Quanto valgono i “cinesi d’Italia”? Sei miliardi di Pil

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I cittadini cinesi regolari residenti in Italia al 01 Gennaio 2016 sono 271 mila (nove su dieci provengono dallo Zhejiang), pari al 5,4% del totale degli stranieri. La componente femminile si attesta al 49,4%. I 271 mila cinesi residenti in Italia contribuiscono alla nostra economia con 6 miliardi di PIL e 250 milioni di euro di Irpef.

I cinesi sono ovunque, ma sono più presenti in alcune regioni: Lombardia (62 mila), Toscana, Veneto, Emilia-Romagna, Lazio, Piemonte. In forte aumento l’imprenditoria (+32% in cinque anni). In calo le rimesse verso il paese d’origine, segno di un maggiore investimento in Italia. È il quadro che emerge dal rapporto sul valore economico dei cinesi in Italia elaborato dalla Fondazione Leone Moressa, Studi e ricerche sull’economia dell’immigrazione. Continue Reading

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La mia gente dimenticata dallo Stato

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Edoardo Nesi, scrittore e deputato, dalle pagine de La Repubblica lamenta l’invasione di irregolari stranieri che annientano l’industria della sua zona. Un grido di aiuto inascoltato.

Quando l’elenco telefonico era ingolfato dai nomi orgogliosi e buffi di migliaia di aziende tessili, tutte piccole e piccolissime, e producevamo i tessuti più belli del mondo. Nella mia città l’arrivo del nuovo millennio non è stato festeggiato come nelle altre città: sapevamo bene che avrebbe portato l’apertura totale del mercato tessile mondiale, e con essa un’invasione di prodotti cinesi, e subito dopo la crisi, una crisi rapida e nera e disperata che ci avrebbe costretti ad assistere impotenti allo spettacolo osceno di centinaia di piccole e piccolissime aziende che avviavano a chiudere, una dopo l’altra, a centinaia, nel silenzio beffardo e cattivo che accompagna sempre il crollare delle aziende piccine, quelle in cui si fa fatica a distinguere il titolare dal dipendente, a vederli lavorare fianco a fianco; quelle i cui nomi non vanno a finire sui giornali nemmeno quando falliscono; quelle che hanno sempre sostenuto l’Italia. Nella mia città sappiamo bene quale ridicola truffa sia la globalizzazione, con i suoi profeti e le sue parole d’ordine, con le sue promesse di guadagni universali mai avverati, con gli economisti venerati come ayatollah, con la retorica marcia e falsa sull’eccellenza del Made in Italy, con la supremazia mistica che si attribuiva ai distretti industriali come il nostro, col mito della imbattibile qualità dei nostri tessuti, e le nicchie, e le punte di diamante, e gli esempi. Cazzate. Erano tutte cazzate. Nella mia città i capannoni lasciati sfitti dalle piccolissime aziende pratesi fallite vennero affittati dai cinesi che, beffa atroce, producono abbigliamento, sì, ma invece di comprare tessuti dalle aziende della mia città — che è ancora oggi, dopo un’emorragia durata tredici anni, il centro tessile più importante d’Europa — preferiscono importarli a vagonate dalla Cina, a prezzi irrisori, e farli tagliare e cucire da migliaia di disperati clandestini che lavorano e vivono negli stanzoni, nelle condizioni dickensiane che vi ha mostrato la televisione e che forse avete letto in qualche libro, e quando hanno finalmente pronti i loro cenci — spesso mai nemmeno toccati da mani italiane — li posson vendere marchiati Made in Italy, sfruttando il vantaggio che consente loro una legge cretina e illogica. Nella mia città l’ostilità verso i cinesi esiste, si, ma è sempre stata boccalona e mai violenta, e di questo son fiero, e non voglio pensare che sia perché ormai sono legione i pratesi falliti che campano coi pochi soldi in nero che i cinesi pagano loro d’affitto. No, non lo voglio pensare. Nella mia città tutti sanno come lavora la stragrande maggioranza delle aziende cinesi — ce ne sono anche di perfettamente regolari, però — , anche chi gli affitta il capannone, e non ci si stupisce più del fatto che a quei disperati che vediamo aggirarsi in pigiama negli stanzoni non sembri d’essere ridotti in schiavitù, perché in Cina erano trattati peggio, e pagati meno, e che considerino perfettamente logico ripagare con anni di lavoro disagiato quei generosi compatrioti che hanno pagato loro il viaggio per venire in Italia e regalatogli l’opportunità di guadagnare una cifra che, una volta tornati in Cina, gli consentirà di sistemarsi per sempre. Nella mia città si parla sempre dei cinesi, ma mai o quasi mai coi cinesi, e siamo ancora in tanti a sperare di poter avviare a ragionarci davvero del futuro, ma è difficile, credetemi, trattare con una comunità di migranti che non chiede nulla, non vuole nulla, non ha bisogno di nulla, e chiede solo d’essere lasciata in pace. Nella mia città si chiede aiuto. Da tanto. Agli sventati governi che si sono succeduti in Italia. Al console cinese a Firenze, all’ambasciatore cinese a Roma. A tutti. Ci costa, perché siamo gente orgogliosa, e non avevamo mai chiesto aiuto a nessuno, maledizione. Ora però siamo in ginocchio, e lo chiediamo. Senza vergogna. E non chiediamo aiuto — anche a nome di quegli sventurati che hanno perso la vita domenica — solo per essere aiutati nell’impossibile impresa di vivere in una città che conta quattromila aziende cinesi che lavorano senza curarsi della legge italiana. Chiediamo aiuto anche perché eravamo quarantamila a lavorare nel tessile all’inizio di questo nuovo millennio, e oggi siamo tredicimila, forse meno. Chiediamo aiuto perché non riusciamo più a immaginarci un futuro. Forse non siamo bravi a chiedere, però, perché abbiamo l’impressione che nessuno ci ascolti. Che ci abbiano lasciati soli. Che abbiano constatato la nostra impotenza e l’abbiano riconosciuta come loro. Che abbiano dimenticato che il nostro presente potrebbe essere il futuro dell’Italia. Che ci abbiano abbandonati alla nostra sorte, noi che facevamo i tessuti più belli del mondo.

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La questione Telecom spiegata in tre parole

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“Vi spieghiamo in parole semplici la questione Telecom: attraverso il MES si drenano soldi pubblici (dei cittadini) dagli stati per salvare le banche (private) in sofferenza. Le stesse banche, ravvivate dalla nuova liquidità, rastrellano buoni del tesoro dei paesi a tassi ridicoli o si prendono interi pezzi di aziende importanti. Nel caso specifico, la compagnia spagnola Telefonica era in ‎Telecom fino a pochi giorni fa con il 40% circa delle azioni attraverso la controllata Telco che – casualmente – è partecipata da due banche che hanno usufruito dei soldi del MES (Fondo Salva Stati? No, fondo salva banche) di cui sopra. Ora, sempre casualmente, Telco aumenta la sua fetta azionaria in Telecom (disponendo di maggiore liquidità) arrivando al 65%. E puff, un altro asset strategico di un paese (l’Italia) finisce nelle mani di un paese straniero (delle sue banche private). Capito il giochino delle tre carte?
I soldi ce li mettiamo noi e se li pappano le banche private attraverso queste scatole cinesi. Quando è che capiremo che siamo dentro ad una grande truffa?”Reset Radio


L’affare Telecom

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