebbe la Grecia ad introdurre una nuova moneta.
In particolare, se il denaro non inizia a scorrere da Francoforte (la sede della Banca centrale), la Grecia non avrà altra scelta se non cominciare a pagare salari e pensioni con i.o.u.s, (in inglese I Owe You, ossia “pagherò”, cambiali NdVdE) che sarebbero de facto una valuta parallela — e che potrebbero presto trasformarsi nella nuova dracma
Supponiamo che, al contrario, la Banca centrale riprenda la normale erogazione dei prestiti, e che la crisi bancaria si risolva. Rimane ancora la questione di come rilanciare la crescita economica.
Durante i negoziati falliti che hanno portato al referendum di domenica, il punto critico centrale era la richiesta della Grecia di una riduzione permanente del debito, per rimuovere le incertezze che gravavano sulla sua economia. La troika — le istituzioni che rappresentano gli interessi dei creditori — ha rifiutato, ma ora sappiamo che un membro della troika, il Fondo Monetario Internazionale, aveva concluso in modo indipendente che il debito della Grecia non può essere ripagato. Cambieranno atteggiamento ora che è fallito il tentativo di deporre la coalizione di sinistra al governo?
Immaginate, per un momento, che la Grecia non avesse mai adottato l’euro, che avesse semplicemente fissato il valore della dracma a quello dell’euro. Cosa suggerirebbero di fare le semplici analisi economiche di base? La risposta, a stragrande maggioranza, sarebbe che dovrebbe svalutare — lasciare scendere il valore della dracma – sia per incoraggiare le esportazioni sia per uscire dal ciclo della deflazione.
Naturalmente, la Grecia non ha più una propria moneta, e molti analisti erano soliti affermare che l’adozione dell’euro era una decisione irreversibile— dopo tutto, ogni accenno di uscita dall’euro avrebbe scatenato una devastante crisi bancaria e una crisi finanziaria. Ma a questo punto la crisi finanziaria c’è già stata, così che i maggiori costi di un’uscita dall’euro sono stati pagati. Perché, allora, non godere dei benefici?
L’uscita greca dall’euro avrebbe lo stesso, grande successo della svalutazione dell’Islanda nel 2008-09, o dell’abbandono dell’Argentina della sua politica un-peso-un-dollaro nel 2001-02? Forse no — ma consideriamo le alternative. A meno che la Grecia non ottenga davvero una grossa cancellazione del debito, e forse anche se la ottenesse, lasciare l’euro offre la sola via di fuga plausibile dal suo incubo economico senza fine.
E cerchiamo di essere chiari: se la Grecia alla fine lascia l’euro, non significa che i greci sono cattivi europei. Il problema del debito della Grecia comporta che ci siano dei creditori irresponsabili tanto quanto dei debitori irresponsabili, e in ogni caso i greci hanno pagato per i peccati del loro governo molte volte. Se non riescono a prosperare all’interno della moneta comune europea, è perché quella moneta comune non offre nessun aiuto ai paesi in difficoltà. La cosa importante ora è fare tutto il necessario per terminare l’emorragia”. Paul Krugman – traduzione vocidallestero
La crisi della “virtuosa” Finlandia spaventa l’Europa
Karl Whelan, professore di economia all’università di Dublino, descrive sul sito medium.com la situazione della Finlandia. Neppure uno dei paesi cosiddetti “virtuosi” è immune dagli effetti perversi dell’eurozona, e così anche i finlandesi si sentono ripetere il mantra delle “riforme strutturali”, invocazione in realtà priva di senso. Questo dimostra che la crisi dell’eurozona ha ben poco a che fare con la pigrizia meridionale, la corruzione, la burocrazia, sempre invocate come capri espiatori, e che l’Europa sta seguendo un modello di crescita sbagliato.
Di Karl Whelan , 19 marzo 2015
Il dibattito sui problemi economici dell’Europa tende a concentrarsi molto sulla necessità per paesi come Italia e Grecia di introdurre “riforme strutturali” per rilanciare la crescita. Tuttavia, la crisi dell’Europa va molto oltre i paesi dell’Europa meridionale con la loro reputazione di inefficienza e irresponsabilità fiscale.
La settimana scorsa il Financial Times ha pubblicato un interessante report sulla Finlandia. Negli ultimi anni i governi della Finlandia sono stati tra i più fanatici nel rimproverare i paesi ad alto debito sulla necessità di tagliare il deficit e concentrarsi nelle riforme strutturali. Ma le cose non stanno andando così bene in Finlandia in questi giorni. Il PIL si è contratto per tre anni consecutivi (vedi pagina 28 del bollettino statistico della Commissione europea).
Il FT è abbastanza disorientato da questo andamento, e ammette che “la ricetta da seguire per la crisi attuale non è chiara” come invece lo era durante la crisi finlandese post-sovietica dei primi anni ‘90.
La verità, tuttavia, è che la crisi della Finlandia non è poi così complicata. Infatti, è una storia semplice che possiamo aspettarci di vedere ripetersi in molti paesi d’Europa, e in particolare in Germania, nei prossimi decenni. Due fattori stanno determinando il crollo della Finlandia: una demografia in crisi e una scarsa crescita della produttività.
La demografia
Il primo elemento chiave del crollo della Finlandia viene identificato dal FT: la Finlandia sta rapidamente invecchiando. Di conseguenza, la popolazione del paese in “età lavorativa”, tra i 15 e i 64 anni, è in calo. Questo ha comportato che non c’è stata alcuna crescita dell’occupazione negli ultimi quattro anni, nonostante un leggero aumento del tasso di partecipazione delle persone in età compresa tra i 15 e i 64 anni, e qualche piccola variazione del tasso di disoccupazione nello stesso periodo.
L’Eurostat prevede che questo trend demografico continuerà nel prossimo decennio. Anche se nei prossimi anni il tasso di disoccupazione in Finlandia dovesse calare, è improbabile che ci sarà una qualche crescita dell’occupazione nel prossimo decennio. In questo senso, come ho approfondito in un testo redatto insieme a Kieran McQuinn, la Finlandia fa da apripista rispetto ad altri paesi.
In particolare, la percentuale della popolazione tedesca in età tra i 15 e i 64 anni è destinata a precipitare nel prossimo decennio, scendendo al di sotto della Finlandia entro il 2030, per poi declinare ulteriormente. La situazione nel gruppo dell’eurozona dei 12 (cioè gli 11 paesi originari, più la Grecia) è relativamente simile, con la percentuale destinata a scendere sotto il livello della Finlandia negli anni 2030. Qui sotto le previsioni di Eurostat.
Produttività
La performance scadente dell’occupazione è un aspetto del cattivo andamento economico della Finlandia. L’altro aspetto è un’evoluzione deludente della quantità di PIL reale prodotto da ciascun lavoratore, quel che gli economisti chiamano produttività del lavoro.
In questo campo la Finlandia aveva tradizionalmente ottenuto risultati un po’ migliori rispetto al resto dell’eurozona. Come mostra il grafico sotto, la produttività del lavoro è cresciuta costantemente in Finlandia dagli anni ‘60 fino al 2007. Tuttavia, nei sette anni successivi al 2007, la produttività del lavoro finlandese è scesa di circa il 3%.
Questa evoluzione può essere una brutta sorpresa per i finlandesi, ma su questo punto la Finlandia si conforma all’andamento europeo. La crescita della produttività nell’eurozona è in frenata da lungo tempo. Infatti, nel mio testo scritto con Kieran McQuinn, si sostiene che in futuro la crescita della produttività europea potrebbe essere perfino peggiore di quel che è stata nell’ultimo decennio, dato che molta di questa crescita era dovuta all’accumulo di capitale e che questo fattore è probabile che si indebolirà.
Riforme strutturali? Il sistema pensionistico
Quindi la ricetta europea per una lenta crescita sta dando i suoi frutti in Finlandia. L’invecchiamento della popolazione significa nessuna crescita dell’occupazione, e produttività deludente significa nessuna crescita del PIL.
La risposta da parte dei politici europei alla lenta crescita è sempre la stessa: “riforme strutturali”. Questo termine è usato così spesso che ci si può qualche volta dimenticare che questa invocazione delle riforme non è quasi mai sostenuta da specifiche raccomandazioni di politica economica. Ma perché un qualsiasi programma di riforme possa funzionare in un paese come la Finlandia, esso dovrebbe fare qualcosa per risolvere i due fattori che abbiamo descritto: l’occupazione e la produttività.
In materia di occupazione, la Finlandia ha un tasso di disoccupazione dell’8,8 per cento. Nonostante l’attuale crisi del paese, questo dato è sotto la media dell’eurozona , quindi è difficile che si possano trarre grandi vantaggi da riforme volte a ridurre i tassi medi di disoccupazione.
Un’altra potenziale area di riforma sono i sistemi pensionistici. Molti paesi europei hanno sistemi pensionistici generosi e tassi di partecipazione alla forza lavoro molto bassa tra i più anziani. La Finlandia, tuttavia, se la cava piuttosto bene su questo punto.
Il seguente grafico confronta i tassi di partecipazione alla forza lavoro degli anziani in Finlandia (le linee marroni) con quelli dell’eurozona a 12 paesi (le linee blu) e quelli della Svizzera (le linee nere). Quest’ultima viene mostrata perché organizzazioni quali l’OCSE e la Commissione Europea l’hanno indicata come modello per gli alti tassi di partecipazione alla forza lavoro degli anziani. Il grafico mostra che la Finlandia se la cava molto meglio rispetto al resto dell’eurozona ed è generalmente molto più vicina alla Svizzera rispetto al resto dell’eurozona.
Il mio testo scritto con Kieran McQuinn discute la possibilità che la riforma delle pensioni possa rilanciare la crescita in Europa. Abbiamo calcolato che una riforma delle pensioni che vedesse i lavoratori finlandesi rimanere nella forza lavoro come i loro equivalenti svizzeri, darebbe una spinta alla crescita del PIL di 0,12 punti percentuali all’anno nei prossimi trent’anni. Si tratta di un impatto piuttosto modesto. In generale, è chiaro che la riforma delle pensioni non è la strada giusta perché la Finlandia possa tornare alla crescita.
Riforme strutturali? La Produttività
L’altra area per una potenziale riforma di cui si parla spesso è una riforma a favore delle aziende che riduca la burocrazia e aumenti la produttività. Non c’è da sorprendersi se il giornalista del FT in Finlandia ha trovato diverse persone (un capo dell’opposizione e un ex ministro delle finanze svedese) pronte a discutere dell’”enorme necessità di riforme strutturali”.
Come tutti i paesi al mondo, la Finlandia non è perfetta e sono sicuro che ci sono un sacco di riforme a favore delle aziende che potrebbero essere introdotte. Ma è importante discutere la questione in un contesto adeguato. L’Indagine Doing Business della Banca mondiale raccoglie una enorme gamma di indicatori sulle facilitazioni al business e in questo momento colloca la Finlandia al nono posto nel mondo. Ciò significa che essa è la migliore nazione dell’eurozona, e dietro solo al Regno Unito e alla Danimarca nell’UE.
Sulla base di questi dati, sembra improbabile che la Finlandia sia in grado di elevare significativamente il suo tasso di crescita della produttività attraverso delle riforme strutturali.
Che dire degli altri paesi? Il nostro testo discute il potenziale impatto che potrebbero avere le riforme strutturali sulla crescita in ogni paese dell’eurozona a 12. In alcuni casi (come Spagna e Grecia), queste riforme possono avere effetti molto positivi. Ma, in media, le riforme difficilmente possono ribaltare l’impatto di una demografia declinante e delle attuali tendenze della produttività e riportare la crescita ai livelli precedentemente visti in Europa.
Il futuro della crescita in Europa sembra essere finlandese.
(Fonte vocidallestero)
La Lituania è il diciannovesimo Stato della zona euro
Il Parlamento europeo si è dichiarato favorevole all’adesione della Lituania alla zona euro dal 1° gennaio 2015. In precedenza, avevano dato la propria approvazione la Commissione Europea, la Banca Centrale Europea, il Consiglio dei Ministri dell’Economia e delle Finanze della UE, i rappresentanti dei Paesi della UE. La moneta del paese è legata all’euro dal 2002 ma la valuta utilizzata in Lituania è il litas. La raccomandazione del Parlamento è stata approvata con 545 voti in favore, 116 voti contrari e 34 astensioni.
Nonostante una fetta importante della popolazione del piccolo paese continui ad avere sentimenti contrastanti nei confronti della moneta unica, il ministro delle Finanze lituano, Rimantas Sadzius, ha spiegato che “Non possiamo permetterci di rimanere fuori dalla zona euro. L’Estonia è membro dal 2011, la Lettonia lo diventerà nel 2014. Gli investitori guardano alla regione baltica come a un solo paese. Rimanendo fuori dall’unione monetaria rischiamo di essere penalizzati da un punto di vista degli investimenti stranieri”. Il ministro lituano è convinto che i benefici di lungo termine dell’adesione all’euro supereranno di gran lunga gli svantaggi di breve periodo.
Attualmente il debito della Lituania è al 39,4% del prodotto interno lordo nel 2012 (tra i sei più bassi dell’intera Unione europea). L’economia dopo la recessione del 2009 che ha ridotto il Pil del 14,8% ha subito una drammatica cura dimagrante. Nel 2012 la crescita è stata del 3,7%. Negli ultimi 12 mesi l’inflazione del paese è stata in media di 0,6% e il suo rapporto tra deficit e Pil è al 2,1%. Bruxelles ha quindi valutato soddisfacenti tutti i requisiti richiesti dall’esecutivo Ue come previsto dai trattati. Un debito pubblico inferiore a 60% del Pil, un deficit entro la soglia di 3%, inflazione e tassi di interessi moderati e un cambio stabile contro euro.
L’approvazione definitiva per la Lituania dovrebbe avvenire il 23 luglio dal Consiglio dei Ministri dell’Unione Europea per gli Affari Generali. Dal 1 gennaio 2015, quindi, il numero di paesi che condividono la moneta unica salirà a 19: Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo e Spagna (1999), Grecia (2001), Slovenia (2007), Cipro e Malta (2008), Slovacchia (2009), Estonia (2011), Lettonia (1 gennaio 2014) e dal prossimo anno Lituania. Al di fuori della zona euro restano ancora: Danimarca, Regno Unito, Bulgaria, Croazia, Polonia, Repubblica ceca, Romania, Svezia e Ungheria.