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Il prezzo della felicità



Angus Deaton, premio Nobel 2015 per l’Economia per i suoi studi sui consumi, la povertà ed il welfare, nel 2009 ha scoperto che la soglia della felicità è a quota 75mila dollari. In un celebre studio condotto nel 2010 insieme a un altro celebre premio Nobel per l’Economia (Daniel Kahneman), Deaton giunge alla conclusione che un reddito familiare annuo più alto di 75mila dollari, circa 66mila euro, non è correlato a un aumento del well-being, ovvero del benessere emotivo, un aspetto molto importante della felicità individuale. Dunque, ha senso affannarsi per accrescere le proprie finanze, ma col senso della misura. Anche perché, in caso contrario, i risvolti sono negativi per la società nel suo complesso.

La domanda di consumo nell’analisi di Deaton. Il premio Nobel per l’economia è stato attribuito ad Angus Deaton per i suoi contributi fondamentali all’analisi della domanda di consumo. Il consumo è la componente principale della domanda aggregata e quindi studiarlo coglie alcuni tra gli aspetti principali del sistema economico. Per la profondità dell’analisi e la capacità di sottoporre a verifica empirica le ipotesi teoriche, Deaton rappresenta davvero un esempio di economista completo. Le motivazioni del premio sono tre.

In primo luogo si ricorda l’analisi della domanda di singoli beni e la formulazione, insieme a John Muellbauer, del cosiddetto “almost ideal demand system” in un contributo del 1980. Un sistema di domanda mette in relazione la quantità domandata di ciascun bene con il prezzo di tutti gli altri beni, il reddito del consumatore e caratteristiche demografiche, come età e composizione del nucleo familiare. Il modello empirico di Deaton e Muellbauer ha dato luogo a numerosissime applicazioni ed estensioni nei decenni successivi, ed è ancor oggi largamente utilizzato per valutare l’effetto delle politiche economiche e la costruzione degli indici dei prezzi.

Il secondo contributo fondamentale di Deaton riguarda le scelte intertemporali di consumo e la generalizzazione dell’ipotesi del ciclo vitale di Franco Modigliani e della teoria del reddito permanente di Milton Friedman, considerando esplicitamente anche l’incertezza sui redditi da lavoro, i vincoli nel mercato del credito e la differenza tra comportamento dei singoli consumatori e comportamento aggregato. La teoria di Modigliani e Friedman consiste in un modello di scelte del consumatore basato sull’idea che le persone hanno una forte preferenza per la stabilità del flusso di consumo nel tempo. I consumatori risparmiano parte del reddito per far fronte alle loro esigenze di consumo quando il reddito si riduce, oppure si indebitano quando il reddito è relativamente basso per sostenere i consumi correnti e restituire il debito quando il reddito sarà tornato ai livelli normali. In altre parole, secondo la teoria, risparmia chi si aspetta una riduzione di reddito, e si indebita colui che se ne aspetta un aumento. In una serie di contributi tra gli anni Ottanta e Novanta, Deaton ha proposto modelli del consumo più sofisticati, in grado di incorporare nell’analisi delle scelte intertemporali anche il cosiddetto movente precauzionale al risparmio (cioè, il fatto che l’incertezza sul reddito futuro ne rappresenta un ulteriore, importante movente) e dei vincoli che i consumatori incontrano nel mercato del credito (e cioè il fatto che non tutti riescono ad accedere a prestiti per finanziare i consumi), oltre che l’interazione tra incertezza sul reddito e vincoli sul mercato del credito (cioè il fatto che i consumatori non riducono la propria ricchezza a livelli molto bassi per evitare il rischio di non ottenere un prestito in caso di caduta imprevista del reddito).

La dinamica della disuguaglianza. In un altro contributo importante, insieme a Chris Paxson, Deaton estende la teoria del consumo per studiare la dinamica della disuguaglianza nel corso del tempo, verificando empiricamente il fatto che durante la vita lavorativa di una generazione, la disuguaglianza dei consumi aumenta per effetto delle diverse traiettorie di reddito dei singoli individui. Parte del rischio di reddito è assicurata dal sistema di welfare e da trasferimenti tra famiglie; in ciascun paese la dinamica della disuguaglianza dei consumi riflette quindi non solo la dinamica dei redditi, ma anche l’importanza delle istituzioni sociali e delle famiglie per la protezione dei rischi individuali. Questo contributo è stato fondamentale per capire le differenze tra paesi o nel tempo della disuguaglianza dei consumi, ed è stato applicato, con varie estensioni, a molti paesi, sia industrializzati sia in via di sviluppo.

In tutti i suoi studi, l’analisi di Deaton non si limita dunque alle scelte di un singolo individuo considerato isolatamente, ma considera con la massima attenzione il cosiddetto problema dell’aggregazione, mettendo in risalto il fatto che solo in circostanze eccezionali e non realistiche il comportamento dei singoli coincide con il comportamento del consumo aggregato, o di un individuo che fittiziamente rappresenta tutti i consumatori.

L’implicazione fondamentale è che per studiare il comportamento individuale occorre disporre di dati sui bilanci delle singole famiglie; non sono sufficienti, e a volte sono addirittura fuorvianti, le analisi basate sui consumi aggregati, prevalenti negli anni Settanta e Ottanta.

La terza motivazione per il Nobel è quella di aver fornito strumenti statistici agli economisti applicati per verificare le teorie del consumo con dati sui bilanci delle famiglie, ad esempio dimostrando che è possibile studiare alcuni comportamenti di consumo utilizzando indagini ripetute nel tempo su individui diversi, quando non si dispone – come spesso accade nei paesi in via di sviluppo – di indagini sugli stessi individui intervistati più volte nel corso del tempo.

Deaton ha dimostrato una straordinaria capacità di essere, allo stesso tempo, un raffinato teorico, un eccellente statistico e uno studioso attento ai fenomeni economici e sociali. Per il suo intuito, la capacità di formulare ipotesi verificabili empiricamente, imparare dai dati economici e trasmettere un metodo di ricerca rigoroso, in cui analisi teorica ed empirica vanno di pari passo, è uno dei maggiori protagonisti del dibattito economico degli ultimi tre decenni. I suoi contributi hanno influenzato un’intera generazione di studiosi del consumo e delle scelte intertemporali (e tra essi alcuni italiani). E anche per questo gli siamo grati”. lavoce

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Chiudono 100 imprese al giorno

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Tempi sempre più bui per le imprese italiane. Secondo la Confesercenti nei primi otto mesi dell’anno il saldo delle imprese è negativo per 24.167 unità: sono state aperte 28.929 e ne sono state chiuse ben 53.096. Questo significa che ne sono sparite circa 100 al giorno. Alla ripresa non crede più nessuno, per il 55% siamo entrati in una fase di stagnazione e per il 45% la crisi continua e nel futuro peggiorerà. Per la fine del 2014 solo il 7% delle imprese pensa che la situazione migliorerà, per il 57% resterà invariata e per il 36% peggiorerà. Solo nel bimestre luglio-agosto 2014 circa 5.400 imprese del commercio al dettaglio hanno cessato l’attività (2.600 sono le nuove aperture).

Le nuove attività sembrano destinate ad avere una vita sempre più breve, secondo l’organizzazione delle piccole e medie imprese del commercio e del turismo la crisi ha accorciato notevolmente la vita delle imprese del commercio: a giugno 2014 oltre il 40% delle attività aperte nel 2010, circa 27mila imprese, è già sparito, bruciando un capitale di investimenti di circa 2,7 miliardi di euro. Un’impresa su quattro dura addirittura meno di tre anni.

Chiudono anche imprese che hanno una lunga storia imprenditoriale alle spalle. La nostra associazione ha attivato diversi servizi per aiutare gli imprenditori in difficoltà, ma non tutti richiedono un’assistenza. A volte per pudore: per molti la chiusura dell’attività in cui hanno lavorato per tutta la vita, magari insieme alla famiglia, è una sconfitta personale. Per questo qualcuno chiude senza clamore, magari approfittando delle ferie. In qualche caso è stato il mancato rinnovo della tessera all’associazione ad annunciarci la scomparsa di un’impresa. L’avvio del 2014 è stato peggiore di quanto ci aspettassimo. Anche la stagione dei saldi ha avuto risultati generalmente al di sotto delle aspettative, anche se con grandi differenze territoriali. Siamo entrati nel terzo anno di crisi del commercio, e molte imprese semplicemente non ce la fanno più, schiacciate dalla diminuzione dei consumi delle famiglie e l’aumento della pressione fiscale. Spaventa, inoltre, la doppia batosta Tari/Tasi. Come se non bastasse, sui piccoli commercianti si è abbattuta dal 2012 anche la liberalizzazione delle aperture del commercio. Introdotta dal Salva-Italia del Governo Monti con lo scopo di rilanciare consumi e occupazione, è stata un vero flop: i previsti effetti benefici sono tuttora ‘non pervenuti’, ed il settore ha perso tra il 2012 e il 2013 oltre 100mila posti di lavoro tra imprenditori e dipendenti, registrando allo stesso tempo 28,5 miliardi di minori consumi di beni da parte delle famiglie”. Mauro Bussoni, Segretario Generale Confesercenti

Altro che ripresa alle porte e luce in fondo al tunnel.

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Il nuovo Pil, Prodotto Interno Lurido

Pil-droga-prostituzione

“In questi anni la nostra dipendenza dal Pil è aumentata sempre di più. Non vorrei essere frainteso. Il Pil non è un numero da prendere e buttare, non fosse altro perché aumenta insieme all’occupazione e al reddito delle persone. Dobbiamo però uscire dalla logica perversa secondo la quale il Pil deve crescere a tutti i costi, perché è il riferimento principale per i mercati finanziari e le agenzie di rating e perchè ci consente di tenere sotto controllo i parametri della finanza pubblica (il deficit e il debito), divenuti sempre più stringenti con il fiscal compact e i vincoli imposti dai regolamenti europei. E’ da tempo riconosciuto che il Pil misura l’insieme delle attività economiche in termini monetari, ma non il benessere e il reale progresso di un Paese.

I cittadini, infatti, non percepiscono il Pil come un’entità in grado di modificare il loro standard di vita, a differenza di altri eventi che li toccano più da vicino, come l’insicurezza del posto di lavoro, il degrado ambientale, la difficoltà ad accedere ai servizi sanitari pubblici, la carenza di posti all’asilo nido o la riduzione del tempo pieno a scuola. E, siccome il Pil ignora tutto ciò che non ha un valore di mercato, si escludono le attività non remunerate: la produzione domestica, le cure prestate ai bambini o agli anziani, il volontariato, e così via.

Inoltre, poiché non distingue le spese in base alla loro utilità, cresce anche se aumentano gli incidenti stradali, la criminalità, i costi sociali e sanitari conseguenti all’inquinamento dell’aria, della terra e dell’acqua. E se l’inverno è stato più mite e si è risparmiato sul riscaldamento il Pil ne soffre.

Ma, cosa forse ancora più grave, non distingue i consumi rispetto alla loro sostenibilità nel tempo, come l’uso di risorse non rinnovabili, il deterioramento dell’ambiente e la perdita della biodiversità. Il Pil aumenta anche se distruggiamo le ricchezze naturali sottraendole alle generazioni future. Dovremmo poter distinguere tra Pil “buono” e Pil “cattivo” e utilizzare solo il primo come parametro di valutazione della politica economica. E invece no. Tutto fa Pil, tutto ciò che smuove moneta è considerata crescita.

Ora abbiamo appreso dall’Istat che, secondo le regole internazionali del nuovo sistema dei conti economici (SEC 2010), saranno conteggiate nel Pil anche le attività illegali: traffico di sostanze stupefacenti, servizi della prostituzione e contrabbando (sigarette, alcool). Forse sarebbe stato più saggio, anche per le indubbie difficoltà di misura, aggiungerle in via sperimentale senza influire sul Pil ufficiale. Ma, ormai, il dato è tratto.

Secondo le prime stime di Eurostat, il Pil italiano (anche quello degli anni passati) aumenterà tra l’1% e il 2%, ma bisognerà attendere il 3 ottobre per conoscere le cifre ufficiali. Certamente scenderanno i rapporti debito/Pil e deficit/Pil dando un minimo di respiro al percorso di consolidamento fiscale. Ma a quale prezzo visto che ad aumentare è solo il Pil “cattivo”?

Supponendo che in Italia le attività illegali siano superiori alla media europea, finiremo per finanziare ancora di più il bilancio dell’Unione europea. Alcune regioni svantaggiate, in cui si concentrano maggiormente determinate attività illegali, vedranno crescere più di altre il proprio Pil; saranno considerate più ricche e rischieranno di vedersi ridotta l’assegnazione dei fondi strutturali.

La lotta alla prostituzione, al traffico di stupefacenti e al contrabbando sarà antieconomica perché produrrebbe una caduta del Pil. Per favorire il rispetto dei parametri di Maastricht sarà meglio chiudere un occhio e lasciar prosperare le attività illegali. Paradossalmente, il sequestro di una ingente partita di droga o una retata di prostitute nuocerebbero all’economia e potrebbero far cadere le borse o salire lo spread.

Ci vuole poco per rendersi conto che una siffatta visione della realtà economica, che insegue solo i movimenti di denaro è priva di senso etico, pericolosa e non ha nulla a che vedere con il benessere, il progresso sociale e la qualità della vita.” Franco Mostacci

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