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Il debito pubblico greco è illegale, illegittimo e odioso



“La Grecia si trova a un bivio, dovendo scegliere se proseguire con i programmi di aggiustamento macroeconomico imposti dai creditori o effettuare un cambiamento reale per spezzare le catene del debito. A distanza di 5 anni da quando i programmi di aggiustamento cominciarono, il paese resta profondamente immerso in una crisi economica, sociale, democratica ed ecologica. La scatola nera del debito è rimasta chiusa, e finora nessuna autorità, né greca né internazionale, ha cercato di far luce su come e perché la Grecia sia stata assoggettata al regime della Troika. Il debito, nel cui nome non è stato risparmiato niente, rimane la regola attraverso la quale viene imposto l’aggiustamento neoliberale e la recessione più profonda e prolungata mai vissuta dall’Europa in tempo di pace.

Esiste un bisogno immediato e una responsabilità sociale di indirizzare una gamma di questioni legali, sociali ed economiche che pretendono adeguata considerazione. La risposta del Parlamento Ellenico è stata di istituire, in aprile del 2015, il Comitato per la Verità sul Debito Pubblico, incaricato di investigare la creazione e la crescita del debito pubblico, il modo e i motivi per i quali il debito è stato contratto, e l’impatto che le condizioni legate ai prestiti hanno avuto sull’economia e la popolazione. Il Comitato per la Verità ha il mandato di diffondere la consapevolezza delle questioni riguardanti il debito greco, sia all’interno che internazionalmente, e di formulare argomentazioni e opzioni pertinenti la cancellazione del debito.

La ricerca del Comitato presentata in questo resoconto preliminare fa luce sul fatto che l’intero programma di aggiustamento, al quale la Grecia è stata assoggettata, era e rimane un programma orientato politicamente. L’esercizio tecnico che circonda le variabili macroeconomiche e le proiezioni di debito, cifre legate direttamente alle vite e al sostentamento delle persone, ha fatto sì che le discussioni sul debito restassero a un livello tecnico, basandosi soprattutto sulla tesi che le politiche imposte alla Grecia avrebbero migliorato la sua capacità di ripagare il debito. I fatti presentati in questo resoconto contestano tale tesi.

Tutte le prove da noi presentate in questo resoconto mostrano che la Grecia non solo non ha la capacità di pagare questo debito, ma anche che non dovrebbe pagarlo, prima di tutto perché il debito conseguente alle disposizioni della Troika è una diretta violazione dei fondamentali diritti umani degli abitanti della Grecia. Siamo perciò pervenuti alla conclusione che la Grecia non dovrebbe ripagare questo debito in quanto esso è illegale, illegittimo e odioso.

Il Comitato ha anche compreso che l’insostenibilità del debito pubblico greco era evidente fin dall’inizio ai creditori internazionali, alle autorità greche e ai grandi media. Eppure le autorità greche, insieme ad altri governi dell’UE, cospirarono nel 2010 contro la ristrutturazione del debito pubblico per proteggere le istituzioni finanziarie. I grandi media nascosero la verità al pubblico dipingendo una situazione in cui il salvataggio avrebbe avvantaggiato la Grecia, costruendo al contempo una narrativa secondo la quale la popolazione raccoglieva giustamente il frutto dei propri errori.

I fondi per il salvataggio forniti in entrambi i programmi del 2010 e 2012 sono stati gestiti esternamente tramite schemi complicati che hanno prevenuto ogni autonomia fiscale. L’uso del denaro del salvataggio è strettamente dettato dai creditori, e perciò è indicativo che meno del 10% di questi fondi sia stato destinato alle spese correnti del governo.

Questo rapporto preliminare presenta una prima individuazione dei problemi principali e delle questioni associate con il debito pubblico, e nota cruciali violazioni legali associate con la contrazione del debito; inoltre tratteggia le fondazioni legali sulle quali si può basare la sospensione unilaterale dei pagamenti. I risultati sono presentati in 9 capitoli strutturati come segue:

– Capitolo 1: Debito prima della Troika, analizza la crescita del debito pubblico greco dagli anni ’80, e conclude che l’aumento del debito non fu dovuto a una spesa pubblica eccessiva, di fatto inferiore a quella di altri paesi dell’Eurozona, ma al pagamento di interessi ai creditori a tassi estremamente alti, a spese militari eccessive e ingiustificate, a perdita di gettito fiscale dovuta a esportazioni illecite di capitale, a ricapitalizzazioni statali di banche private, e agli squilibri internazionali creati dai difetti intrinseci della stessa Unione Monetaria.

L’adozione dell’euro portò a un drastico aumento del debito privato, al quale erano esposte importanti banche europee, così come le banche greche. Una crescente crisi bancaria contribuì alla crisi del debito sovrano greco. Il governo di George Papandreou contribuì a presentare la crisi bancaria come una crisi del debito sovrano quando nel 2009 aumentò il deficit e il debito pubblico.

Capitolo 2: Evoluzione del debito pubblico greco dal 2010 al 2015, conclude che il primo accordo sul prestito del 2010 mirava soprattutto a salvare le banche greche e altre banche private europee, e a permettere alle banche di ridurre la loro esposizione ai titoli di stato greci.

Capitolo 3: Debito pubblico greco per creditore nel 2015, presenta la controversa natura dell’attuale debito greco, delineando le caratteristiche principali dei prestiti, analizzate in dettaglio nel Capitolo 8.

Capitolo 4: Il meccanismo del sistema del debito in Grecia, rivela i meccanismi previsti dagli accordi implementati da maggio 2010. Essi crearono un sostanziale ammontare di nuovo debito verso creditori bilaterali e il Fondo Europeo di Stabilità (EFSF), generando al contempo costi abusivi e peggiorando ulteriormente la crisi. I meccanismi rivelano come la maggioranza dei fondi presi a prestito furono trasferiti direttamente alle istituzioni finanziarie. Anziché avvantaggiare la Grecia, essi hanno accelerato il processo di privatizzazioni tramite l’uso di strumenti finanziari.

Capitolo 5: Condizioni contro la sostenibilità, descrive il modo in cui i creditori imposero condizioni invasive che portarono direttamente all’insostenibilità del debito. Tali condizioni, sulle quali i creditori tuttora insistono, hanno non solo contribuito ad abbassare il PIL e ad alzare l’indebitamento pubblico, portando quindi a un maggiore rapporto debito/PIL, ma hanno anche disegnato cambiamenti drammatici nella società e provocato una crisi umanitaria. Il debito pubblico greco può essere ora considerato totalmente insostenibile.

Capitolo 6: Impatto dei ‘programmi di salvataggio’ sui diritti umani, conclude che le misure implementate con i ‘programmi di salvataggio’ hanno influenzato direttamente le condizioni di vita delle persone e violato i diritti umani che, secondo il diritto nazionale, regionale e internazionale, la Grecia e i suoi partner sono obbligati a rispettare, proteggere e promuovere. I drastici aggiustamenti imposti all’economia greca e alla società nel suo insieme hanno portato a un rapido deterioramento degli standard di vita, e restano incompatibili con la giustizia sociale, la coesione sociale, la democrazia e i diritti umani.

Capitolo 7: Questioni legali pertinenti il MOU e gli accordi di prestito, sostiene che si è avuta una violazione dei diritti umani da parte della stessa Grecia e dei prestatori, ovvero degli stati creditori dell’Eurozona, della BCE e del FMI, che hanno imposto tali misure alla Grecia. Tutti questi attori non hanno valutato le violazioni dei diritti umani conseguenti alle politiche da loro imposte alla Grecia, e hanno inoltre violato direttamente la costituzione greca privandola di fatto di gran parte dei suoi diritti sovrani. Gli accordi contengono clausole abusive che costringono la Grecia a rinunciare a elementi importanti della sua sovranità. Questo è evidente nella scelta del diritto britannico, che facilitò l’aggiramento della costituzione greca e dei diritti umani internazionali. Incompatibilità con i diritti umani e gli obblighi consuetudinari, numerosi indizi di malafede nelle parti contraenti, e carattere immorale di questi accordi, rendono questi ultimi invalidi.

Capitolo 8: Valutazione dei debito rispetto all’illegittimità, l’odiosità, l’illegalità e l’insostenibilità, fornisce una valutazione del debito pubblico greco secondo le definizioni di ‘illegittimo’, ‘odioso’, ‘illegale’ e ‘insostenibile’ adottate dal Comitato. Il capitolo conclude che a giugno 2015 il debito pubblico greco è insostenibile, poiché la Grecia non è attualmente in grado di ripagare il debito senza minare la sua capacità di assolvere i più elementari obblighi relativi ai diritti umani. Inoltre il resoconto fornisce per ogni creditore le prove di casi rivelatori di debiti illegali, illegittimi e odiosi.

debito-pubblico-ateneIl debito verso il FMI dovrebbe essere considerato illegale poiché la sua concessione violò lo stesso statuto del FMI, e le sue condizioni violarono la costituzione greca, il diritto consuetudinario internazionale e i trattati che la Grecia ha sottoscritto. E’ anche illegittimo, perché le condizioni includono prescrizioni politiche che violano gli obblighi relativi ai diritti umani. Infine è odioso, in quanto l’FMI sapeva che le misure imposte erano antidemocratiche, inefficaci, e avrebbero portato a gravi violazioni dei diritti socio-economici.

I debiti verso la BCE dovrebbero essere considerati illegali poiché la BCE ha scavalcato il suo mandato imponendo l’applicazione di programmi di aggiustamento macroeconomico (ad esempio la deregolamentazione del mercato del lavoro) tramite la sua partecipazione nella Troika. I debiti verso la BCE sono anche illegittimi e odiosi, perché la principale ragione d’essere del Securities Market Programme (SMP) era di fare gli interessi delle istituzioni finanziarie, permettendo alle principali banche private europee e greche di disfarsi dei titoli di stato greci.

L’EFSF si impegna in prestiti senza contante che dovrebbero essere considerati illegali perché in violazione dell’articolo 122 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFEU), oltre a numerosi diritti socio-economici e libertà civili. Per di più, l’Accordo Strutturale sull’EFSF del 2010 e il Master Financial Assistance Agreement del 2012 contengono diverse clausole abusive che rivelano chiaramente cattiva condotta da parte del prestatore. L’EFSF agisce anche contro i principii democratici, rendendo questi debiti particolari illegittimi e odiosi.

I prestiti bilaterali dovrebbero essere considerati illegali perché violano la procedura prevista dalla costituzione greca. I prestiti comportavano chiaramente cattiva condotta da parte dei prestatori, e contenevano condizioni che contravvenivano il diritto o la politica pubblica. sia il diritto dell’UE che quello internazionale sono stati violati per mettere da parte i diritti umani nel disegno dei programmi macroeconomici. I prestiti bilaterali sono anche illegittimi, in quanto non sono stati usati a beneficio della popolazione, ma solo per permettere ai creditori privati della Grecia di essere salvati. Infine, i prestiti bilaterali sono odiosi perché gli stati prestatori e la Commissione Europea erano consapevoli delle potenziali violazioni, ma nel 2010 e 2012 evitarono di valutare l’impatto sui diritti umani dell’aggiustamento macroeconomico e del consolidamento fiscale che costituivano le condizioni per i prestiti.

Il debito verso i creditori privati dovrebbe essere considerato illegale perché le banche private si comportarono in modo irresponsabile prima dell’istituzione della Troika, non osservando la dovuta diligenza, mentre alcune creditori privati come i fondi speculativi agirono anche in malafede. Alcune parti dei debiti verso le banche private e i fondi speculativi sono illegittime per le stesse ragioni per cui sono illegali; inoltre le banche greche furono illegittimamente ricapitalizzate dai contribuenti. I debiti verso le banche private e i fondi speculativi sono odiosi, perché i maggiori creditori privati erano consapevoli che questi debiti non erano contratti nell’interesse della popolazione ma piuttosto a loro proprio vantaggio.

Il resoconto si conclude con alcune considerazioni pratiche.

Il Capitolo 9: Fondazioni legali per il ripudio e la sospensione del debito sovrano greco, presenta le opzioni per la cancellazione del debito, in particolare le condizioni nelle quali, secondo il diritto internazionale, uno stato sovrano può esercitare il diritto di agire unilateralmente per ripudiare o sospendere il pagamento del debito. Esistono diversi argomenti legali che permettono a uno stato di ripudiare unilateralmente il suo debito illegale, odioso e illegittimo. Nel caso greco, tale atto unilaterale potrebbe basarsi sui seguenti argomenti: la malafede dei creditori che spinsero la Grecia a violare il diritto nazionale e internazionale pertinente i diritti umani; la prevalenza dei diritti umani su accordi come quelli firmati dai governi precedenti con i creditori o con la Troika; la coercizione; i termini iniqui in flagrante violazione della sovranità greca e della costituzione; e infine il diritto, riconosciuto dal diritto internazionale, di uno stato a prendere contromisure contro atti illegali dei suoi creditori che danneggino intenzionalmente la sua sovranità fiscale, lo obblighino a contrarre un debito odioso, illegale e illegittimo, e vìolino l’autodeterminazione economica e i diritti umani fondamentali. Per quanto concerne l’insostenibilità del debito, ogni stato ha per legge il diritto di invocare la necessità in situazioni eccezionali per salvaguardare gli interessi essenziali minacciati da un pericolo grave e imminente. In tale situazione, lo stato può essere dispensato dall’adempimento degli obblighi internazionali che aumentino il pericolo, come nel caso dei contratti di prestito. Infine, gli stati hanno il diritto di dichiararsi unilateralmente insolventi, ove il pagamento del debito risulti insostenibile, nel qual caso non commettono un atto ingiusto e non hanno di conseguenza responsabilità. La dignità delle persone vale di più di un debito illegale, illegittimo, odioso e insostenibile.

Avendo concluso un’indagine preliminare, il Comitato considera che la Grecia è stata ed è tuttora la vittima di un attacco premeditato e organizzato da parte del FMI, della BCE e della Commissione Europea. Questa missione violenta, illegale e immorale mirava esclusivamente a spostare il debito privato al settore pubblico.

Rendendo disponibile questo rapporto preliminare alle autorità e al popolo greco, il Comitato considera di aver adempito alla prima parte della sua missione come definita nella decisione del Presidente del Parlamento il 4 aprile 2015. Il Comitato spera che il resoconto sarà uno strumento utile a quanti vogliono uscire dalla logica distruttiva dell’austerità e difendere ciò che oggi è messo in pericolo: i diritti umani, la democrazia, la dignità dei popoli e il futuro delle generazioni a venire.

In risposta a quanti impongono misure ingiuste, il popolo greco potrebbe invocare ciò che Tucidide menzionò riguardo alla costituzione del popolo ateniese: “Di nome è chiamata una democrazia, perché l’amministrazione è gestita con in vista gli interessi dei molti, non dei pochi.” Tratto dall’intero resoconto dalla commissione parlamentare ellenica

>>Leggi il rapporto preliminare dell’inchiesta della Commissione “Verità sul debito pubblico” istituito alcuni mesi fa dal parlamento ellenico

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Il Tav non si farà mai!

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I Comitati del No Tav presentano il dossier inedito della Commissione Europea datato 5 marzo 2013 che sancisce il taglio da 700 a 395 milioni di Euro. Motivo? Lo spiega nel documento la Commissione Ue: “Visto il notevole ritardo dovuto a difficoltà amministrative e tecniche nella realizzazione dell’opera, la Ue ha previsto che entro il termine prefissato (31 dicembre 2015), si possa realizzare molto meno rispetto al progetto per cui sono stati richiesti i fondi”. Quindi anche raddoppiando la velocità, entro il 2015 sarà finita solo mezza galleria, mentre per completarla tutta si arriverebbe a febbraio 2018, fuori tempo massimo. 

Revocato metà del contributo europeo – Nel marzo 2013, la Commissione Europea ufficializza la revoca di parte del contributo assegnato al progetto Torino-Lione. La decurtazione del contributo è ingente: dai 671,8 milioni di € inizialmente concessi a 395,3 milioni di € (una riduzione del 41%). Il pesante ridimensionamento riguarda tutto il programma, il cui importo complessivo passa da 2,09 miliardi di € a soli 891 milioni di € (una riduzione del 57%).

Finanziamenti persi, addio ai lavori ma triplicano i costi di LTF – Pressoché azzerati 1,63 miliardi di € di lavori per l’avvio del vero Tunnel di Base (57 km). 150 milioni di € dirottati su perforazioni (non previste) nella cosiddetta Galleria di Saint Martin La Porte. Alle stelle il costo di LTF (oltre 75 milioni di €), “premiata” per la sua gestione fallimentare del contributo europeo, dimezzato dalla Commissione.

LTF cominciò a scavare quando già sapeva di non finire nei termini – Quando cominciano a scavare la Galleria de La Maddalena a Chiomonte, LTF e i due Governi sanno perfettamente che il contributo è stato dimezzato, che il termine previsto (fine 2016) andrà ben oltre il 31 dicembre 2015 e che tutte le spese effettuate dopo tale data non saranno ammesse dall’Unione Europea.

La Galleria di Chiomonte a metà? La talpa va passo di lumaca – Scavati 641 metri su 7451 totali. Ad oggi la “talpa” di LTF ha viaggiato a 2,5 metri al giorno (anziché i 10 previsti). Anche a velocità doppia, al 31 dicembre 2015 risulterà scavata solo metà galleria; tutta solo a febbraio 2018 (al di fuori dei termini del contributo europeo). L’UE paga la galleria completa, si rischiamo ulteriori perdite di contributi.

“Difficoltà amministrative e tecniche”, altro che No Tav – La Commissione Europea “registra un notevole ritardo dovuto a difficoltà amministrative e tecniche”, ovvero a carico del promotore LTF e dei Governi Italiano e Francese. I ritardi accumulati e le conseguenti riduzioni di finanziamento, da parte della Commissione Europea, non sono pertanto dipesi dal Movimento No Tav come, invece, sostengono la Procura della Repubblica ed il Tribunale di Torino nel qualificare quale atto di terrorismo il danneggiamento di un compressore.

La linea esistente prima di una nuova Torino – Lione: una buona notizia – “Infattibilità politica di proporre la costruzione di una nuova linea senza fare tutto il possibile affinché quella esistente torni a essere la principale arteria di trasporto in seguito ai lavori di ampliamento nel traforo ferroviario del Fréjus/Moncenisio”. A dirlo non è il Movimento No Tav bensì la Piattaforma del Corridoio Torino-Lione (Brinkhorst, Virano, LTF, i Governi…). Il Movimento NO TAV lo dimostra da anni, dati alla mano: la linea esistente è ampiamente sotto utilizzata non ostante il suo recente adeguamento che consente oggi il passaggio di treni merci di ogni tipo e dimensione. Anziché usare il Tav per fare carriera, i politici riflettano su quello che dicono.

Il patto del silenzio della burocrazia europea – Fino ad oggi la Decisione C(2013) 1376 della Commissione Europea è rimasta nascosta al legittimo controllo dei cittadini contribuenti. Solo la pressante azione del Movimento No Tav ha permesso di squarciare il velo sull’insuccesso di LTF e delle politiche dei Governi Italiano e Francese. Continua lo scandalo del silenzio sulla gestione della Torino-Lione, il Movimento No Tav prosegue la sua azione di garanzia.

Il dossier con la documentazione completa è disponibile al seguente indirizzo: http://www.presidioeuropa.net/blog/conferenza-stampa-tav-14-maggio-2014-dossier/

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Giustizia italiana: 500 giorni per una causa, tanti avvocati ma pochi giudici

Indipendenza della giustizia

Indipendenza della giustizia

In Italia ci vogliono in media 500 giorni per risolvere una causa civile e commerciale. Una controversia commerciale può durare più di tre anni. Nei paesi Ocse la media è di 500 giorni. Siamo terz’ultimi per la velocità dei processi, dietro Cipro e Malta. Recupero dei crediti? in Italia si impiegano quasi quattro anni. Meno della metà in Spagna. Un terzo in Inghilterra e Francia. Tempi biblici dei processi: 266 giorni in Cassazione, 288 in Tribunale, e ben 475 in Procura. L’Italia ha anche il record di processi pendenti: 7 ogni 100 abitanti, il doppio del secondo classificato. Per colpa di questa giustizia colabrodo le imprese perdono oltre due miliardi di euro l’anno.

La Commissione europea ha presentato oggi un nuovo strumento comparativo destinato a promuovere l’efficacia dei sistemi giudiziari nei 27 Stati membri dell’UE e quindi a rafforzare la crescita economica. “L’attrattiva di un paese come luogo in cui investire e fare impresa è indubbiamente maggiore se il sistema giudiziario è indipendente ed efficiente”, ha dichiarato Viviane Reding, Vicepresidente e Commissaria UE per la Giustizia. “Per questo motivo è importante che le decisioni delle autorità giudiziarie siano prevedibili, tempestive ed esecutive, e che le riforme nazionali dei sistemi giudiziari siano una componente strutturale essenziale della strategia economica dell’UE. Il nuovo quadro di valutazione europeo della giustizia fungerà da sistema di allarme rapido e servirà all’Unione e agli Stati membri per garantire una giustizia più effettiva al servizio dei cittadini e delle imprese”. Il quadro di valutazione europeo della giustizia 2013 contiene dati sui tempi necessari alla definizione delle cause in giudizio, sul tasso di cause definite, sul numero di cause pendenti, sull’uso di mezzi elettronici per la gestione del contenzioso, sull’uso di metodi alternativi per la risoluzione delle controversie, sulla formazione a disposizione dei giudici e sulle risorse assegnate ai tribunali. La giustizia non deve essere solo fatta, si deve anche vedere che è fatta: il quadro di valutazione raccoglie dati anche sulla percezione dell’indipendenza dei sistemi giudiziari, sulla base di dati del World Economic Forum e del World Justice Project.

L’efficacia dei sistemi giudiziari è fondamentale per la crescita: l’affidamento sul pieno rispetto dello Stato di diritto si traduce direttamente in fiducia ad investire. Inoltre, poiché i giudici nazionali svolgono un ruolo essenziale nel garantire il rispetto del diritto dell’Unione, l’efficacia dei sistemi giudiziari nazionali è altrettanto fondamentale per l’effettiva attuazione del diritto dell’Unione. Le carenze dei sistemi giudiziari nazionali, quindi, non solo sono un problema per lo Stato membro interessato, ma possono anche influire sul funzionamento del mercato unico europeo e sull’attuazione dei relativi strumenti fondati sul riconoscimento reciproco e la cooperazione, mettendo a repentaglio la tutela che i cittadini e le imprese si aspettano dall’esercizio dei loro diritti sanciti a livello dell’UE.

I risultati principali del primo quadro di valutazione sono i seguenti:

  • la durata dei procedimenti giudiziari varia notevolmente tra gli Stati membri: in un terzo di questi, essa è almeno doppia rispetto a quella della maggioranza degli Stati membri. I problemi possono aggravarsi quando un tasso basso di cause definite porta ad un aumento del numero di cause pendenti;
  • il monitoraggio e la valutazione servono a migliorare la celerità e la qualità della giustizia. Anche se la maggior parte degli Stati membri dispone di sistemi di monitoraggio, altri presentano ancora carenze;
  • i metodi di risoluzione alternativa delle controversie, come la mediazione, riducono il carico di lavoro dei tribunali e dovrebbero essere usati più diffusamente;
  • anche la percezione dell’indipendenza dei sistemi giudiziari nazionali varia molto da uno Stato membro all’altro. Benché vari Stati membri siano tra i primi 10 paesi al mondo in termini di percezione dell’indipendenza della giustizia, in altri il livello di questo indicatore espresso dalle imprese e dagli utenti finali dei sistemi giudiziari è decisamente basso.

Nel 2012 sono stati individuati sei Stati membri particolarmente problematici (Bulgaria, Italia, Lettonia, Polonia, Slovenia e Slovacchia), soprattutto per quanto riguarda la durata dei procedimenti giudiziari e l’organizzazione della magistratura. Le riforme nazionali dei sistemi giudiziari fanno parte integrante anche dei programmi di aggiustamento economico della Grecia, dell’Irlanda, della Lettonia e del Portogallo.

Durata dei procedimenti giudiziari in giorni - fonte: World Economic Forum

Durata dei procedimenti giudiziari civili – fonte: World Economic Forum

Numero di giudici per 100.000 abitanti fonte - studio CEPEJ

Numero di giudici per 100.000 abitanti fonte – studio CEPEJ

Numero di avvocati per 100.000 abitanti - fonte studio CEPEJ

Numero di avvocati per 100.000 abitanti – fonte studio CEPEJ


La giustizia italiana raccontata a un alieno. Complessa, contraddittoria, inapplicabile. La Giustizia italiana è un sistema precario. Che spesso lascia i cittadini smarriti, increduli di fronte all’incertezza della pena. Mentre il crimine, occasionale, organizzato o dissimulato, resta impunito. Molti uomini di legge, eroi quotidiani e sconosciuti, tentano di reagire: denunciano, indagano, resistono. E non si sottraggono alle proprie responsabilità, compresa quella di spiegare a un curioso extraterrestre come e perché in Italia la legge rischi di non essere uguale per tutti.

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Gli italiani vogliono un Premier donna

Tabella-Eurobarometro

I cittadini europei e italiani messi di fronte ad una scelta di genere riguardo la più alta carica politica del proprio paese non hanno dubbi: donna.La notizia arriva da una recente indagine della Commissione Europea . Su scala da 1 a 10 gli italiani esprimono un voto di 7,8 e la media EU 27 è di 8,6.

Anche il fattore età non è affatto un problema se pensiamo che l’apprezzamento per un under 30 gli italiani (6,7) superano addirittura la media europea (6,3).

L’indagine dimostra che i tempi stanno cambiando e che se nel nostro paese donne e giovani sono ancora troppo spesso lontani dalla stanza dei bottoni in realtà c’è un forte desiderio da parte della popolazione che le cose cambino al più presto. Sembra proprio che la crisi in atto abbia accelerato profondi mutamenti nel sentire comune, che hanno inciso sul recentissimo risultato elettorale e incideranno sugli scenari futuri.

Le discriminazioni stanno poi via via sbiadendo, se pensiamo che il giudizio verso un premier disabile è di 7,7 europei e 7,1 italiani, di religione minoritaria 6,8 e 6,2, un gay, lesbica o bisessuale 6,6 e 5,8: in questo caso l’Italia va sotto la sufficienza.

Sotto la sufficienza l’ipotesi di un over 75enne: italiani 5,6 e europei 5,4.

Per il presidente di Manageritalia Guido Carella “Non vi sono dubbi del forte cambiamento in atto nel vissuto e nei desiderata degli italiani e della accelerazione impressa dalla crisi. Il voto lo conferma e questi risultati, che il nostro centro studi ha scovato in vista della preparazione di un rapporto sulle donne italiane di prossima pubblicazione, lo amplificano e potrebbero anche essere indicativi di una delle possibili soluzioni all’impasse attuale. In ogni caso, la rivoluzione è in atto e noi delle donne e dei giovani non possiamo e dobbiamo più fare a meno, anzi dobbiamo fare di tutto per dar loro supporto e strumenti per prendersi lo spazio che meritano e del quale il Paese ha assoluto bisogno”.

(Fonte manageritalia)

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Vertici aziendali: Donna è meglio

Garantire alle donne regole chiare per accedere ai vertici aziendali non è solo giusto: è anche utile per la competitività economica dell’Europa. Alcuni studi hanno infatti dimostrato che le imprese più attente alle “quote rosa” rendono di più delle loro concorrenti. Ma finora i cambiamenti ai vertici sono stati lenti.

Attualmente i consigli d’amministrazione sono dominati da un unico genere, il maschile. L’85% degli amministratori senza incarichi esecutivi e il 91,1% di quelli con incarichi esecutivi sono uomini, mentre alle donne restano, rispettivamente, il 15% e l’8,9%. Nonostante l’intenso dibattito pubblico e alcune iniziative volontarie a livello nazionale ed europeo, negli ultimi anni non si sono registrati cambiamenti significativi: dal 2003 il numero di donne negli organi direttivi delle aziende è aumentato in media appena dello 0,6% all’anno. Nei CdA delle maggiori imprese europee quotate in borsa le donne rappresentano oggi circa il 14% dei membri (un amministratore su 7), rispetto al 12% nel 2010. A questo ritmo ci vorranno circa 40 anni prima di arrivare ad una situazione di equilibrio.

Per questo motivo la Commissione europea propone  un atto legislativo dell’UE diretto ad accelerare i progressi verso un maggiore equilibrio tra uomini e donne nei consigli delle società europee. Misure legislative sull’uguaglianza tra donne e uomini negli organi decisionali delle imprese, sono state chieste a più riprese, soprattutto nelle risoluzioni del 6 luglio 2011 e del 13 marzo 2012. Le proposte prevedono una quota minima del 40% per il sesso sottorappresentato tra i membri non esecutivi dei CdA delle maggiori imprese europee quotate in borsa. Queste misure si applicherebbero solo alle imprese quotate con 250 o più dipendenti e con un fatturato globale annuo superiore a 50 milioni di euro (circa 5 000 imprese). Le imprese pubbliche o quelle con una significativa partecipazione (e influenza) finanziaria da parte dello Stato dovranno raggiungere l’obiettivo entro il 2018. Le imprese al di sotto dell’obiettivo del 40% saranno tenute ad applicare norme chiare e imparziali e a scegliere i loro candidati in base alle qualifiche e al merito. A parità di qualifiche si dovrà dare la preferenza al sesso sottorappresentato, che nella maggior parte dei casi è quello femminile. Le misure sono temporanee e scadranno automaticamente nel 2028, quando l’equilibrio uomo-donna sarà presumibilmente diventato realtà.

Vari Stati europei hanno iniziato a introdurre diversi tipi di leggi per i consigli delle società. Undici Stati membri (Belgio, Francia, Italia, Paesi Bassi, Spagna, Portogallo, Danimarca, Finlandia, Grecia, Austria e Slovenia) hanno adottato strumenti giuridici per promuovere la parità di genere negli organi direttivi delle imprese. In otto di questi paesi, la normativa adottata copre le imprese pubbliche. Ma altri undici paesi dell’UE non hanno introdotto né misure di autoregolamentazione, né misure legislative.

Donne e uomini nei consigli di amministrazione delle più grandi società quotate, Gennaio 2012

José Manuel Barroso, presidente della Commissione europea, ha dichiarato: “Con questa proposta la Commissione europea risponde agli appelli pressanti del Parlamento europeo affinché l’Unione europea intervenga a favore della parità di genere negli organi decisionali delle imprese. Chiediamo alle grandi imprese quotate in tutta Europa di dimostrare un impegno serio per la parità tra uomini e donne negli organi responsabili delle decisioni economiche. Su mia iniziativa la Commissione ha potenziato in modo significativo la presenza femminile tra i suoi membri, un terzo dei quali sono donne.”

La Vicepresidente Viviane Reding, Commissaria per la giustizia, ha aggiunto: “Da più di cinquant’anni l’Unione europea promuove con successo l’uguaglianza tra donne e uomini, ma in un solo settore non ha registrato alcun progresso: gli organi direttivi delle imprese. L’esempio di paesi come il Belgio, la Francia e l’Italia, che recentemente hanno adottato misure legislative e ora cominciano a constatare dei miglioramenti, dimostra con chiarezza che un intervento normativo limitato nel tempo può cambiare veramente la situazione. La proposta della Commissione farà in modo che nella procedura di selezione degli amministratori senza incarichi esecutivi sia data la preferenza alle candidate, purché siano sotto-rappresentate rispetto agli uomini ed ugualmente qualificate.” “Sono grata ai numerosi membri del Parlamento europeo che non hanno mai smesso di combattere per questa causa e mi hanno fornito un aiuto prezioso per presentare la proposta.”


Fatti più in là. Donne al vertice delle aziende: le quote rosa nei CDA. In Svezia e in Spagna sono già legge, in Francia e in Germania un’ipotesi di lavoro. Le quote di genere per la composizione dei CDA infiammano il dibattito europeo e con la proposta di legge Golfo-Mosca sono all’ordine del giorno anche nel Parlamento italiano. Ma servono davvero le quote? E quali effetti avranno? La Costituzione, gli studi economici e le stime sono il punto fermo da cui il dibattito deve partire. Perché non si tratta più soltanto di una rivendicazione femminile: in gioco è la competitività del sistema economico italiano.

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