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La Mafia alla conquista della Germania

Mafia-Germania

Chi ha detto che in Germania la mafia non c’è? I reporter di Irpi raccontano l’indagine della polizia tedesca e italiana che ha svelato un network che abbraccia edilizia, droga e corruzione politica.

La mafia non esiste. Men che meno in Germania. Questo è ciò che dichiara il governo tedesco, e cio a cui crede la gente. Ma i dati ufficiali sono inesatti, e la verità è tristemente all’opposto. La Mafia è sempre più presente in Germania. Ed è forte, molto forte. Soltanto analizzando le carte giudiziarie di indagini ancora in corso, portate avanti in collaborazione dai pool antimafia italiani e dalla Polizia Federale Criminale Tedesca, la BKA, che il quadro complessivo emerge. Ci potrebbero essere addirittura più di 1200 membri della Mafia, in Germania. La Mafia c’è. Ma nelle statistiche si troverà solo se la si cerca.

“La mafia in Germania ha infiltrato ogni settore. Dalle costruzioni, alle energie alternative, dalla gestione dei rifiuti all’azionariato di grandi aziende o banche. Comprano voti e influenzano le elezioni tramite la corruzione,” dice Roberto Scarpinato, Procuratore Generale del pool antimafia di Palermo.

Operazione scavo: molto più di un evasione fiscale. È il 17 gennaio 2013, e 17 persone vengono arrestate. Alcune in Germania, alcune su rogatoria internazionale a Licata, una piccola cittadina dell’agrigentino. ‘Operazione Scavo’, la battezzano gli inquirenti. Sembrava solo un’operazione contro l’evasione fiscale, aziende edili aperte da siciliani in Germania che non versavano le tasse. Ma presto si scopre che sotto c’era molto di più.

Romagnolli

Grazie a documenti ottenuti in esclusiva da FUNKE Mediengruppe e da ricerche congiunte portate avanti dal caporedattore David Schraven e dai giornalisti del centro di giornalismo d’inchiesta IRPI in collaborazione con Grandangolo il Giornale di Agrigento, Wired può oggi raccontare una storia inedita.

Qualcuno, un giorno, deve avere incaricato Gabriele Spiteri, originario di Licata e frequentatore di Colonia dagli anni ’90, e Rosario Pesce, di Riesi ma in Germania dal 1972, di gestire quella che gli investigatori tedeschi hanno soprannominato la Baumafia, la ‘mafia delle costruzioni’. Spiteri a Colonia, Pesce a Dortmund. Quello che c’era nel mezzo, ovvero Essen e Bochum, veniva spartito a seconda degli affari e dei momenti.

I due dovevano coordinare i cosiddetti ‘procacciatori di prestanome’, i quali dovevano trovare tra parenti e amici in Sicilia dei poveri diavoli che si vendessero per poche migliaia di euro. I procacciatori erano senza dubbio il commercialista pregiudicato Massimo Erroi, Biagio Schiliro, Agatino Farinato, Vincenzo Spiteri fratello di Gabriele e Salvatore Vedda (fino a che non ha deciso di iniziare a collaborare con le autorità tedesche). Dopodiche, tra gli arrestati e indagati ci sono Domenico Iacopinelli, Giuseppe Cannizzaro, Lisa Maria Farruggio, Giovanni De Caro, Salvatore Animamia, Fabrizio Randazzo, Antonio Cavaleri, Angelo Cambiano, Michele Farchica, Antonio Donato, Giuseppe Micchiche e Gabriele Fiordaliso.

Usando questi prestanome, Spiteri e Pesce aprivano una serie di aziende edili che avevano il solo scopo di operare come ‘shell companies’, ovvero come scatole per il riciclaggio. Il meccanismo funzionava in questo modo: il denaro veniva trasferito sui conti correnti delle aziende in questione per pagare delle fatture false, a cui non corrispondeva alcun servizio di costruzione. A quel punto il prestanome ‘titolare’ li ritirava in contanti. Il 90% della somma veniva riconsegnata all’imprenditore che aveva comprato la fattura falsa, il 10% invece va ai ‘manager’ Spiteri e Pesce, che li usano per pagare i commercialisti, i prestanome, e i macchinoni per se stessi.

Un sistema geniale. Da milioni di soldi trasferiti legalmente, creano milioni di fondi neri, rimpiegabili o nella Baumafia, o per corrompere politici o per finanziare altre attività illecite. Un passaggio di denaro che viene prima ‘sporcato’ e poi prontamente ripulito. Questo, emerge dalle indagini della BKA, e’ stato fatto per almeno 430 aziende. Di certo, non è Spiteri – bocciato tre volte alle elementari – l’ideatore di questo sistema.

La Baumafia di Spiteri e Pesce era crimine ‘disorganizzato’. I due discutevano praticamente ogni giorno, e spesso, venivano fissati degli incontri per risolvere i contenziosi. Le discussioni dovevano avvenire in alcuni specifici luoghi d’incontro: il Bistrot “La Mirage” a Dortumund, e il Bar Italia90 a Colonia, gestito, quest’ultimo, da Mario Giangreco.

Gabriele Spiteri stesso dalla fine del 2011 gestiva un bar a Colonia, il Jolly Bar, anch’esso luogo di incontro della Baumafia. Il banco di prova lo avevo avuto dal 2009 al 2010 a Licata, quando anche li aveva gestito un bar. Più che un bar, ci dicono i Carabinieri, un buco nero del traffico di cocaina. Un affare, quello della cocaina, che Spiteri aveva importato anche in Germania, e più precisamente, nella sua panetteria a Colonia, la Pasticceria Centro Italia. I clienti ordinavano coca via telefono: “pasta in bianco senza salsa”. O, in caso di grossi quantitativi, si parla di auto bianche. Cento, duecento grammi di coca a settimana le vendite.

Ma Spiteri è egli stesso un consumatore. Un vizio che porta anche a casa in Sicilia, nelle feste che da a Licata, nella villa – oggi sequestrata – che si è costruito grazie ai guadagni di anni di presunta illegalità in Germania.

“Spiteri consumava tanta cocaina quanta l’intera Colonia”, racconta agli investigatori Calogero Di Caro di Ravanusa, classe 1963. Arrestato assieme ai fratelli Spiteri egli è, per gli investigatori tedeschi, un collaboratore di Spiteri, uno allo stesso piano. Eppure viene chiamato ogni qualvolta ci sia un problema da risolvere e – aggiungono le indagini – sembrerebbe quello con contatti più in alto. Per chi conosce la Mafia, è lampante che né Spiteri né Pesce agissero per conto proprio. I due erano stati messi li, con ordini precisi, e avevano un bel mastino alle calcagna, Calogero Di Caro.

Calogero Di Caro: il mastino.  Di Caro ai tedeschi dice di non essere mafioso: “Alcuni anni fa le autorità italiane si erano sbagliate, ma è stato tutto chiarito.”

Non esattamente. Di Caro viene scarcerato nel 1994 dopo due anni e quattro mesi di carcere per avere preso parte ad un omicidio di mafia. All’epoca, conosciuto col soprannome di Lillo Aglialuoro, era guardaspalle di Vito Mirabile, un uomo del boss Angelo Ciraulo, poi fatto ammazzare da Giuseppe Falsone in una guerra di potere che ha spostato il comando del mandamento da Ravanusa a Campobello di Licata per molti anni.

Morto Ciraulo, Di Caro decide di collaborare con la giustizia e fa trovare un arsenale. Ma il suo pentimento è considerato parziale dalle autorità, che non lo considerano affidabile. Seppure in primo tempo ‘condannato a morte’ dai boss rimasti Di Caro, viene lasciato vivere ed, evidentemente, crescere. Nell’ombra, deve avere fatto carriera fino ad arrivare in Germania. Si reca infatti a Colonia appena riesce, alla fine degli anni novanta, uscito dal carcere.

Treffen Kneipe

Lì si fa strada aprendo un’azienda di pulizie, e poi si da alla Baumafia. Il fascicolo della polizia tedesca su Di Caro si ispessisce. Viene condannato per evasione fiscale, estorsione, rapina, truffa, aggressione. Dal fascicolo emergono anche contatti nel mondo del traffico di droga e prostituzione.

Ma chi aveva dato a Di Caro il potere d’azione all’interno della Baumafia? Un suggerimento emerge grazie ad un curioso episodio che si svolge attorno al Jolly Bar di Spiteri a Colonia, a metà gennaio 2013. Appena prima dello scattare delle manette. È il 14 gennaio, e in un’intercettazione Spiteri parla con Biagio Schiliro di un nuovo arrivo, un ragazzo, Angelo Bugiada, classe 1977, di Gela.Molto probabilmente un nuovo prestanome. La polizia interviene. È il momento in cui scattano gli arresti per tutti i 17 della Baumafia. Viene fermato anche Bugiada, interrogato, e rilasciato. Ma poche ore dopo viene fermato nuovamente, mentre si trova in un auto speciale. Un’auto registrata a nome di Angelo Occhipinti.

Non un uomo qualsiasi. Nato a Licata nel 1954, Occhipinti ha una caratura criminale ben più significativa di Calogero Di Caro. Già a fine anni ‘80, secondo la DIA, Occhipinti operava in Germania in strettissimi rapporti con Carmine Ligato, un influente boss della ‘Ndrangheta. Referente di tutte le operazioni commerciali fra mafia agrigentina e ‘Ndrangheta, Occhipinti già nel 1997 era sotto il radar della polizia tedesca.

Absperrung

In Sicilia era uomo di Giuseppe Falsone, e pare fosse stato il boss agrigentino in persona ad indicarlo come capomandamento di Licata in suo nome.

Occhipinti, assieme a Pasquale Cardella, aveva preso il controllo della cittadina dopo il quadruplice omicidio di Brunco-Lauria-Greco-Cellura. Nel 2011, Occhipinti finisce in carcere per estorsione, e Cardella cerca di tenere il mandamento per se. Poco dopo Occhipinti esce, ma il suo riferimento, il boss Giuseppe Falsone, latitante per molti anni, era stato catturato. A quel punto, Occhipinti mira a scavalcare i suoi partner e a prendere per se il controllo di Licata, andando a chiedere la benedizione dell’allora capomandamento di Canicattì, Calogero Di Caro (omonimia con il Di Caro della Baumafia, n.d.r.). Perchè la sua auto fosse a disposizione del giovane Angelo Bugiada non è chiaro, ma la presenza di Occhipinti in Germania potrebbe indicarlo come il capo mandamento di Colonia. E si spiegherebbe a chi risponde Di Caro, e tutta la ‘squadra scavo’ di Colonia.

Chi sgarra muore. Gabriele Spiteri deve forse la vita alla BKA tedesca. Perchè per comportamenti paragonabili ai suoi, l’abuso di cocaina e l’inaffidabilità, in passato era stato eliminato qualcuno di ben più importante di lui.

“Si, la Mafia oggi non uccide più, visto che seguiamo la pax mafiosa e il ‘business model’ dettato da Matteo Messina Denaro”, racconta un ex-killer di Cosa Nostra sentito in esclusiva dal progetto Mafia in Deutschland. “Ma se le cose si mettono male, si uccide. E certo, non lo si fa in Germania, dove è importante non destare alcun sospetto.”

L’omicidio è quindi una soluzione di extrema ratio, ma sempre utilizzata se serve a proteggere gli affari. Lo dicono chiaramente due recenti ed efferati omicidi di palmesi di Manneheim, entrambi voluti in Sicilia. Uno, quello di Calogero Burgio, crivellato di colpi a Palma, sotto casa, come avvertimento. L’altro, poco dopo, una tipica lupara bianca, per gli sfortunati Giuseppe Condello e Vincenzo Priollo. Quest’ultimo solo un autista, ma l’altro, Condello, niente meno che il capo mandamento di Mannheim.

Interview AufmacherMa perché Condello è stato eliminato?

Ce lo racconta in esclusiva l’ex-killer di Cosa Nostra trapanese, che i due morti ammazzati li aveva conosciuti in passato e incontrati di nuovo in Germania.

“Condello era il capo mandamento a Mannheim. Sono stiddari, ma ormai Stidda e Cosa Nostra sono la stessa cosa. Da quando comanda Matteo Messina Denaro la regola è una: il business. Oggi non si spara più, a meno che non sia strettamente necessario. E la condanna a morte di Condello è stata discussa tra tutti gli altri capi mandamento dell’agrigentino. Nessuno si decideva. Ma Condello era ormai un cane pazzo, fuori controllo, usava troppa cocaina ed era uscito di testa, non era più affidabile.” Condello cane-pazzo aveva infastidito il capo di capi, Denaro, ci racconta l’ex-killer: “Che aveva detto ai capi mandamento agrigentini o ci pensate voi, o ci penso io.”

E così, la condanna a morte è stata firmata. A fine gennaio 2012 Condello è stato ammazzato assieme a Priolo e infilato in un cunicolo di uno scolo d’acqua nelle campagne di Palma di Montechiaro. Condello faceva la spola, nonostante una misura restrittiva, seguendo quella logica mafiosa che necessita prima di tutto la presenza costante nel mandamento italiano, e, in secondo luogo, nel suo riflesso tedesco.

Ma quello che conta non è l’omicidio in se, bensì che sotto Matteo Messina Denaro la mafia abbia cambiato volto, e abbia fatto un patto, perfettamente funzionante in Germania, tra varie province mafiose. Parliamo di Trapani, che tiene le redini, Palermo ed Agrigento.

Questo è stato confermato anche dalle nostre ricerche. In particolare emerge dai legami che l’azienda tedesca CEON intratteneva con alcune delle aziende della galassia Di Caro in Germania. Questa azienda è controllata dalla famiglia Bologna-Perlongo, parenti molto stretti di Matteo Bologna, condannato a 22 anni per traffico internazionale di droga. La famiglia Bologna, di Partinico, è riconosciuta essere vicina ai Vitale, boss di quella zona del Palermitano.

Quanto sia sbagliato pensare che la Baumafia sia solo un piccolo gruppo di criminali auto-organizzati ce lo confermano le dichiarazioni di un nuovo pentito. Parliamo di Giuseppe Tuzzolino, un architetto che – nonostante le indagini della DDA di Palermo nascondano ancora la maggior parte dei dettagli – si è scoperto essere stato il braccio destro di Condello nell’organizzare truffe milionarie proprio nel Comune di Palma di Montechiaro. Truffe che però, assicura Tuzzolino, vanno ben oltre il Comune di Palma. Arriverebbero infatti proprio fino in Germania, nella rete di milioni di fondi neri che la BKA ha soprannominato Baumafia.

Le connessioni con la politica. La Baumafia della Nord-Reno Westfalia sembra avere capito come trovare supporto anche al di la dei semplici affiliati mafiosi. Ha capito che per nascondere meglio il suo volto, deve lavorare anche sulla politica. E lo fa in due modi. Innanzitutto cercando di permeare quella tedesca: o con la corruzione, o la compravendita di voti.

A Norimberga alcuni anni fa si è messa a punto una vera e propria strategia della mafia per la compravendita dei voti. Gli italiani in Germania potevano votare il candidato prescelto e guadagnarsi in cambio 50 euro, una pratica ben conosciuta in Sicilia. Il secondo metodo che sembrerebbe essere stato adottato è quello del sostegno ai politici italiani in Germania, almeno a giudicare dagli innumerevoli bigliettini da visita di politici italiani, tutti vicini alla destra di Berlusconi, che Calogero Di Caro, l’uomo di punta della ‘squadra scavo’, aveva nella sua agenda sequestrata.

Contatti con politici italiani in Europa. Interrogato dagli inquirenti il Baumafioso dice: “Si trattava solo di politica”. Un grande senso civico, quello di Calogero Di Caro, che, racconta lui stesso, si occupava “di tirare su voti per i parlamentari italiani all’estero”. E lo ha fatto anche per il pidiellino siciliano Massimo Romagnoli, durante la scorsa campagna elettorale. Riscuotendo un certo successo. Nel 2006 infatti, Romagnoli viene eletto deputato alla Camera con 8.700 voti provenienti dall’estero. La maggior parte di questi erano stati raccolti proprio a Colonia.

È possibile che Massimo Romagnoli non sospettasse minimamente con chi se la facesse Di Caro, ma quest’ultimo lo cita anche durante l’interrogatorio con la BKA tedesca. Agli inquirenti racconta di avere avuto una richiesta di aiuto da parte di Massimo Erroi, il commercialista della Baumafia, quando questo si trovava in carcere in Germania. Gli serviva un passaporto. Di Caro dice di avere pensato a Romagnoli. Poi, dice di essersi “mosso con i miei contatti e in quattro settimane glielo ho fatto avere.”

Massimo Romagnoli nega di aver mai ricevuto tale richiesta. “Conosco Calogero Di Caro, mi ha aiutato con la campagna elettorale,” ha spiegato a IRPI, “aveva un’impresa di pulizie. Ma questo Massimo Erroi è la prima volta che lo sento nominare.” “Personalmente non ho mai ricevuto richieste di questo tipo” continua Romagnoli, al momento impegnato con Forza Italia nella campagna elettorale per le elezioni europee “ne da Di Caro, ne da nessun altro.”

ScarpinatoRoberto Scarpinato, Procuratore Generale a Palermo, è categorico quando parla del potere di seduzione intrinseco a Cosa Nostra. “La mafia in Germania vuole che i tedeschi pensino che non esista. Non ha più bisogno di essere violenta. Può sedurre con il capitale. Certo, c’è ancora una faccia violenta della Mafia, in Italia, ma si mostra solo quando il potere di convincimento dei soldi non basta. In realtà, il mondo oggi rischia di essere conquistato dalla Mafia tramite la seduzione del capitale, e paesi come la Germania sono ad alto rischio. Quando non si cerca di capire la fonte dei soldi, e si accetta l’ingresso indiscriminato di capitale nel proprio paese, allora è la moralità stessa di un popolo che è a rischio. In tempi di crisi come oggi, il potere del denaro e della corruzione possono diventare un’epidemia che scuote una società dalla fondamenta. La Germania deve decidere se accogliere la Mafia, o combatterla.”

Foto di Funke Mediagruppen
I disegni a fumetto sono di Vincent Burmeister. Grazie a Jenny Mainusch per l’aiuto con la traduzione di documenti giudiziari dal tedesco all’italiano.
(Fonte irpi)

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Liguria: Corruzione, politica e mafia

Cosche Mafiose in Liguria

Le ultime inchieste in Liguria hanno dimostrato che le principali forme mafiose italiane, in primis la ‘ndrangheta hanno stretto rapporti con una parte della classe politica, a prescindere dallo schieramento partitico in base alla utilità per la cosca. A differenza che in altre realtà del centro nord dove questo rapporto è limitato od assente, in Liguria purtroppo il connubio tra mafia e politica è presente in maniera rilevante. Il fatturato mafioso stimato è di circa 10-11 miliardi di euro ed è proporzionato alle stime nazionali oscillanti tra i 140-150 miliardi di euro che salgono a 200 con le mafie straniere ed a 2000 nei 27 paesi del parlamento europeo.

La Liguria non è originariamente una terra che ha dato vita a forme mafiose autoctone di una certa rilevanza e per questo motivo parlare di tale argomento su un territorio considerato “un’isola felice” non è mai stato facile. La banda dei genovesi attiva negli anni ’70 non è mai stata in grado di trasformarsi in forma mafiosa. Un campanello d’allarme comunque in Liguria c’è sempre stato: la presenza del clan dei marsigliesi… Ma provenivano dalla Francia. I marsigliesi erano comunque in affari con gli italiani, come tra l’altro lo sono i loro eredi oggi. Altro campanello d’allarme da non sottovalutare riguarda l’emanazione della prima sentenza che ha dimostrato l’esistenza di cosa nostra in Liguria e che risale a 25 anni fa. La presenza al confino di mafiosi sin dagli anni ’50 tra l’altro ha contribuito all’esportazione di tale fenomeno. Negli anni novanta da altre sentenze fu colpito il mercato delle slot machines in mano sempre ai clan siciliani. I rapporti della DIA sin da quando sono stati redatti si sono occupati delle infiltrazioni mafiose in Liguria. La DIA ligure tra l’altro nel corso del 2011 ha sequestrato beni per circa 20 milioni di euro. Lo stesso dicasi per i rapporti della DNA curati ultimamente dalla Dott.ssa Canepa giovane memoria storica dell’antimafia stimata dal giudice Caponnetto per il suo impegno.

Nei vari rapporti la Liguria è spesso considerata come uno snodo del narcotraffico internazionale, per la posizione geografica di confine con la Francia e per i numerosi porti presenti, quali Genova, Savona, Vado Ligure e La Spezia, rappresenta una manna per le organizzazioni criminali mafiose che infatti sono ben rappresentate. Inoltre essendo una terra che non ha dato origine a forme mafiose è un luogo in cui convivono varie forme di criminalità mafiosa ed organizzata. La regola principale di convivenza è quella del non disturbarsi a vicenda. In molti casi inoltre scattano dei meccanismi collaborativi. È il caso dell’accordo tra i nuovi clan marsigliesi e la ‘ndrangheta per gli affari in comune che transitano sui rispettivi territori. Non bisogna inoltre dimenticare che a Sanremo c’è il casinò e solitamente queste strutture sono considerate appetibili dalle varie mafie.

‘NDRANGHETA. La ‘ndrangheta al momento è la forma mafiosa di cui si parla di più. E’ ben presente in tutto il territorio ligure ed utilizza la regione come testa di ponte per la Francia e per i porti ivi presenti. Attualmente risultano presenti locali a Genova, Ventimiglia, Lavagna, Sarzana e probabilmente anche a Sanremo, Rapallo, Imperia, Savona, Taggia. Per la DIA “la Liguria si conferma essere il territorio di elezione di diverse forme di criminalità organizzate e, tra queste, assume particolare rilievo la presenza di sodalizi riconducibili alla ‘ndrangheta”. Le operazioni condotte contro la ‘ndrangheta sono numerosissime ma quella che più di tutte ha dato un contributo fondamentale a capire gli insediamenti al nord è stata la c.d. “operazione crimine” del 13 luglio 2010 che ha permesso di scoprire la presenza organica della ‘ndrangheta sul territorio ligure con gli effettivi organigrammi. I ROS dei carabinieri quotidianamente contrastano la ‘ndrangheta sul territorio ligure. Dalla relazione della commissione antimafia del 2008 allora diretta da Francesco Forgione emerge la presenza di una camera di compensazione per le cosche liguri e piemontesi per la gestione degli affari ed il ruolo della locale di Ventimiglia per il coordinamento. Il biennio 2010/2011 è stato un periodo molto intenso per la procura di Genova che ha potuto contrastare le cosche con le operazioni “maglio 2” e “maglio 3”.

COSA NOSTRA. La mafia siciliana è storicamente presente in Liguria. Il rapporto della DNA ritiene pacifico come dato giudiziario accertato la presenza in particolare su Genova, ma non solo, di “decine”, diretta emanazione di “famiglie” di cosa nostra. In particolare si registra un’attenzione per il riciclaggio, l’usura, lo sfruttamento della prostituzione, la distribuzione delle bevande, la gestione delle slot machines non solo abusive o clonate ma sempre più ufficiali con tanto di autorizzazione dei Monopoli di Stato. Risultano presenti in particolare i gruppi di Caltanissetta e Gela. Il rapporto della DIA conferma ciò con una maggiore penetrazione in Genova e provincia ma con l’intera regione considerata un terreno appetibile per le organizzazioni criminali per il rifugio ai latitanti ed il riciclaggio in attività lecite. Si segnala inoltre l’attenzione dei clan siciliani per la gestione ufficiale dei rifiuti. I clan di cosa nostra mostrano anch’essi una notevole attenzione per gli investimenti in Francia e Costa Azzurra.

CRIMINALITA’ MAFIOSA CAMPANA. I vari rapporti che si sono succeduti nel corso degli anni, sia della DIA sia della DNA, confermano la presenza in Liguria di soggetti operativi della criminalità mafiosa campana in grado di sviluppare autonome relazioni criminali. La presenza della camorra è stata riscontrata a La Spezia, a San Remo e Ventimiglia. Le ramificazioni hanno privilegiato oltre allo spaccio ed al gioco d’azzardo la contraffazione. Vi sono inoltre elementi di spicco di origine camorristica fuggiti in Francia e che da oltre confine gestiscono affari anche con i francesi.

SACRA CORONA UNITA. Iniziano ad essere presenti anche esponenti della criminalità mafiosa pugliese in Liguria, più precisamente nella zona di Savona in accordo con gruppi di albanesi dediti allo spaccio. L’espansione della SCU non avviene per clan ma per singoli esponenti e lentamente si estende sul territorio regionale.

*Rapporto Fondazione Antonino Caponnetto

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Andreotti l’intoccabile

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“Chi non vuol far sapere una cosa – diceva Giulio Andreotti – non deve confidarla neanche a se stesso”. È forse l’unica legge che abbia sempre rispettato. Non c’è praticamente scandalo della Prima Repubblica che non l’abbia visto coinvolto, anche se è sempre uscito indenne da tutto: 26 richieste di incriminazione alla commissione parlamentare Inquirente (regolarmente respinte) e due processi penali (mezzo prescritto per mafia; condannato in appello e assolto in Cassazione per l’omicidio Pecorelli).

I banchieri di Dio. Nel 1955 è ministro delle Finanze. Il conte Marinotti, patron della Snia-Viscosa, gli presenta Michele Sindona, un fiscalista che ha fatto fortuna nella natia Sicilia commerciando al mercato nero con la mafia e gli Alleati. Andreotti resta colpito dalla sua “genialità”. Intanto non si accorge dei debiti miliardari accumulati da Giambattista Giuffré, “il Banchiere di Dio”: un ex impiegato di banca di Imola che raccoglie risparmi promettendo interessi del 70-100% e li spiega alle Fiamme Gialle come “un miracolo della divina provvidenza”. Ma ha ottimi santi in Paradiso e non succede nulla. Fino al crac. Nel 1958, ad accusare Andreotti in Parlamento per omessa vigilanza provvede il suo successore, il psdi Luigi Preti. Il Divo verrà scagionato da una commissione d’inchiesta.

Banane & aeroporti. Nel ‘64 salta fuori una truffa che, in barba alle gare d’asta, permetteva di assegnare la commercializzazione delle banane a imprese amiche. Finisce nei guai l’ex ministro dc Trabucchi. Ma l’Ad dei Monopoli Banane è un raccomandato di Andreotti. Lui, sulla sua rivista “Concretezza”, ricorda l’esempio di Di Nicola che mai raccomandò nessuno, ma poi elogia l’arte del “nobile interessamento”, “routine pesante non priva d’incomprensioni e amarezze. Onore a Di Nicola, ma anche a quanti servono il prossimo in un modesto contatto umano”. A proposito di pie raccomandazioni, fa molto chiacchierare la vicenda del nuovo aeroporto di Fiumicino, costato decine di miliardi più del previsto, costruito su aree dei Torlonia e affidato per la progettazione al col. Giuseppe Amici, condannato per collaborazionismo col fascismo. Una commissione parlamentare criticherà Andreotti: ordinò accertamenti su Amici, ma poi in Senato riferì gli esiti “affrettatamente”, coprendo le sue responsabilità.

Golpe & dossier. Agli anni di Andreotti alla Difesa risalgono le manovre golpiste del generale De Lorenzo. E le schedature del Sifar su 150mila cittadini. Compreso Scelba, “reo” di avere un’amante. Due colonnelli dell’Arma lo informano di avere indagato sulla sua vita privata e lui apostrofa il Divo in piena Camera: “È vero che stai indagando su di me?”. Lui naturalmente nega. Così come negherà di aver saputo qualcosa delle manovre di De Lorenzo e del Sifar. Pietro Nenni nei suoi diari si domanderà: “E allora, a chi faceva capo il Servizio?”. Proprio al Divo spetta far distruggere i fascicoli del Sifar nell’inceneritore di Fiumicino. Invece qualcuno li fotocopia e li passa a Gelli, che li nasconde all’estero per ricattare tutto e tutti. Nel ’66 Andreotti lascia la Difesa per l’Industria: per traslocare il suo archivio vengono mobilitati sei camion militari.

Petroli/1. Nel 1973 tre pretori di Genova – Almerighi, Brusco e Sansa – scoprono che dal 1966 il  Parlamento ha approvato sgravi fiscali ai petrolieri in cambio di tangenti ai partiti di governo: 13 miliardi in sei anni. Tra i beneficiari c’è Andreotti, il cui nome in codice (“Andersen”) viene ri- trovato nel taccuino dell’ufficiale pagatore dell’Unione Petrolifera. L’Inquirente archivia, cioè insabbia.

Bombe & bobine. Nel ’74 Andreotti torna alla Difesa. Il generale Maletti del Sid indaga sul golpe Borghese del 1970 e gli consegna un rapporto di 56 pagine. Lui riferisce al Parlamento, ma il giornalista Mino Pecorelli l’accusa di aver alleggerito il “malloppo” trasformandolo in “malloppino”. Il capitano Labruna racconterà che a fine luglio ‘74, in una riunione nello studio del Divo, si era deciso di tagliare dalle bobine degli interrogatori le parti in cui si citavano Gelli e altri fedelissimi di Andreotti coinvolti nel golpe. C’è poi il mistero di Guido Giannettini, il giornalista legato alla destra eversiva e al Sid, vicinissimo al Divo. Che però lo smaschera con una clamorosa intervista. Le sue reticenze al processo sulla strage spingono i giudici a chiedere all’Inquirente di indagarlo per falsa testimonianza. Invano.

Petroli/2. Nel 1974 i ministri della Difesa, Andreotti, e delle Finanze, Tanassi (Psdi) nominano il generale Raffaele Giudice comandante della Guardia di Finanza. Si scoprirà poi per la sua nomina i petrolieri hanno pagato tangenti a Dc, Psi e Psdi. E che Andreotti ha ricevuto varie lettere di raccomandazione pro Giudice dal cardinal Poletti. Giudice, iscritto alla P2, blocca subito le indagini su un mega-contrabbando di combustibili che ha causato un’evasione fiscale per 2mila miliardi. La Procura di Torino chiederà all’Inquirente di processare Andreotti per interesse privato. Richiesta respinta.

A Fra’ che te serve? Nel 1975 i fratelli palazzinari Gaetano, Francesco e Camillo Caltagirone, alla canna del gas, ottengono prestiti dall’Italcasse (noto feudo Dc) per 209 miliardi. Sono intimi di Andreotti ed elemosinieri della sua corrente. Pecorelli minaccia di pubblicare le fotocopie  di una serie di assegni “consegnati brevi manu” al Divo. Nel 1979 verrà ucciso: delitto senza colpevoli.

Sindona, mafia e P2. Nel 1973, all’hotel Woldorf Astoria, davanti al gotha della mafia italo-americana, Andreotti celebra Sindona come “il salvatore della lira”. Il banchiere ricambia, finanziando la campagna referendaria Dc contro il divorzio. Un anno dopo fa crac. Elabora un piano di salvataggio che costerebbe ai contribuenti italiani 257 miliardi. E inizia a ricattare la Dc e Andreotti, che lo appoggia e lo incontra durante la latitanza. Ma la Banca d’Italia, col governatore Baffi e il vicedirettore Sarcinelli, si oppone. E così il commissario liquidatore della Banca Privata, Ambrosoli. Nel 1979 i giudici di Roma arrestano Sarcinelli e incriminano Baffi con accuse false. E un killer della mafia uccide Ambrosoli. Che, sulle sue agende, annotava: “Andreotti è il più intelligente della Dc, ma il più pericoloso”, “Andreotti vuol chiudere la questione Sindona a ogni costo”. Nei diari di Andreotti, Ambrosoli non è mai citato. “Ambrosoli se l’è cercata”, dirà Il Divo. Nel 1984 la Camera discute delle sue responsabilità politiche nel caso Sindona. L’aula è semideserta. Il Pci si astiene. Andreotti è salvo. Due anni dopo Sindona muore per un caffè al cianuro.

Gelli ed Eni-Petromin. Il 17 marzo 1981 i giudici milanesi Turone e Colombo scoprono gli elenchi (incompleti) della P2: 962 persone, fra cui molti fedelissimi di Andreotti. I giornali ne parlano dal ’74. Marco Pannella, nel ‘77, ha rivolto un’interrogazione ad Andreotti per sapere se avesse ricevuto Gelli a Palazzo Chigi. Ma lui ripete di aver conosciuto Gelli solo di vista, negli Anni 50, all’inaugurazione della Permaflex di Frosinone. Bugia smentita da vari testimoni. Tra le carte sequestrate al Venerabile, i numeri di telefono di Andreotti e uno strano bigliettino di auguri del Divo: “Siate come l’uccello posato per un istante su dei rami troppo fragili, che sente piegare il ramo e che tuttavia canta sapendo di avere le ali”. Clara Canetti vedova di Roberto Calvi rivelerà che secondo il marito era Andreotti il vero capo della P2 (e aveva subito “minacce di morte direttamente da Andreotti”, prima di finire impiccato a Londra). Tesi ripresa anche da Craxi nell’articolo “Belfagor e Belzebù”. Lo scontro fra Bettino e Giulio risale all’affare Eni-Petromin: un megacontratto concluso nel 1984 dal governo Andreotti per importare petrolio dall’Arabia Saudita, con tangente del 7% (100 miliardi) gli andreottiani e alla sinistra Psi ostile a Craxi per scalzarlo dalla segreteria.

Le ombre Moro e Dalla Chiesa. Nel 1982 il generale Dalla Chiesa viene inviato a Palermo come prefetto. Lì, abbandonato da tutti, viene ucciso da Cosa Nostra dopo 100 giorni. Nel suo diario ricorda l’ultimo incontro con Andreotti: “Andreotti mi ha chiesto di andare e, naturalmente, date le sue presenze elettorali in Sicilia si è manifesta per via indiretta interessato al problema; sono stato molto chiaro e gli ho dato però la certezza che non avrò riguardo per quella parte di elettorato cui attingono i suoi grandi elettori … Il fatto di raccontarmi che intorno al fatto Sindona un certo Inzerillo morto in America è giunto in una bara e con un biglietto da 10 dollari in bocca, depone nel senso”. Nel 1986 Andreotti sarà interrogato come teste al maxi-processo. E smentirà il diario di Dalla Chiesa: il generale “dev’essersi confuso”. Nel 1990, durante i lavori di ristrutturazione di un covo milanese delle Br perquisito nel ‘78 dagli uomini di Dalla Chiesa, vengono ritrovate 400 pagine di documenti del sequestro Moro: lettere inedite e una copia del memoriale già consegnato ai giudici dall’Arma 12 anni prima. Pecorelli aveva insinuato che il documento fosse incompleto. Ora c’è la conferma: il nuovo memoriale contiene riferimenti a Gladio e accuse durissime ad Andreotti. Nel ‘92 è proprio Cosa Nostra, col delitto Lima e la strage di Capaci, a sbarrargli la strada verso l’agognato Quirinale. E a trascinarlo davanti ai tribunali degli uomini. E poi a quello della Storia.

(Da Il Fatto Quotidiano 07 Maggio 2013)

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La mano di Giulio

Bacio-Andreotti-Andreotti-Gesu-Cristo-Morte

E’ morto oggi alle 12.25 nella sua abitazione di Roma Giulio Andreotti.  Aveva compiuto 94 anni il 14 gennaio scorso. Senatore a vita dal 1991, è stato il 16º, 19º e 28º Presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica Italiana e ha ricoperto più volte numerosi incarichi di governo. E’ morto un pezzo della storia italiana, con tutti i suoi segreti. Andreotti e la politica dei famosi accordi con la Mafia. Il condannato prescritto per mafia, questa la sentenza, confermata in Cassazione, con la quale la Corte d’Appello di Palermo, il 3 maggio 2003, ha assolto il sen. Andreotti per intervenuta prescrizione del reato di associazione a delinquere. “Andreotti ha commesso il reato di partecipazione all’associazione per delinquere (Cosa Nostra, ndr)… concretamente ravvisabile fino alla primavera 1980… estinto per prescrizione. L’imputato ha indotto i mafiosi a fidarsi di lui e a parlargli anche di fatti gravissimi (come l’assassinio di Mattarella) nella sicura consapevolezza di non correre il rischio di essere denunciati, ha omesso di denunciare le loro responsabilità, malgrado potesse, al riguardo, offrire utilissimi elementi di conoscenza. Aveva una propensione a intrattenere personali, amichevoli relazioni con esponenti di vertice di Cosa Nostra… (per) utilizzare la struttura mafiosa per interventi extra ordinem … forme di intervento para-legale che conferisce, a chi sia in possesso dei canali che gli consentano di sperimentarle, un surplus di potere rispetto a chi si attenga ai mezzi legali. La manifestazione di amichevole disponibilità verso i mafiosi è stata consapevole e autentica e non meramente fittizia. I fatti non possono interpretarsi come una semplice manifestazione di un comportamento solo moralmente scorretto e di una vicinanza penalmente irrilevante, ma indicano una vera e propria partecipazione alla associazione mafiosa, apprezzabilmente protrattasi nel tempo”. 

Questo scrisse  nella prefazione del  libro L’innocenza di Giulio, Gian Carlo Caselli il procuratore che avviò il processo al senatore a vita.

Lo ammetto. Sono un mostro. Nel senso latino di monstrum: un essere fuori dell’ordine naturale. Eh sì, perché sono l’unico giudice in Italia (credo al mondo) che può «vantare» una legge scritta apposta per lui, contro di lui. Nel paese delle leggi ad personam, che hanno inquinato il sistema violando i principi fondamentali dell’ordinamento e la stessa regola di «buona fede legislativa», troviamo – tanto per non farci mancare nulla – anche una legge «contra personam», scritta apposta per impedirmi di partecipare alla nomina del nuovo procuratore nazionale antimafia dopo che Piero Luigi Vigna era scaduto dall’incarico. Perché tutta questa attenzione? Detto e ripetuto pubblicamente da fior (si fa per dire) di uomini politici: dovevo pagare il processo al senatore Andreotti perché, come capo della Procura di Palermo – dove avevo chiesto di essere mandato dopo le stragi Falcone e Borsellino – avevo osato indagare e poi processare il Divo Giulio. La legge «contra personam» sarà poi dichiarata incostituzionale e cassata dal nostro ordinamento, ma frattanto i giochi erano ormai irreversibilmente fatti: io (il mostro) estromesso dal concorso, senza che nessuno trovasse nulla da ridire, né chi si vedeva tolto dai piedi un concorrente, né il Csm che aveva accettato disinvoltamente di concludere una procedura inquinata da un cambiamento delle regole a partita aperta e ormai quasi conclusa. Peccato che da «pagare», per il processo Andreotti, non ci fosse un bel niente. Al contrario, la conclusione del processo dà sostanzialmente ragione all’accusa, che perciò non ha nulla da farsi perdonare, anzi. Vero è che la stragrande maggioranza dei cittadini italiani è convinta (in perfetta buona fede, perché questo le è stato fatto credere con l’inganno) che Andreotti sia innocente. Di più: vittima di una persecuzione che lo ha costretto a un doloroso calvario di una decina d’anni per l’accanimento giustizialista di un manipolo di manigoldi. Ma la realtà vera è ben diversa, come anche questo lavoro di Giulio Cavalli facilmente dimostra. Per parte mia, cosa dire di più? Può essere utile una breve storia del processo. In primo grado l’imputato Andreotti viene effettivamente assolto. Di fatto per insufficienza di prove, ma assolto. Contro l’assoluzione ricorrono la Procura della repubblica e la Procura generale. La Corte d’appello di Palermo riforma la sentenza del tribunale. L’imputato è dichiarato responsabile del delitto di associazione a delinquere con Cosa nostra per averlo «commesso» (sic) fino al 1980; il delitto è commesso ma prescritto, e solo per questo motivo all’affermazione di colpevolezza non segue la condanna. Dopo il 1980 la Corte conferma l’assoluzione. Contro la sentenza d’appello ricorre in Cassazione l’accusa, perché vuole che la colpevolezza sia riconosciuta anche dopo il 1980. Ma in Cassazione (attenzione!) ricorre anche la difesa. È la prova provata che fino al 1980 non c’è stata assoluzione. Non esiste al mondo, infatti, che l’imputato assolto ricorra contro se stesso. Se lo fa, è per ottenere un’assoluzione vera (non spacciata come tale in favore di telecamere urlando «E vai!»). Ora, poiché la Suprema corte ha confermato definitivamente e irrevocabilmente la sentenza d’appello, è semplicemente falso sostenere che Andreotti è stato assolto. Fino al 1980 è stata provata la sua responsabilità per il delitto – ripeto – di associazione a delinquere con Cosa nostra. Fatti gravissimi, meticolosamente elencati e provati per pagine e pagine di motivazione, sfociano nel dispositivo finale. Dimenticavo: ricorrendo in Cassazione l’imputato avrebbe potuto rinunciare alla prescrizione, ma si è ben guardato dal farlo. Forse perché troppo… innocente.

La sentenza che pochi hanno letto. Andiamo a rileggere l’ultima pagina della sentenza della Corte d’appello di Palermo del 2 maggio 2003 (poi confermata in Cassazione) che, a quanto pare, in pochissimi hanno letto e moltissimi non hanno mai voluto o potuto conoscere. I fatti che la Corte ha ritenuto provati in relazione al periodo precedente la primavera ’80 dicono che il sen. Andreotti ha avuto piena consapevolezza che i suoi sodali siciliani intrattenevano amichevoli rapporti con alcuni boss mafiosi; ha quindi coltivato, a sua volta, amichevoli relazioni con gli stessi boss; ha palesato agli stessi una disponibilità non meramente fittizia, ancorché non necessariamente seguita da concreti, consistenti interventi agevolativi; ha loro chiesto favori; li ha incontrati; ha interagito con essi; ha loro indicato il comportamento da tenere in relazione alla delicatissima questione Mattarella, sia pure senza riuscire, in definitiva, a ottenere che le stesse indicazioni venissero seguite; ha indotto i medesimi a fidarsi di lui e a parlargli anche di fatti gravissimi (come l’assassinio del presidente Mattarella) nella sicura consapevolezza di non correre il rischio di essere denunziati; ha omesso di denunziare le loro responsabilità, in particolare in relazione all’omicidio del presidente Mattarella, malgrado potesse al riguardo offrire utilissimi elementi di conoscenza. […] Dovendo esprimere una valutazione giuridica sugli stessi fatti, la Corte ritiene che essi non possano interpretarsi come una semplice manifestazione di un comportamento solo moralmente scorretto e di una vicinanza penalmente irrilevante, ma indicano una vera e propria partecipazione all’associazione mafiosa apprezzabilmente protrattasi nel tempo. […] Si deve concludere che ricorrono le condizioni per ribaltare, sia pure nei limiti del periodo in considerazione [cioè prima della primavera del 1980, nda], il giudizio negativo espresso dal tribunale in ordine alla sussistenza del reato e che, conseguentemente, siano nel merito fondate le censure dei pubblici ministeri appellanti. Non resta, allora, che […] emettere, pertanto, la statuizione di non luogo a procedere per essere il reato concretamente ravvisabile a carico del sen. Andreotti estinto per prescrizione. All’università insegnavano (e forse ancora si insegna) che la pronuncia di Cassazione «facit de albo nigrum… aequat quadrata rotundis». Latino facile, evidentemente ignorato dai commentatori della sentenza Andreotti. Eppure, che le parole sono pietre e quelle della Cassazione addirittura macigni lo sanno tutti. Persino… er Monnezza. Mi riferisco a uno dei polizieschi anni Settanta interpretati da Tomas Milian. Per convincere un amico, il maresciallo Giraldi urla: «Aò, quello che te sto a di’ è Cassazione!». Come a dire, non puoi dubitarne. Evidentemente ciò che vale per er Monnezza non vale per il resto del nostro paese. Dunque «è Cassazione» il fatto che, per un congruo periodo di tempo, il senatore Andreotti è stato colluso con Cosa nostra. Questa verità dovrebbe rimanere scolpita nella memoria del paese, specialmente se parliamo di una persona che per sette volte è stata presidente del Consiglio e per ventidue volte ministro. E invece no. Queste parole sono state sapientemente esorcizzate, stravolte, cancellate. Le sentenze (emesse in nome del popolo italiano) vanno motivate affinché il popolo possa sapere per quali motivi appunto si viene assolti o condannati, ma anche perché il popolo possa conoscere i fatti che stanno alla base dei motivi per cui una persona è chiamata a rispondere di determinate azioni di fronte a un tribunale. Qui il popolo è stato truffato. Dalla motivazione di tutte le sentenze – anche da quella di primo grado, che assolve per insufficienza di prove – emerge una realtà sconvolgente: scambi di favori e, soprattutto, riunioni (per discutere di fatti criminali gravissimi) con capimafia del calibro di Stefano Bontate, provate dalle veridiche dichiarazioni di Francesco Marino Mannoia, testimone oculare di uno di questi incontri. Realtà sconvolgenti, consacrate (ribadisco) da una sentenza passata in giudicato. Sarebbe lecito – almeno – attendersi riflessioni, dibattiti, confronti, analisi. Sarebbe opportuno chiedersi cosa mai sia successo davvero in quella stagione. Su che cosa si sia basato, almeno in parte, il meccanismo del consenso nel nostro paese. Niente di tutto questo. Tutto è stato cancellato, nascosto. Se ne è parlato soltanto per stravolgere i fatti, da parte di tutti: autorevoli leader politici, illustri opinion maker, finanche vertici istituzionali. Dopo la cosiddetta «assoluzione» è stata una corsa alle telefonate di congratulazioni, alle pubbliche e stucchevoli attestazioni di stima. Il massimo dell’impudenza lo raggiunge il presidente della Commissione parlamentare antimafia Roberto Centaro che – all’indomani della sentenza della Corte d’appello – dichiara pubblicamente: «Il grande dibattito mediatico, che si è sovrapposto e ha sostituito il processo, ha seguito i ritmi dell’“analisi politica” (già sperimentata per la valutazione delle responsabilità per le stragi del 1992 e del 1993), pervenendo a un tentativo di condanna, o di attribuzione di mafiosità malamente sbugiardato [corsivo mio, nda] dalle pronunce giurisdizionali. Ciò ha comportato, comunque, l’insinuarsi di ombre e veleni. L’unico risultato è stata una crescente confusione nei cittadini e un senso di sfiducia nelle istituzioni, a fronte di affermazioni perentorie poi rivelatesi infondate in corso d’opera». Centaro ha visto un altro processo, vive in un altro mondo.

La verità negata. La verità è fatta a brandelli. E la sinistra non è stata da meno. Una forza politica che ha sempre fatto della «questione morale» un punto (apparentemente) fondante, non dico che della vicenda dovesse farne una bandiera, ma quanto meno discuterne. Invece l’ha a dir poco rimossa. Anna Finocchiaro, ad esempio, ha liquidato come «inutile perdita di tempo la discussione sulle vicissitudini giudiziarie del senatore Andreotti». Clemente Mastella, ineffabile ministro della Giustizia, ha dichiarato che «invece di parlare della sentenza di Palermo, ad Andreotti bisognerebbe fare un monumento». In questo Mastella è stato ampiamente soddisfatto. Sulla vicenda processuale si è innestato un processo di santificazione mediatica con la sapiente e sottile tessitura dello stesso Andreotti. Grazie alla connivenza di molta politica e di molta informazione egli è riuscito a far passare in secondo piano i gravi fatti evidenziati dal processo, fino a cancellarli. Ha esibito se stesso in mille circostanze su un’infinità di media, cerimonie e manifestazioni, rivitalizzando così il profilo di un grande statista di prestigio internazionale, apprezzato da molti (Vaticano in primis). Fino a sfiorare la nomina alla presidenza del Senato, dopo essere stato designato per rappresentare l’Italia ai funerali di Boris Eltsin. Senza disdegnare, nel contempo, incursioni da star nel mondo della pubblicità, facendo il testimonial della famiglia per la Chiesa cattolica o prestandosi, al fianco di una procace attrice, a promuovere una marca di cellulari. Il risultato è stato una sorta di dilagante giudizio parallelo, nel quale il senatore ha cercato – riuscendoci – di offrire di sé un’immagine di altissimo profilo incompatibile con le bassezze processuali rimestate da piccoli giudici. Anzi – verrebbe da dire – dentro le quali grufolavano piccoli giudici. Una strategia che ha pagato, perché ha trovato un’infinità di sponde, che hanno stravolto la verità, massacrando la logica e il buon senso. Con una conseguenza che va ben oltre il perimetro del processo Andreotti. Parlare di assoluzione, anche a fronte delle gravissime responsabilità provate fino al 1980, non è solo uno strafalcione tecnico. Significa in realtà legittimare (per il passato, ma pure per il presente e il futuro) una politica che contempla anche rapporti organici con il malaffare, persino mafioso. Per poi stracciarsi le vesti se non si riesce – oibò! – a sconfiggere la mafia. Lo ha sottolineato il corrispondente dell’«Economist» David Lane in un’intervista rilasciata al «Venerdì di Repubblica»: premesso che «i politici e i media hanno raccontato un’altra storia, come se la Suprema corte avesse detto che [Andreotti] era innocente», Lane si chiede che cosa questo fatto comporti «sulla determinazione nella lotta al crimine», e risponde che si tratta di «un messaggio chiaro, che piace ai mafiosi». Ovviamente non è con messaggi di questo tipo che si vince la guerra alla mafia. L’intelligente ironia di Giulio Cavalli, dunque, ci offre non solo preziosi elementi di conoscenza di una verità dolosamente nascosta. È anche un antidoto potente contro una patologia che affligge pesantemente il nostro paese: la perdita di memoria che sconfina nell’amnesia, l’irresponsabile sottovalutazione del pericolo che si corre quando si occulta il passato. In sostanza, una mancanza continuativa di coscienza etica, fino all’eclissi della questione morale.

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Piero Grasso e le Travagliate amicizie

Piero-Grasso-Marco-Travaglio

“Piero Grasso non è quello che sembra” tuona Marco Travaglio. Grasso viene definito il cocco del Pdl (che lo impose alla Pna, estromettendo per legge Caselli), del Centro (che voleva candidarlo) e del Pd (che l’ha candidato). In effetti i suoi rapporti col Potere sono da sempre idilliaci: specie da quando subentrò a Caselli alla Procura di Palermo e subito se ne dissociò, abbandonò le indagini su mafia e politica (Cuffaro a parte), allontanò dalla Dda i pm più impegnati su quel fronte, lasciò nel cassetto le carte sequestrate a Ciancimino sulla trattativa, rifiutò di controfirmare l’appello contro l’assoluzione di Andreotti in primo grado, meritandosi gli elogi di Berlusconi e C. e dei “riformisti” centrosinistri, infine ritirò il premio: la legge Bobbio (An), poi dichiarata incostituzionale, che di fatto lo nominava procuratore nazionale antimafia estromettendo il suo unico concorrente Caselli. Da allora, democristianamente, si barcamena. Un giorno dice: “Le stragi furono date in subappalto a Cosa Nostra per gettare l’Italia nel caos e dare la possibilità a un’entità esterna di proporsi come soluzione”, insomma “agevolare l’avvento di nuove realtà politiche che potessero poi esaudire le sue richieste”. Cioè Forza Italia. Un altro, fra gli applausi dei Gasparri, propone “un premio speciale a Berlusconi e al suo governo per la lotta alla mafia”. In attesa del confronto tv tra Grasso e Travaglio godetevi un estratto dal libro di Marco Travaglio e Saverio Lodato Intoccabili“. Da rabbrividire il capitolo riguardante il procuratore Grasso con vicende quasi sconosciute ai più.

Nel luglio del 1999 Gian Carlo Caselli lascia dopo sei anni e mezzo la Procura di Palermo per trasferirsi a Roma come direttore del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria). Ha programmato tutto per andarsene all’indomani della sentenza del Tribunale su Andreotti. Invece un lungo sciopero degli avvocati provoca un inatteso slittamento delle ultime udienze a dopo l’estate. Così l’ormai ex procuratore apprenderà dell’assoluzione del suo imputato più famoso quando già è stato trasferito nella capitale. A Palermo inizia la «fase 3» dell’antimafia. Segnata prima dall’illusione di una continuità con il recente passato. E poi dalla brusca disillusione, di fronte alla realtà di una Procura che sembra ricalcare i passi di una stagione che si sperava definitivamente sepolta. Il Csm designa come nuovo procuratore Piero Grasso, siciliano, 54 anni, ex giudice al tribunale di Palermo, negli ultimi anni pm alla Procura nazionale Antimafia. Già nel 1992 s’era candidato, con la sponsorizzazione del ministro Martelli. Ma il Csm gli aveva preferito Caselli. In un’intervista a Enrico Bellavia e Attilio Bolzoni della «Repubblica», il nuovo procuratore si presenta così: «Sono nato a Licata il 1° gennaio 1945. Veramente sono nato qualche giorno prima, ma i miei genitori mi hanno registrato a gennaio per farmi risultare del ’45 e non del ’44, insomma per farmi guadagnare un anno, allora si usava così. E in effetti, nella mia vita ho guadagnato tempo…». A 4 anni e qualche mese, la prima elementare. A 17 la maturità. A 21 la laurea. A 24 anni la toga di magistrato. «Primo incarico la Pretura di Barrafranca, ma mentre studiavo per il concorso ho lavorato alla segreteria tecnica dell’ufficio di igiene, qui in città [Palermo, N.d.A.] sono venuto quando avevo un mese, sono nato a Licata perché là mio padre lavorava alle Imposte Dirette…». Scrivono Bellavia e Bolzoni: Barrafranca, campagne gialle e arse d’estate e un vento gelido che soffia d’inverno, Sicilia interna, gli abitanti si chiamano barresi, nei bar fanno gelati alla ricotta. Dal piccolo paese dell’entroterra subito a Palermo, sono i primi anni Settanta. Qui è stato appena ucciso un magistrato, il procuratore Pietro Scaglione. Si apre la tragedia siciliana moderna. […] «Arrivammo in tanti al Palazzo di Giustizia in quel periodo», ricorda Grasso, «c’era Mimmo Signorino, c’era Giusto Sciacchitano e c’ero anch’io […]. Eravamo tutti ragazzi, Rocco Chinnici ci chiamava i plasmoniani, i primi italiani cresciuti con i biscotti Plasmon.» Domenico Signorino era suo amico, poi anni dopo fu sospettato di collusioni mafiose. Nel 1992 si suicidò.

Alla Procura di Palermo, Grasso fa un paio d’anni di gavetta, poi viene subito catapultato in inchieste di mafia. Sono gli anni dell’ennesima, grande mattanza. Mario Francese, Michele Reina, Boris Giuliano, Cesare Terranova, Piersanti Mattarella. Quando muore ammazzato il presidente della Regione, Grasso è il pm di turno. Poi il clima in Procura e all’Ufficio istruzione si fa irrespirabile, fra veleni e corvi. Lui chiede il trasferimento e diventa giudice. Un giorno, a metà degli anni Ottanta, lo chiama il presidente del Tribunale: Mi propose di fare il giudice a latere nel maxiprocesso che si doveva celebrare. Io chiesi 24 ore di tempo per decidere: ne volevo parlare con Maria, mia moglie. Dovevamo decidere insieme, io non avevo mai avuto una scorta, non avevo mai fatto parte del pool [antimafia, N.d.A.], sapevo che se avessi accettato quell’incarico sarebbe cambiata per sempre non solo la mia vita, ma anche quella della mia famiglia. Dissi a Maria tutto quello che sarebbe accaduto e che puntualmente poi è accaduto: riceveremo minacce, vivremo come prigionieri, saremo sottoposti a pressioni di ogni genere […]. Alla fine decidemmo democraticamente […]. No, non fu molto democratica la scelta, perché annunciai a mia moglie: se rifiuto, io lascio la magistratura. Così diventai giudice a latere nel maxiprocesso a Cosa Nostra. Le minacce arrivano subito. In tempo reale. Lo stesso giorno in cui accetta, qualcuno citofona a casa sua. Risponde la moglie Maria. La voce scandisce poche parole: «I figli si sa quando escono, ma non si sa mai quando tornano». Il figlio Maurilio, 14 anni, è appena uscito da casa. Lo manderanno fuori Palermo per un po’.

Processare 400 boss, accusati dal pool di Falcone e Borsellino, è un’impresa mai tentata prima. Tre anni di lavoro: sei mesi di preparativi, venti mesi di udienze, un mese e mezzo di camera di consiglio, poi la sentenza e altri otto mesi per scrivere le motivazioni: 8.000 pagine. L’anziano presidente Alfonso Giordano affida il compito a Grasso, che chiede una mano a un nugolo di giovani uditori appena arrivati. Fra di loro ci sono Alessandra Camassa, Franca Imbergamo, Donatella Puleo, Massimo Russo e Antonio Ingroia, questi ultimi allievi prediletti di Borsellino. Depositato il malloppo, Grasso viene chiamato a fare il consulente della commissione Antimafia dal presidente comunista Gerardo Chiaromonte. E si trasferisce a Roma. È il 1989. Due anni dopo, nella capitale arriva anche Falcone, sconfitto prima nella corsa alla guida dell’Ufficio istruzione, poi nella Procura di Giammanco: il ministro Martelli (governo Andreotti) lo nomina direttore degli Affari penali. Grasso è il suo vicecapo di gabinetto. Poi l’estate del ’92: Capaci, via D’Amelio. Nel gennaio ’93, mentre Caselli s’insedia a Palermo, Grasso entra nella neonata Procura nazionale, diretta prima da Bruno Siclari e poi da Piero Luigi Vigna. Proprio in quei giorni la mafia progetta di assassinarlo a Monreale, dinanzi all’abitazione della madre. Poi, all’ultimo momento, il piano viene annullato grazie all’arresto di Riina. Sei anni e mezzo alla Dna. Infine, nel ’99, l’agognata Procura di Palermo.

L’amicizia con Dell’Utri. «Da Caselli», dichiara subito Grasso, «ho ereditato una squadra straordinaria, e non solo sul fronte dell’antimafia». Ci sono, insomma, tutti i presupposti per garantire la continuità di una stagione luminosa, che ha restituito prestigio e autorevolezza alla giustizia siciliana, dopo tanti veleni e morti ammazzati. Il pedigree di Grasso è di tutto rispetto, ed è per questo che le correnti togate più vivaci e attente alla lotta alla mafia, quelle «progressiste» di Magistratura democratica e del Movimento per la giustizia (fondato da Falcone e Almerighi, a cui è iscritto anche Grasso), non hanno dubbi quando debbono sostenere l’ex giudice del maxiprocesso contro un concorrente più anziano e titolato come Giovanni Puglisi, presidente dei gip di Palermo. Il loro appoggio è determinante per la sua nomina. Anche gli uomini di Caselli, a Palermo, fanno il tifo per lui. Sempre nell’intervista alla «Repubblica», il neoprocuratore incappa in una strana sbavatura che riguarda un imputato eccellentissimo della Procura di Caselli: Marcello Dell’Utri, l’uomo che, pochi mesi prima, il Parlamento ha salvato dall’arresto. Ecco: è in questo clima convulso che Grasso lascia cadere un particolare autobiografico che non è un bel segnale per i suoi sostituti impegnati nel processo Dell’Utri e tirati per i capelli in polemiche politiche furibonde. Interpellato dai giornalisti della «Repubblica» sulla sua passione per il pallone, prima irride alle prestazioni sportive di Caselli nella Nazionale dei magistrati («Si impegnava molto, ma con scarsi risultati […]. Anche un rigore s’è mangiato ultimamente»). Poi magnifica le proprie virtù di goleador: Io gioco bene. Ho cominciato prestissimo e potevo fare il calciatore. Ma quando avevo 14 anni ho deciso di studiare e dedicarmi al calcio solo come hobby […]. Giocavo nella Bacigalupo, avevo 14 anni e il mio allenatore ne aveva 17 di anni: era Marcello Dell’Utri. Sul campo della Bacigalupo, nel quartiere palermitano dell’Arenella, Dell’Utri sostiene di aver conosciuto nei primi anni Settanta Vittorio Mangano, poco prima di reclutarlo come «stalliere» di Berlusconi nella villa di Arcore.

È proprio il caso di ricordare, in quel momento, quell’antica conoscenza con l’imputato eccellente della sua Procura, soprattutto in una realtà come quella siciliana che vive di segnali? La singolare metafora calcistica viene immediatamente raccolta da Gianfranco Miccichè, già braccio destro di Dell’Utri in Publitalia e plenipotenziario di Forza Italia in Sicilia, per aprire una linea di credito al «nuovo corso» di Piero Grasso. L’8 febbraio 2000 Miccichè parla al «Corriere della Sera» di «nuovi rapporti» con la Procura che ora, con Grasso, mostrerebbe «minori pregiudizi» e avrebbe «cambiato i metodi». Il giornalista fa notare che la squadra di Grasso è rimasta la stessa di Caselli. Ma Miccichè lo corregge: «Molto dipende dall’allenatore, in una squadra…». Insomma, chi fa il gioco e la formazione è l’allenatore. Che non è più Dell’Utri, ma Grasso. E quella metafora continuerà a produrre per anni allusioni e messaggi trasversali, che si prestano alle più disparate interpretazioni, in un gioco di specchi vagamente pirandelliano. Dell’Utri sceglierà di ricordare quella comune esperienza col procuratore sul campo della Bacigalupo in un altro momento decisivo della sua vicenda giudiziaria: l’ultima dichiarazione spontanea resa al processo di Palermo, il 29 novembre 2004, poco prima della camera di consiglio dei giudici. E lo farà svelando un particolare che molti leggeranno come un avvertimento raggelante a Grasso o al collegio giudicante: Il procuratore Grasso, quando era giovane, giocava a calcio nella mia squadra, la Bacigalupo, ed era famoso perché a fine partita usciva sempre pulito dal campo: anche quando c’era il fango, lui riusciva sempre a non schizzarsi… Nel febbraio 2000, però, quando esce l’intervista di Grasso alla «Repubblica», i magistrati della Procura non fanno caso più di tanto a quello strano accenno non richiesto al Dell’Utri allenatore. In fondo il neoprocuratore ha pure definito quella di Caselli «una squadra straordinaria». E tanto, sul momento, sembra bastare. Quell’intervista tornerà in mente ad alcuni qualche anno dopo, quando la continuità con l’era Caselli si rivelerà una pia illusione.

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