Fino all’altro ieri l’orco cattivo che minacciava la stabilità della nostra economia si chiamava “spread“, ovvero la differenza tra il rendimento dei titoli obbligazionari di un paese e quelli dell’imbattibile Germania. Era temuto perché poneva a rischio la sostembilità del debito pubblico nazionale. Oggi quell’orco è stato messo in gabbia e non fa più paura. Lo ha però sostituito un altro mostro, dall’aspetto apparentemente benevolo, ma persino più complicato da neutralizzare: la deflazione. Ovvero una lenta discesa di prezzi e salari che, spingendo i consumatori a rimandare le decisioni di acquisto di beni durevoli – dall’automobile alla casa – nell’aspettativa di affari sempre più vantaggiosi, finisce per dare il colpo di grazia alle economie più deboli, scarsamente produttive e altamente indebitate. Il timore è che l’Italia, proprio per i suoi squilibri strutturali, sarà potenzialmente una delle prede più facili. A lanciare l’allarme questo mese è stata Christine Lagarde, capo del Fondo monetario internazionale, che ha invitato la Banca centrale europea “a combattere con decisione l’orco della deflazione”, una frase che equivale all’invito a mantenere i tassi di interesse a livelli prossimi o equivalenti allo zero per facilitare l’immissione di liquidità sul mercato, incentivare gli scarsissimi investimenti ed evitare che oltre a quella greca altre economie dell’eurozona entrino davvero nella spirale deflattiva. Al momento il tasso di inflazione dell’Unione monetaria è sceso allo 0,8 per cento in dicembre, un record al ribasso. Tra i Pigs, Spagna, Portogallo e Manda hanno registrato una crescita dei prezzi compresa tra lo 0,2 e lo 0,3 per cento, l’Italia dello 0,7 per cento. Su base annuale la nostra inflazione è scivolata dal 3 per cento del 2012 all’1,2 del 2013.
La diminuzione dei prezzi non sempre è un male. Anzi, per molti aspetti è stata invocata a più riprese dalla Troika (Ue, Frm, Bce) nella forma di una “svalutazione interna” che aiuti i paesi dell’euro economicamente deboli (Pigs) a ritrovare competitivita rispetto ai forti del Nord Europa. E per i consumatori (con ancora un lavoro) segnala anche un felice ritrovamento del potere di acquisto eroso dalla crisi. Il problema però si pone quando il fenomeno si prolunga e le esportazioni non bastano a far riprendere la crescita del prodotto interno lordo. In questo caso il rischio è quello di finire m un circolo vizioso per cui prezzi sempre più bassi scoraggiano investimenti e produzione, i salari calano aiutati da una disoccupazione galoppante, la domanda interna diminuisce e molte aziende sono costrette a chiudere, causando licenziamenti e ulteriori ribassi salariali. Le cose si complicano se a tutto ciò si aggiunge la gestione di un gigantesco debito pubblico, come quello dell’Italia. Se l’inflazione si riduce, anche in presenza di tassi d’interesse bassi, il rimborso delle rate e il pagamento delle cedole diventano più onerosi. Tra gli effetti di un’inflazione “benefica” – quella, per dirla con Alan Greenspan, di cui non ci accorgiamo nel prendere le decisioni – c’era infatti quello di aiutare a diminuire il valore reale del debito e dei suoi interessi. Infine, a rendere particolarmente affilate le unghie all’orco deflattivo nel lungo periodo è un ulteriore elemento spesso dimenticato (ma determinante per un paese come il nostro): la mancanza, di riforme strutturali volte a rilanciare la competitivita.
A ricordare l’importanza dell’ultimo dettaglio è il Giappone, l’unico Paese sviluppato ad avere sofferto di deflazione nel Dopoguerra e quindi il solo benchmark a disposizione dei moderni economisti. Nonostante l’interventismo della sua banca centrale, per oltre un ventennio il paese del Sol Levante è rimasto intrappolato in una spirale deflattiva (prezzi scesi del 12 per cento in due decadi) soprattutto perché incapace di ricapitalizzare il sistema bancario m modo modo tale da fare arrivare liquidità alle imprese e non vederla cristallizzata in obbligazioni di Stato; di riformare un mercato del lavoro rigido per evitare il dannoso dualismo di una popolazione anziana con contratti permanenti e una più giovane precaria; di aumentare la partecipazione femminile nel mondo del lavoro potenziando anche l’assistenza all’infanzia e, soprattutto, di dare un taglio decisivo ai privilegi delle varie caste. Lezione per il resto del mondo: qualsiasi politica monetaria espansiva che una banca centrale possa adottare perde efficacia in un contesto poco propenso ad adattarsi ai cambiamenti. Mentre Manda, Spagna e Portogallo hanno adottato misure per risolvere questi problemi strutturali, l’Italia di Enrico Letta non ha ancora trovato la forza per sconfiggere le lobby di potere che impediscono le riforme ed è sempre più a rischio “giapponesizzazione”. “Gli studi dimostrano che un periodo di bassa crescita e bassa inflazione può durare anche dieci anni”, conferma Francesco Daveri, docente di Economia all’Università Bocconi: “Magari, grazie agli interventi della Bce, non entreremo in deflazione ma avremo un periodo di bassa inflazione e bassa crescita, con le banche e le aziende che, per liberarsi del debito accumulato in passato, affievoliranno gli effetti positivi di una politica monetaria espansionistica”.
In soli tre mesi, tra ottobre e gennaio, la società di ricerche economiche Prometeia ha abbassato la previsione del tasso di inflazione italiano per il 2014 dall’1,8 allo 0,9 per cento, riscontrando l’ininfluenza del recente aumento dell’Iva dal 21 al 22 per cento sui prezzi finali. Ha poi confermato un ritorno in positivo del reddito disponibile allo 0,8 per cento e ha previsto una ripresa del Pil dello 0,8 per cento (il Fmi ha appena abbassato la previsione allo 0,6).
A differenza degli Usa, dove la Fed ha potuto negli ultimi cinque anni aiutare la ripresa economica con un’iniezione di liquidità talmente massiccia da far raggiungere record storici al mercato azionario (tanto che si parla di bolla mobiliare), l’Europa rende la vita decisionale del capo della Bce Mario Draghi molto più complicata. Non solo perché i Paesi a rischio deflazione sono anche quelli maggiormente indebitati (dunque più difficili da curare) ma anche perché a contrastare il bisogno di tassi pari a zero dei paesi del Sud c’è una Germania con un’inflazione più sostenuta della media (intorno all’1,5 per cento) che di tassi bassi non vuole sentire parlare: limano i guadagni di banche e compagnie assicurative, riducono il ritorno sugli investimenti dei risparmiatori teutonici e li incentivano a cercare alternative come il mattone. Solo negli ultimi cinque anni in Germania i possessori di casa sono aumentati del 30 per cento. “Si tratta di un vero esproprio per i risparmiatori tedeschi”, ha sintetizzato Georg Fahrenschon, presidente delle Casse di risparmio tedesche. Se il commento di Daveri (“I tedeschi sono fortunati ad avere questo genere di problemi”) riassume il pensiero della maggioranza degli Europei, rimane il dato che, a differenza della Fed, la Bce sarà costretta a dosare con attenzione i suoi interventi nei prossimi mesi, forse i più cruciali per capire davvero dimensioni e effetti della diminuzione dei prezzi nel nuovo scenario globale. Navighiamo in acque inesplorate. È infatti la prima volta nella storia economica moderna che l’orco della deflazione rialza la testa in un contesto globale in cui produzione, livello salariale della forza lavoro e scambi commerciali rispondono anche a logiche extranazionali che limitano le scelte economiche di banche centrali e governi nazionali.
(Fonte l’Espresso)