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Italia vietata ai bambini

Italia-No-bambini

Solo il 13,5% dei bambini ha accesso ai servizi per l’infanzia e agli asili nido, con opportunità ancor più ridotte nel Sud e nelle Isole. Ancora troppi i minorenni nella fascia di età 0/5 fuori dalla propria famiglia di origine che vengono accolti nelle comunità rispetto all’affido familiare. Questi i dati del Rapporto su “I diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia” a cura del Gruppo CRC.

I problemi dell’adolescenza e dell’infanzia in Italia restano fortemente segnati da un contesto di difficoltà economica e povertà, ma la scarsità di servizi sociali ed educativi che supportino i minorenni, fanno pagare loro un prezzo ancora più alto. Nonostante numerose evidenze scientifiche, dalle neuroscienze all’economia dello sviluppo, sottolineino l’importanza delle primissime epoche della vita per lo sviluppo cognitivo, emotivo, sociale e dell’equità dell’individuo, con effetti che durano per tutto il corso della vita, sembra che l’Italia “non sia un Paese per bambini”.

Al 1° gennaio 2013 i bambini in età compresa tra gli 0 e i 3 anni in Italia erano 2.171.465 e di questi uno su cinque nasce da almeno un genitore straniero. Ma per molti di questi bambini mancano le risorse e di conseguenza mancano i servizi: solo il 13,5% di bambini in questa fascia di età, nel 2012, ha trovato ad accoglierli servizi per l’infanzia e asili nido. Al Sud e nelle Isole la situazione è ancora più difficile: maglia nera per la Calabria con solo il 2,5% di bambini che hanno accesso ai nidi, seguita dalla Campania che raggiunge quota 2,8%.

La Settima edizione del Rapporto CRC su “I diritti dell’infanzia e dell’adolescenza”, fa emergere la difficoltà cronica da parte delle istituzioni di “mettere a sistema” le politiche per l’infanzia e l’adolescenza nel nostro Paese, così come continuano a essere tagliati in modo significativo i fondi dedicati, come è accaduto nell’ultima Legge di Stabilità. “Il 2014 rappresenta il terzo anno consecutivo senza un Piano Nazionale Infanzia”, spiega Arianna Saulini di Save the Children e coordinatrice del Gruppo CRC, il network composto da 87 associazioni italiane impegnate nella tutela e promozione dei diritti dell’infanzia nel nostro paese. “L’Italia deve tornare ad essere un Paese che investe non solo sui giovani ma anche sui bambini, perché una politica davvero lungimirante ed efficace è una politica che investe sulla salute e sullo sviluppo cognitivo, emotivo e sociale nei primissimi anni di vita di un bambino. Sono questi gli investimenti che garantiscono il più alto ritorno economico per gli individui e per la società”. Investire nell’infanzia significa supportare la società in maniera trasversale, sia sul piano economico, psicosociale e delle buone pratiche, attraverso politiche e servizi rivolti a tutte le famiglie. Occorre dunque potenziare l’offerta e l’accessibilità a servizi socio-educativi di qualità, al supporto precoce alle funzioni e alle competenze genitoriali, agli interventi economici a favore di famiglie povere con bambini e alla formazione e allo sviluppo professionale degli operatori che ruotano attorno al mondo dell’infanzia e della famiglia sin dal periodo prenatale.

Servizi educativi. L’Italia ancora lontana dall’obiettivo europeo

La Commissione europea ravvisa nei servizi di cura ed educazione per la prima infanzia un grande potenziale per combattere l’esclusione sociale e il disagio socio-economico. Stando agli ultimi dati disponibili, in Italia solo il 13,5% dei bambini sotto i tre anni ha avuto accesso a questi servizi (nidi comunali 11,8% e servizi integrativi 1,6%). A questa percentuale si stima vada aggiunto un ulteriore 4% di bambini accolti da servizi privati non sovvenzionati da fondi pubblici. Da un lato si segnala una lieve flessione rispetto all’anno precedente (-0,5%), attribuibile alla diminuzione dei servizi integrativi per l’infanzia (resta invece immutata la percentuale dei bambini accolti negli asili nido) e dall’altra si segnala con preoccupazione che in molti Comuni si assiste a un alto numero di rinunce alla frequenza del nido sia da parte di famiglie che non sono più in grado di pagare le rette, che per il venir meno dell’occupazione della madre. A questo si aggiunge una grave disparità e un forte squilibrio nell’offerta di servizi nelle diverse Regioni, con percentuali bassissime nel Sud e nelle Isole. È dunque necessario che siano definite nuove procedure di finanziamento dei servizi per la prima infanzia: l’investimento pubblico in tal senso in Italia è drammaticamente basso sia nel confronto con l’Europa che in quello con le altre classi di età.

Le comunità di accoglienza per minori. Ancora inserimento in comunità rispetto all’affido

Secondo i dati più aggiornati a disposizione al momento della redazione del Rapporto, sono stati accolti in comunità 14.991 minorenni a fronte dei 29.388 bambini e ragazzi temporaneamente fuori dalla propria famiglia di origine. Il numero di minorenni accolti in comunità è stato superiore di 594 unità rispetto a quelli dati in affidamento familiare. Quasi la metà di questi ultimi (6.986) sono in affido a parenti. L’incidenza percentuale degli inserimenti in comunità residenziale di bambini in età pre-scolare (0-5 anni), sempre secondo questi dati, è stata del 14% sul totale. Si registra dunque un uso preoccupante e ancora troppo consistente dell’inserimento in comunità di bambini piccolissimi, sin dal loro primo collocamento. È necessario un’inversione di tendenza in questo senso, così come è fondamentale segnalare la mancanza di dati e informazioni utili per restituire unicità e continuità alla storia di ogni minorenne, per accompagnarlo nella crescita.

Sistema di raccolta informazioni su infanzia e adolescenza ancora troppo carente in Italia

Sia la BDA (Banca Dati Nazionale dei minori adottabili e delle coppie disponibili all’adozione) che la Banca dati sull’abuso sessuale di minorenni, già sollecitate dal Gruppo CRC nei precedenti Rapporti CRC, non sono ancora andate a regime. Sono aumentati dell’11,4% i bambini dichiarati adottabili in Italia: erano 1.251 nel 2011, sono stati 1.410 nel 2012 e sono aumentate del 4,5% le coppie che hanno presentato domanda di adozione nazionale, 10.244 nel 2012 (9.795 nel 2011). Nonostante questo è in pratica rimasto invariato, con un calo solo dell’1%, sia il numero degli affidamenti preadottivi, 957 nel 2012 (965 nel 2011), sia delle adozioni legittimanti, 1.006 nel 2012 (1.016 nel 2011). In proporzione, quindi, sembrano aumentati i casi di bambini che pur essendo adottabili non vengono adottati. Da una recente pubblicazione si evince che i bambini adottabili che si trovano ancora nel sistema di accoglienza temporanea sono stimati in 1.900 di cui il 59% accolti in comunità e il 41% in affidamento familiare. La maggior parte di loro, il 51%, pur essendo adottabile, è collocata in accoglienza fuori famiglia da oltre due anni (di cui il 24% da 48 mesi e oltre). Tutto ciò, nonostante il considerevole numero di coppie disponibili ad adottare, al 31/12/2012 calcolate in 31.3436. Da anni il Gruppo CRC segnala l’urgenza di un monitoraggio di questo fenomeno per capire chi sono questi bambini ed esplorare possibili strategie d’intervento, ma la mancanza di effettiva operatività della BDA non aiuta, soprattutto perché non consente la messa in rete di tutti i Tribunali per i Minorenni e quindi l’ottimizzazione degli abbinamenti per le adozioni, soprattutto per i bambini con bisogni speciali e/o particolari.

Politiche per l’infanzia e l’adolescenza. Difficoltà cronica nel “mettere a sistema”

La difficoltà principale che emerge dal Rapporto, è quella di “mettere a sistema” le politiche per l’infanzia e l’adolescenza nel nostro Paese. Si è infatti assistito a un decentramento delle politiche sociali verso le Regioni, senza la definizione dei Livelli Essenziali di Prestazioni concernenti i Diritti Civili e Sociali (LEP) e soprattutto con la progressiva e costante diminuzione delle risorse destinate alle politiche sociali nel corso degli anni. La mancanza e la discontinuità con cui è stato adottato il Piano nazionale Infanzia (strumento che per legge dovrebbe essere predisposto con cadenza biennale) è solo un esempio di tale “disattenzione”. Un Piano che dovrebbe rappresentare la cornice di riferimento per le politiche per l’infanzia, e che probabilmente necessita anche di un ripensamento prevedendo un raccordo con il livello regionale dal momento in cui le politiche sociali sono divenute di competenza regionale. Il Terzo Piano Nazionale Infanzia è stato approvato il 21 gennaio 2011, e al momento non sono stati avviati i lavori per la stesura del nuovo. “A oggi non esiste un monitoraggio compiuto a livello istituzionale delle risorse dedicate all’infanzia e all’adolescenza e proprio dall’analisi realizzata dal Gruppo CRC risulta evidente che manca una strategia complessiva sul piano nazionale e una visione di lungo periodo”, conclude Arianna Saulini. “In occasione del lancio del 6° Rapporto CRC l’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza si è assunta l’impegno di predisporre un rapporto articolato sullo stato complessivo delle risorse per l’infanzia e l’adolescenza nel nostro Paese. Questo impegno si è trasformato in una richiesta al Ministro dell’Economia e delle Finanze per impostare un lavoro congiunto che consenta di monitorare le spese del bilancio dello Stato dedicate ai bambini e agli adolescenti. Ci auguriamo che questo possa aver inizio in tempi brevi”.

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Il lato oscuro dell’industria dell’abbigliamento

abbigliamento sfruttamento dei lavoratori

La Clean Clothes Campaign pubblica un nuovo rapporto che rivela cosa si nasconde dietro le catene di fornitura della moda di fascia alta e nella vita dei lavoratori turchi e dell’Europa Orientale che producono i loro vestiti. “Stitched Up! – salari da povertà per i lavoratori dell’abbigliamento in Europa Orientale e in Turchia” è il risultato di approfondite ricerche che includono interviste con oltre 300 lavoratori tessili, in 10 paesi nell’Europa dell’Est post-socialista e in Turchia.

Comunemente pensiamo che lo sfruttamento dei lavoratori nell’industria dell’abbigliamento sia un problema avvertito solo in Asia dove sono ben documentati casi caratterizzati da livelli salariali da povertà, condizioni di lavoro pericolose e lavoro straordinario obbligatorio. Invece questi problemi sono un fattore endemico in tutti i paesi produttori, e persino all’interno dell’Unione Europea si possono osservare, nei paesi che producono gli indumenti che acquistiamo in negozi prestigiosi, livelli retributivi miseri e condizioni di vita spaventose. L’industria dell’abbigliamento alimenta povertà ed esclusione sociale per gli addetti e le loro famiglie. Nei paesi analizzati, Turchia, Georgia, Bulgaria, Romania, Macedonia, Moldavia, Ucraina, Bosnia Erzegovina, Croazia e Slovacchia, sono complessivamente occupate in questo comparto 3 milioni di persone con forme di impiego regolare o irregolare. La Clean Clothes Campaign ha svolto una ricerca documentale sulla situazione socio-economica del settore e sulle leggi del lavoro nazionali, e una ricerca sul campo con interviste agli addetti fuori dai luoghi di lavoro. Hanno trovato riscontro della produzione dei seguenti marchi e distributori: Zara/Inditex, H&M, Hugo Boss, Adidas, Puma, Nike, Levi’s, Max Mara, Tom Tailor, Benetton, Mango, Tesco, Versace, Dolce & Gabbana, Gerry Weber, Otto, Arcadia, Prada, Esprit, C&A. In tutti i paesi oggetto di indagine è stata rilevata una differenza enorme fra il salario minimo legale e il salario minimo dignitoso stimato. Il rischio di povertà ed esclusione sociale è determinato da:

  1. retribuzioni fissate ben al di sotto dei livelli di sussistenza e povertà, a loro volta molto lontani da un livello minimo dignitoso;
  2. discriminazione del lavoro femminile in termini di compensi e trattamento;
  3. dipendenza da salari che costituiscono l’unica fonte di reddito familiare;
  4. assenza quasi totale di rappresentanza collettiva dal punto di vista sindacale o di sostegno da parte di organizzazioni a difesa del lavoro.

La divaricazione tende ad essere persino più marcata nei paesi europei a basso costo che non nei paesi asiatici. I paesi che presentano i minimi salariali legali più bassi in relazione al valore stimato del salario dignitoso (meno del 20%) sono Georgia, Bulgaria, Ucraina, Macedonia, Moldavia, Romania e la regione dell’Anatolia Orientale in Turchia. Nel 2013, Bulgaria, Macedonia e Romania hanno fatto registrare salari minimi legali inferiori alla Cina; in Moldavia e Ucraina i salari minimi legali sono inferiori a quelli dell’Indonesia.

Le retribuzione realmente percepite si collocano ben al di sotto del livello minimo di sussistenza, che non può essere comunque definito un livello dignitoso. In tutti i paesi presi in esame (ad eccezione dell’area di Istanbul, della Croazia e dell’Ucraina) il livello più basso osservato delle retribuzioni nette non raggiunge neppure il 30% del valore stimato di un salario dignitoso. Dalle interviste risulta evidente che forme di occupazione con livelli retributivi eccessivamente bassi creano povertà anziché combatterla. Per quanto disperante sia la loro situazione, i lavoratori del settore non possono permettersi di perdere l’impiego, molte famiglie dipendono da quell’unica fonte di reddito. Fin troppo spesso essi sono messi di fronte alla scelta fra un compenso irrisorio e la propria salute; la necessità e la dedizione al lavoro li espongono allo sfruttamento e al sopruso. L’indagine ha messo in luce la condizione di maggiore vulnerabilità delle donne le quali rivestono all’interno della famiglia il ruolo di portatrici di cure ma sacrificano la propria salute sul posto di lavoro per svolgere attività il cui valore non viene riconosciuto o che vengono svalutate al rango di “mansioni non qualificate” in confronto al livello “tecnico” o di “fatica” del lavoro maschile. Le donne sono esposte a condizioni usuranti per mancanza cronica di tempo, stress, e molto spesso sono vittime di molestie sessuali. In tutta l’area geografica indagata il lavoro nell’industria dell’abbigliamento gode di pessima fama ed è considerato una semplice integrazione al reddito familiare. Contrariamente a quanto si crede, tuttavia, la maggioranza delle donne lavoratrici sono madri sole o l’unico sostegno economico della famiglia.

Le principali destinazioni dei prodotti realizzati sono di gran lunga la Germania e l’Italia. Per la sola Turchia, la Germania rappresenta più di un quinto delle sue esportazioni complessive di abbigliamento. Per la Croazia, l’Italia è il maggiore mercato di esportazione di abbigliamento e calzature (51%), seguito dalla Germania con il 24% nel 2012. Oltre a rifornirsi a buon mercato di prodotti di alta qualità, la Germania trae un vantaggio economico dai servizi offerti dalle sue aziende di consulenza commerciale, come la Weiss Consulting, che vendono assistenza ai governi e alle imprese nella regione. Abbiamo trovato traccia della loro presenza in Bulgaria e in Slovacchia.

La Clean Clothes Campaign e i suoi partner locali chiedono a tutti i marchi della moda e ai distributori che si riforniscono nell’area geografica oggetto della presente indagine di garantire, quale prima immediata misura, che i lavoratori ricevano un salario netto base (senza straordinari e incentivi) pari almeno al 60% del salario nazionale medio. La misura successiva consiste nell’incrementarlo progressivamente verso il valore stimato del salario dignitoso minimo. In specifico, la CCC precisa che un salario dignitoso deve:

  • applicarsi a tutti i lavoratori, il che significa che non devono esistere forme di salario al di sotto del livello dignitoso;
  • remunerare un settimana lavorativa non superiore alle 48 ore;
  • rappresentare la retribuzione netta base dopo le tasse e (ove applicabile) prima delle maggiorazioni, delle indennità e dello straordinario;
  • far fronte ai bisogni primari di una famiglia composta da 4 persone (2 adulti, 2 minori);
  • comprendere una quota aggiuntiva pari al 10% dei costi per il fabbisogno primario quale reddito discrezionale.

Inoltre viene chiesto ai governi degli stati in cui hanno sede i marchi e i distributori e alle competenti istituzioni dell’Unione Europea di chiamare le imprese multinazionali a rispondere delle conseguenze delle loro attività in tutta la filiera produttiva e di far sì che esse rispettino i diritti umani e del lavoro, comprese le leggi vigenti nei rispettivi paesi. I governi degli stati di origine devono assicurarsi che i marchi e i distributori operino efficacemente e in modo trasparente verso l’adozione di retribuzioni dignitose nelle loro filiere internazionali.

Uno dei cinque obiettivi prioritari del programma “Europa 2020, strategia per una crescita intelligente, sostenibile e solidale” è la riduzione della povertà per consentire ad una quota di popolazione di almeno 20 milioni di persone di uscire dal rischio di povertà o di esclusione sociale entro il 2020. La corresponsione di retribuzioni ad un livello dignitoso nel settore produttivo dell’abbigliamento e calzature rappresenta una misura molto concreta, potenzialmente capace di raggiungere un gran numero di persone e di migliorare in modo decisivo le loro condizioni di vita.

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