Ceto medio italiano nel mirino delle potentissime lobby finanziarie

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I dati dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico indicano che i cittadini italiani sono in assoluto tra i meno indebitati del mondo, meno degli Americani, meno dei Francesi e meno dei Britannici.

Il Regno Unito presenta addirittura il record di indebitamento delle famiglie. Contrariamente a ciò che ci si potrebbe aspettare, la disoccupazione e la precarietà costituiscono un incentivo all’indebitamento. E dove ci sono più disoccupati, cioè tra i giovani, vi è anche meno percezione dei rischi connessi all’uso della carta di credito. Il quotidiano “Il Sole-24 ore” comunica a riguardo un dato sconcertante, secondo il quale almeno il 5% dei giovani utenti inglesi di carte di credito non ha neppure la consapevolezza che il denaro speso vada restituito.  Continue Reading

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Sempre più debito oggi, sempre meno figli domani

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“Un paese in cui si fanno sempre meno figli e li si grava di crescenti costi, a quale futuro va incontro? Purtroppo l’Italia è una delle economie avanzate più vicine a questa situazione. Una rappresentazione chiara di come non riusciamo a trovare, oramai da troppi decenni, la strada di uno sviluppo virtuoso può essere fornita dall’andamento straordinariamente speculare di due indicatori apparentemente molto diversi: il debito pubblico e alla fecondità. Continue Reading

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Chi e come controlla il capitale finanziario italiano e mondiale?

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Il tema della creazione di moneta in cambio di debito pubblico è talmente delicato ed esplosivo da non essere quasi mai al centro delle discussioni, nemmeno tra gli economisti, nemmeno dopo questa crisi. Eppure esso è stato da sempre al centro dell’attenzione delle principali religioni: il popolo d’Israele ogni sette anni doveva rimettere tutti i debiti ai propri connazionali (non ai gentili), l’Islam ancora oggi vieta il prestito ad interesse e qualcuno dice che tale proibizione ha salvato il sistema finanziario dei paesi arabi, il magistero cattolico ha sempre tuonato contro l’usura e nel 1931 con PIO XI, persino contro l’internazionalismo bancario.

Lo stesso Marx, che ancora non poteva mettere a fuoco la finanziarizzazione dell’economia così come la conosciamo oggi, ne IL CAPITALE, LIBRO I, SEZIONE VII, CAPITOLO 24, diceva:

“Il sistema del credito pubblico, cioè dei debiti dello Stato, le cui origini si possono scoprire fin dal Medioevo a Genova e a Venezia, s’impossessò di tutta l’Europa durante il periodo della manifattura, e il sistema coloniale col suo commercio marittimo e le sue guerre commerciali gli servì da serra. Così prese piede anzitutto in Olanda. Il debito pubblico, ossia l’alienazione dello Stato — dispotico, costituzionale o repubblicano che sia — imprime il suo marchio all’era capitalistica. L’unica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che passi effettivamente in possesso collettivo dei popoli moderni è il loro debito pubblico. Di qui, con piena coerenza, viene la dottrina moderna che un popolo diventa tanto più ricco quanto più a fondo s’indebita. Il credito pubblico diventa il credo del capitale. E col sorgere dell’indebitamento dello Stato, al peccato contro lo spirito santo, che è quello che non trova perdono, subentra il mancar di fede al debito pubblico. Il debito pubblico diventa una delle leve più energiche dell’accumulazione originaria: come con un colpo di bacchetta magica, esso conferisce al denaro, che è improduttivo, la facoltà di procreare, e così lo trasforma in capitale, senza che il denaro abbia bisogno di assoggettarsi alla fatica e al rischio inseparabili dall’investimento industriale e anche da quello usurario. In realtà i creditori dello Stato non danno niente, poiché la somma prestata viene trasformata in obbligazioni facilmente trasferibili, che in loro mano continuano a funzionare proprio come se fossero tanto denaro in contanti. (…) il debito pubblico ha fatto nascere le società per azioni, il commercio di effetti negoziabili di ogni specie, l’aggiotaggio: in una parola, ha fatto nascere il giuoco di Borsa e la bancocrazia moderna. Fin dalla nascita le grandi banche agghindate di denominazioni nazionali non sono state che società di speculatori privati che si affiancavano ai governi e, grazie ai privilegi ottenuti, erano in grado di anticipar loro denaro. Quindi l’accumularsi del debito pubblico non ha misura più infallibile del progressivo salire delle azioni di queste banche, il cui pieno sviluppo risale alla fondazione della Banca d’Inghilterra (1694). La Banca d’Inghilterra cominciò col prestare il suo denaro al governo all’otto per cento; contemporaneamente era autorizzata dal parlamento a batter moneta con lo stesso capitale, tornando a prestarlo un’altra volta al pubblico in forma di banconote. Con queste banconote essa poteva scontare cambiali, concedere anticipi su merci e acquistare metalli nobili. Non ci volle molto tempo perché questa moneta di credito fabbricata dalla Banca d’Inghilterra stessa diventasse la moneta nella quale la Banca faceva prestiti allo Stato e pagava per conto dello Stato gli interessi del debito pubblico. Non bastava però che la Banca desse con una mano per aver restituito di più con l’altra, ma, proprio mentre riceveva, rimaneva creditrice perpetua della nazione fino all’ultimo centesimo che aveva dato. A poco a poco essa divenne inevitabilmente il serbatoio dei tesori metallici del paese e il centro di gravitazione di tutto il credito commerciale. In Inghilterra, proprio mentre si smetteva di bruciare le streghe, si cominciò a impiccare i falsificatori di banconote. (…) C’è forse qualcosa di più pazzesco dell’esempio offertoci dalla Banca d’Inghilterra? Mentre le sue banconote hanno credito unicamente per il fatto di essere garantite dallo Stato, essa si fa pagare dallo Stato e quindi dal pubblico, nella forma degli interessi sui prestiti, per il potere che lo Stato le conferisce di convertire questi stessi biglietti di carta in denaro e darli poi in prestito allo Stato!” Continue Reading

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Economia mondiale: Una buona e una cattiva notizia

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Per quanto riguarda lo stato di salute dell’economia mondiale ci sono una buona e una cattiva notizia. La buona è che, stando agli economisti del Credit Suisse, quest’anno il PIL mondiale registrerà una crescita del 3,3%, facendo segnare un progresso rispetto al 2,9% del 2013. La cattiva è che, nonostante il miglioramento, il dato si aggira intorno alla media degli ultimi 40 anni, che è stata del 3,4%. Poiché tecnicamente siamo in fase di ripresa, la crescita non superiore alla media indica un PIL potenziale più basso che in periodi analoghi.

Secondo Neal Soss, Vice Chairman of Global Fixed Income and Economics Research del Credit Suisse, non è raro che una grave crisi finanziaria sia seguita da fasi di debole crescita dovuta al taglio della spesa da parte di governi, aziende, istituti finanziari e consumatori. Il pericolo è rappresentato dall’eccessivo protrarsi di questa fase. In tal caso, la mediocrità della crescita può cominciare a sembrare più duratura e le imprese sono meno motivate a investire sulla prospettiva di espansione. Inoltre, le competenze dei disoccupati di lungo periodo rischiano di atrofizzarsi fino a compromettere il loro reinserimento nel mondo del lavoro. “Lo svantaggio di una situazione del genere – qualora la crescita si confermasse debole – non è solo il rallentamento congiunturale in sé, ma anche la riduzione del potenziale dell’economia,” afferma.

Senza più stimoli fiscali né monetari in vista, gli economisti temono che i leader mondiali corrano proprio questo rischio. “La maggior parte dei paesi è insofferente agli stimoli fiscali dichiarati e all’effetto leva dei bilanci pubblici,” scrivono gli analisti del comparto obbligazionario del Credit Suisse nell’ultima ricerca economica trimestrale condotta su scala internazionale. Per varare i diversi piani di salvataggio l’Unione europea ha imposto drastiche misure di rigore a Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda. Negli ultimi quattro anni l’aumento delle tasse e i tagli alla spesa hanno ridotto il disavanzo pubblico statunitense dal 10% del PIL (1400 miliardi di dollari USA) nel 2009 a un 3% stimato (514 miliardi di dollari USA) quest’anno. In Giappone l’aumento dell’imposta al consumo dal 5 all’8% non è stato accompagnato da uno stimolo monetario, a dimostrazione della volontà politica di ridurre tanto il deficit quanto il debito pubblico, che è il doppio del PIL. Nel frattempo, le autorità cinesi cercano di contenere la spesa degli enti locali, mentre a febbraio il Brasile ha promesso tagli per 18,5 miliardi di dollari USA per rispettare l’obiettivo di avanzo di bilancio dell’1,9 per cento. Anche il ricorso a un ulteriore stimolo monetario appare improbabile. La maggior parte delle banche centrali continua a perseguire una politica espansiva, ma la Federal Reserve riduce costantemente gli interventi di allentamento quantitativo e sia la Banca del Giappone che la Banca centrale europea hanno deluso chi aveva scommesso su un’ulteriore riduzione dei tassi nel primo trimestre.

Nella speranza di aumentare il potenziale economico nel giro di cinque anni o più, diversi paesi hanno varato riforme strutturali che a breve termine rischiano di essere ancora più dolorose. Gli sforzi della Cina di riequilibrare l’economia verso i consumi interni, ad esempio, finiranno per creare un modello di crescita più sostenibile che non dipenderà più dai finanziamenti erogati da un sistema bancario ombra collaterale ad amministratori locali imprudenti. Anche l’offensiva sferrata di recente contro la corruzione dei funzionari pubblici è un passo nella giusta direzione. Tuttavia, queste due misure hanno contribuito a rallentare la crescita del PIL che è addirittura inferiore al 7,5 stimato dal governo. Intanto, la Reserve Bank of India mira a ridurre al 4% entro due anni l’inflazione che dal 2005 si attesta su una media dell’8,4%. Secondo gli economisti del Credit Suisse, le politiche “estremamente rigorose” necessarie per conseguire questo obiettivo ridimensioneranno senz’altro la crescita.

Se non sembra probabile che la politica faccia ripartire l’economia mondiale, un aumento della spesa aziendale potrebbe riuscirci. Ci sono senz’altro tutti i presupposti. Alla fine del quarto trimestre 2013, le aziende statunitensi hanno realizzato utili dopo imposte record pari a 1900 miliardi di dollari USA, facendo registrare un incremento del 35% rispetto al picco precedente di 1410 miliardi di dollari USA raggiunto nel 2006. Nel terzo trimestre 2013 i flussi di cassa netti delle imprese hanno toccato un record assoluto (2280 miliardi di dollari USA). Eppure, negli Stati Uniti, i 458,6 miliardi di dollari USA di investimenti aziendali netti effettuati nel settore privato nel quarto trimestre 2013 erano sempre meno che nel 2007. “A mio avviso, dopo la crisi che abbiamo attraversato, per ripristinare il clima di fiducia ci vuole semplicemente tempo”, sostiene Soss. “Ma, a quanto pare, manca ancora quel qualcosa capace di infondere ottimismo negli imprenditori in una prospettiva di medio e lungo termine e indurli a immettere liquidità nel sistema dando impulso all’attività economica.”

Forse questo qualcosa è una piacevole sorpresa del tutto inaspettata o ancora qualche mese di dati economici incoraggianti: quanto basta per dimostrare la sostenibilità della ripresa, anche se più lenta e meno vigorosa di quanto ci fossimo augurati.

The Financialist 

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