
Un chilo di carne equivale a 35 metri quadrati di foresta, 15.500 litri d’acqua, 15 chili di cereali e 36 chili di Co2.
Il consumo di carne è responsabile in parte di un grosso problema che affligge l’umanità: la fame nel mondo. Continue Reading
Un chilo di carne equivale a 35 metri quadrati di foresta, 15.500 litri d’acqua, 15 chili di cereali e 36 chili di Co2.
Il consumo di carne è responsabile in parte di un grosso problema che affligge l’umanità: la fame nel mondo. Continue Reading
Nell’ultimo anno, secondo l’indagine del Censis “Gli italiani a tavola: cosa sta cambiando”, 16,6 milioni di italiani hanno ridotto il consumo di carne, 10,6 milioni quello di pesce, 3,6 milioni la frutta, 3,5 milioni la verdura. Nella crisi il divario nella spesa per il cibo dei più ricchi e dei meno abbienti si è ampliato. Nell’Italia delle disuguaglianze il buon cibo lo acquista solo chi può permetterselo. Così le diete, prima ancora che da valori e stili di vita, tornano ad essere condizionate soprattutto dalle nuove reali e diversificate disponibilità di reddito e di spesa delle famiglie. Continue Reading
Molto attenti alla loro salute e al benessere, gli italiani scelgono uno stile alimentare sempre più ricco di verdura e frutta, 4 famiglie su 10 acquistano prodotti vegani o vegetariani. Si mangia meno rispetto a dieci anni fa e la carne diviene la grande assente dalle tavole. E anche se non amano definirsi “V o V”, ormai quasi in un carrello su due compare un prodotto Veg. Questi i dati Nielsen (aprile 2016) rielaborati dal Centro Studi e Ricerche Coop. Continue Reading
Molte organizzazioni nel mondo, tra cui Slow Food, teorizzano da anni che la diminuzione dei consumi di carne è una strada obbligata, non solo per la salute umana ma anche per quella delle risorse naturali che per la sua produzione vengono utilizzate (o meglio sovrautilizzate). E questo va a braccetto con la qualità della carne che finisce sulle nostre tavole. Qualità in termini di sicurezza e qualità in termini di impatto ambientale. Come afferma Carlo Petrini, fondatore dell’associazione Slow Food, lo studio che è uscito in questi giorni deve “porgerci il destro per affermare ancora una volta che sobrietà, diversificazione e consapevolezza devono essere il nostro faro per approcciare il cibo in maniera matura, informata e rispettosa”. Limitare il consumo di carne fa bene all’ambiente, fa bene alla nostra salute, fa bene agli animali, fa bene a tutti!
Fa bene all’ambiente
L’impatto ambientale di un allevamento convenzionale può essere molto pesante. Principalmente si tratta di allevamenti industriali standard, ma anche gli allevamenti di piccola scala possono avere una ricaduta negativa sull’ambiente. Se non è utilizzato come concime, il letame prodotto dagli animali è tanto abbondante da provocare problemi di inquinamento e il mangime arriva da coltivazioni intensive, che impiegano pesticidi e fertilizzanti dannosi per l’ambiente e spesso distano migliaia di chilometri dalle zone di allevamento. Gli allevamenti industriali inquinano acqua, suolo e aria e contribuiscono in maniera significativa alle emissioni di gas serra, al cambiamento climatico e all’abbattimento di foreste per fare spazio ai pascoli e alle monocolture da cui ottenere mangimi. L’allevamento industriale inoltre, ha favorito il ricorso all’impiego di razze e di ibridi più produttivi e adatti alla stabulazione fissa, contribuendo in misura rilevante alla scomparsa o all’abbandono di molte razze animali autoctone, le cui caratteristiche sono legate a un territorio più o meno vasto in cui si sono sviluppate o si sono naturalmente adattate nel corso del tempo. Le razze autoctone sono più adatte alle condizioni climatiche, geografiche e socioeconomiche del territorio e, anche in ambienti estremi, hanno bisogno di meno cure e meno cibo. Per queste ragioni, la Fao ritiene il settore zootecnico quale maggiore responsabile della perdita di biodiversità complessiva del nostro pianeta.
Gli allevamenti tradizionali di piccola scala, invece, possono essere gestiti in modo più sostenibile: l’erba e il fieno possono dal territorio sul quale gli animali sono allevati, così come i cereali e leguminose necessari per nutrirli, il che permette di farli crescere a densità minori e di impiegare il loro letame come fertilizzante per i campi.
Diamo i numeri…
Il settore zootecnico è uno dei principali responsabili della produzione di gas serra. L’allevamento di animali genera, secondo la Fao, il 18% delle emissioni totali di gas serra nell’atmosfera. Una percentuale molto alta se paragonata alle emissioni dovute ai trasporti, responsabili del 13% delle emissioni, e alla produzione di energia, responsabile del 26%. Secondo il World Watch Institute, invece, l’incidenza dell’allevamento è addirittura del 51%, perché occorre tenere conto nelle valutazioni dell’ossigeno necessario agli animali per vivere, del mancato impiego del terreno per produrre cibo per gli esseri umani o per ospitare le foreste. Il calcolo del WWI tiene conto anche dell’energia usata per cucinare la carne, per la produzione, la distribuzione e il packaging dei prodotti di origine animale e dell’energia necessaria per produrre medicinali veterinari. In termini di impronta idrica, si calcola che in un allevamento convenzionale siano necessari circa 15.500 litri di acqua per ottenere un chilo di carne di manzo (calcolando quanta ne serve per allevare gli animali e irrigare i campi in cui si coltivano i mangimi), 3920 per un chilo di pollo. Circa 3,5 miliardi di ettari di terra (ossia il 70% della terra coltivabile del pianeta) sono destinati alla produzione animale. Di questi, 470 milioni sono riservati alla coltivazione di cereali e leguminose per la produzione di mangimi. L’allevamento del bestiame, insieme all’industria del legname, è una delle cause principali della deforestazione nella regione amazzonica.
Fa bene alla nostra salute
Di proteine e grassi animali, nei Paesi sviluppati, ne mangiamo troppi, tanto da ammalarci. Il consumo eccessivo di carne è associato – insieme ad altri fattori – a un aumento dell’obesità, alla comparsa di disturbi cardiovascolari e di alcune forme di cancro. Diete particolarmente ricche di grassi saturi sono collegate allo sviluppo di diabete di tipo 2 e ad alti livelli di colesterolo nel sangue.
L’uso eccessivo di antibiotici. Inoltre, negli allevamenti intensivi si somministrano antibiotici agli animali per prevenire le malattie, frequenti a causa degli ambienti angusti. Ma i batteri nel tempo sviluppano resistenze e gli antibiotici non riescono più a sopprimerli; possono trovarsi nel letame e di lì penetrare nel suolo per poi contaminare fiumi e laghi. Se non ci sono controlli adeguati sulla carne processata negli abbattitori questi batteri viaggiano, insieme alla carne, che percorre spesso tragitti lunghissimi prima di arrivare al nostro piatto… Salmonella, Escherichia coli e tanti altri batteri sono i globe trotters del nostro tempo. Ma non solo, gli antibiotici che sono presenti nella carne che consumiamo sono assimilati dagli esseri umani e per la medicina è sempre più complicato combattere anche una normale influenza. Nei piccoli allevamenti tradizionali non sono necessarie cure preventive pesanti come in quelli industriali e, in generale, gli animali si ammalano di meno. I prodotti di origine animale derivati da animali nutriti prevalentemente con erba o foraggio, invece che con mangimi industriali, sono più sani e gustosi.
Per prevenire l’insorgenza di queste malattie, sono due le mosse vincenti:
Diamo i numeri…
Secondo la Fao, nei paesi sviluppati ciascuno consuma mediamente 79,3 chili di carne all’anno –ogni cittadino degli Stati Uniti ne consuma mediamente 125, mentre ogni europeo ne mangia circa 74. Nei paesi in via di sviluppo, invece, ci si attesta su un consumo annuale medio di 33,3 chili, ma il trend è in crescita. Si calcola che in Cina ogni anno 100.000 tonnellate di antibiotici siano somministrate agli animali di allevamento. Negli Stati Uniti l’80% dei vaccini prodotti è destinato al settore dell’allevamento.
Fa bene agli animali
Nel 2007 il Trattato di Lisbona sottoscritto dai paesi dell’Unione Europea ha ufficialmente riconosciuto agli animali lo status di esseri senzienti che, in quanto tali, acquisiscono diritti e tutele, ed equiparando di fatto il benessere animale ad altri princìpi etici come la parità tra sessi, la tutela della salute umana e la protezione sociale… Eppure, nel sistema attuale gli animali continuano a pagare un prezzo elevato.
Gli allevamenti convenzionali riducono gli animali a mere macchine, a merci: essi sono costretti in gabbie strettissime o confinati in spazi ridotti dove trascorrono una vita breve quanto dolorosa. Nel corso della loro esistenza, gli animali subiscono varie mutilazioni: viene spuntato loro il becco, viene mozzata loro la coda o le ali, sono spesso castrati senza anestesia, decornificati a 5-6 settimane di vita poiché lo stress prodotto dalla reclusione e dalla condanna a uno stile di vita innaturale non li induca a ferire gli altri animali. Infine, il trasporto al macello richiede spesso molte ore di viaggio in condizioni di grande sofferenza. Strappati al loro ambiente abituale, e affidati a operatori spesso impreparati, gli animali accusano stress e tensioni di ogni genere.
Il benessere animale è sempre più importante per i consumatori, tanto da renderli disponibili a modificare le proprie abitudini alimentari, privilegiando cibi prodotti con maggiore rispetto degli animali. In Europa, il 62% dei consumatori lo ha dichiarato in un’indagine effettuata dalla Commissione Europea, mentre in un sondaggio effettuato da Slow Food fra i propri soci europei la percentuale è stata anche maggiore: l’87%.
Diamo i numeri…
La Tyson Food è la prima compagnia mondiale per la produzione di carne e la seconda nella lavorazione di carni avicole, suine. Settimanalmente l’azienda macella 42 milioni di polli, 170.000 bovini e 350.000 suini. Nei Paesi asiatici, dal 2005 al 2010, il numero di polli macellati è passato da 5,3 a 7,3 miliardi. E il loro allevamento si sta sempre di più concentrando nei grandi allevamenti. Nel 1998 le aziende con meno di 2000 capi producevano il 62% dei polli; nel 2009 la percentuale era scesa al 30%. Nel mondo, ben più del 95% della carne sul mercato proviene da allevamenti industriali, mentre in Europa la percentuale si aggira intorno all’80%.
Fa bene a tutti!
Secondo la Fao, i prezzi del cibo nel 2010 hanno raggiunto i livelli più alti mai registrati dagli anni Novanta. È assodato che l’aumento del consumo di carne è uno dei motivi principali delle recenti crisi alimentari. La crescita della domanda di beni agricoli, infatti, è dovuta non solo alla crescita demografica, ma anche all’uso di questi per fini diversi dall’alimentazione umana (foraggio e biocarburante), alla svalutazione del dollaro, all’aumento del costo del petrolio e alle speculazioni finanziarie. Nel Sud del mondo, il consumo di carne è un lusso e la fame è la prima causa di morte. La fame non è una catastrofe naturale, ma la conseguenza di politiche ingiuste, di egoismi, sfruttamenti e indifferenza. Moderando i nostri comportamenti, nel mondo ci sarebbe carne sufficiente (e dunque territorio, acqua e aria) per le esigenze di tutti.
Diamo i numeri…
Al mondo siamo più di sette miliardi e la produzione attuale basta a sfamarne dieci. Tuttavia oltre un miliardo di persone non ha accesso al cibo o è denutrita.
(Fonte: slowfood)
Le carni Made in Italy sono più sane, perché magre, non trattate con ormoni e ottenute nel rispetto di rigidi disciplinari di produzione “Doc” che assicurano il benessere e la qualità dell’alimentazione degli animali tanto da garantire agli italiani una longevità da primato con 84,6 anni per le donne e i 79,8 anni per gli uomini. Lo afferma la Coldiretti precisando che “il rapporto Oms è stato eseguito su scala globale su abitudini alimentari molto diverse, come quelle statunitensi che consumano il 60% di carne in più degli italiani”.
Non si tiene peraltro conto, spiega la Coldiretti, che gli animali allevati in Italia non sono uguali a quelli allevati in altri Paesi e che i cibi sotto accusa come hot dog, bacon e affumicati non fanno parte della tradizione italiana.
Il consumo di carne degli italiani con 78 chili a testa è ben al di sotto di quelli di Paesi come gli Stati Uniti con 125 chili a persona o degli australiani con 120 chili, ma anche dei cugini francesi con 87 chili a testa. Gli italiani mangiano in media 2 volte la settimana 100 grammi di carne rossa (e non tutti i giorni) e solo 25 grammi al giorno di carne trasformata.
E dal punto di vista qualitativo la carne italiana è meno grassa e la trasformazione in salumi avviene naturalmente solo con il sale senza l’uso dell’affumicatura messa sotto accusa dall’Oms.
Proprio quest’anno peraltro, secondo l’analisi della Coldiretti, la carne ed è diventata la seconda voce del budget alimentare delle famiglie italiane dopo l’ortofrutta con una rivoluzione epocale per le tavole nazionali che non era mai avvenuta in questo secolo. La spesa degli italiani per gli acquisti è scesa a 97 euro al mese per la carne che, con una incidenza del 22% sul totale, perde per la prima volta il primato.
Il settore agroalimentare in Italia contribuisce a circa il 10-15% del prodotto interno lordo annuo, con un valore complessivo pari a circa 180 miliardi di euro. Di questi, sottolinea l’Associazione Industriali delle Carni e dei Salumi (Assica), circa 30 miliardi derivano dal settore delle carni e dei salumi, includendo sia la parte agricola che quella industriale. I settori considerati danno lavoro a circa 125.000 persone a cui va aggiunto l’indotto.