Il 2015 anno nero per i diritti umani nel mondo

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Il 2015 è stato un anno nero sul fronte del rispetto dei diritti umani nel mondo. Amnesty International, ha presentato il suo rapporto annuale che documenta la situazione dei diritti umani in 160 paesi e territori durante il 2015. Secondo l’ong l’Onu ha fallito nel suo ruolo vitale.

In molte parti del mondo, un notevole numero di rifugiati si è messo in cammino per sfuggire a conflitti e repressione. La tortura e altri maltrattamenti da un lato e la mancata tutela dei diritti sessuali e riproduttivi dall’altro sono stati due grandi fonti di preoccupazione. La sorveglianza da parte dei governi e la cultura dell’impunità hanno continuato a negare a molte persone i loro diritti.

Oltre 122 Stati hanno praticato maltrattamenti o torture, 30 Paesi hanno rimandato illegalmente indietro rifugiati e 19 tra Paesi, governi e gruppi armati hanno commesso crimini e altre violazioni.

Per l’Italia dieci sfide ancora aperte. Dall’immigrazione, alla violenza sulle donne, al sovraffollamento delle carceri, passando per il riconoscimento delle famiglie di persone dello stesso sesso fino all’esportazione delle armi. Amnesty auspica la chiusura degli ultimi quattro ospedali psichiatrici giudiziari ancora operativi nel nostro Paese.

Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International: “Milioni di persone stanno patendo enormi sofferenze nelle mani degli stati e dei gruppi armati, mentre i governi non si vergognano di descrivere la protezione dei diritti umani come una minaccia alla sicurezza, alla legge, all’ordine e ai valori nazionali, la protezione internazionale dei diritti umani rischia di essere compromessa da interessi egoistici nazionali di corto respiro e dell’adozione di misure draconiane di sicurezza che hanno portato a un assalto complessivo ai diritti e alle libertà fondamentali”.

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Diritti umani, Amnesty International: Un 2014 devastante

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Per Amnesty International, la più grande organizzazione internazionale per la difesa dei diritti umani, il 2014 sarà ricordato come un anno catastrofico per milioni di persone intrappolate nella violenza di stati e gruppi armati. Nel consueto rapporto annuale della Ong è stata analizzata la situazione politico umanitaria in 160 Paesi. La comunità internazionale è rimasta assente e incapace di proteggere i diritti e la sicurezza dei civili. I governi internazionali hanno ripetutamente dimostrato che alle parole non riescono a far seguire i fatti. In Italia a preoccupare maggiormente Amnesty International, oltre ai diritti di rifugiati e migranti, restano l’assenza del reato di tortura nella legislazione nazionale, la discriminazione nei confronti delle comunità rom, la situazione nelle carceri e nei centri di detenzione per migranti irregolari e il mancato accertamento delle responsabilità per le morti in custodia. A parlare è Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International.

“Il diritto internazionale umanitario, ovvero la legislazione che regolamenta la condotta nelle operazioni belliche, non potrebbe essere più chiaro. Gli attacchi non devono mai essere diretti contro i civili. Il principio di distinzione tra civili e combattenti è una salvaguardia fondamentale per le persone travolte dagli orrori della guerra. E tuttavia, più e più volte, nei conflitti sono stati proprio i civili a essere maggiormente colpiti. Nell’anno della ricorrenza del 20° anniversario del genocidio ruandese, i politici hanno ripetutamente calpestato le regole che proteggono i civili o hanno abbassato lo sguardo di fronte alle fatali violazioni di queste regole da parte di altri. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite non è intervenuto ad affrontare la crisi siriana negli anni precedenti, quando ancora sarebbe stato possibile salvare innumerevoli vite umane. Tale fallimento è proseguito anche nel 2014.

Negli ultimi quattro anni, sono morte 200.000 persone, la stragrande maggioranza civili, principalmente in attacchi compiuti dalle forze governative. Circa quattro milioni di persone in fuga dalla Siria hanno trovato rifugio in altri paesi. Più di 7,6 milioni sono sfollate in territorio siriano. La crisi in Siria è intrecciata con quella del vicino Iraq.

Il gruppo armato che si autodefinisce Stato islamico (Islamic State – Is, noto in precedenza come Isis), che in Siria si è reso responsabile di crimini di guerra, nel nord dell’Iraq ha compiuto rapimenti, uccisioni sommarie assimilabili a esecuzione e una pulizia etnica di proporzioni enormi. Parallelamente, le milizie sciite irachene hanno rapito e ucciso decine di civili sunniti, con il tacito sostegno del governo iracheno. L’assalto condotto a luglio su Gaza dalle forze israeliane è costato la vita a 2000 palestinesi. E ancora una volta, la stragrande maggioranza di questi, almeno 1500, erano civili. Come ha dimostrato Amnesty International in una dettagliata analisi, la linea adottata da Israele si è distinta per la sua spietata indifferenza e ha implicato crimini di guerra. Anche Hamas ha compiuto crimini di guerra, sparando indiscriminatamente razzi verso Israele e causando sei morti.

In Nigeria, il conflitto in corso nel nord del paese tra le forze governative e il gruppo armato Boko haram è finito sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo a causa del rapimento, da parte di Boko haram, di 276 studentesse nella città di Chibok, uno degli innumerevoli crimini commessi dal gruppo. Quasi inosservati sono passati gli orrendi crimini commessi dalle forze di sicurezza nigeriane, e da altri che hanno agito per conto loro, contro persone ritenute appartenere o sostenere Boko haram; alcuni di questi crimini, rivelati da Amnesty International ad agosto, erano stati ripresi in un video che mostrava le vittime assassinate e gettate in una fossa comune.

Nella Repubblica Centrafricana, oltre 5000 persone sono morte a causa della violenza settaria, nonostante la presenza sul campo dei contingenti internazionali. Tortura, stupri e uccisioni di massa hanno a stento raggiunto le prime pagine dei giornali a livello mondiale. Ancora una volta, la maggior parte delle vittime erano civili. E in Sud Sudan, lo stato più recente del mondo, decine di migliaia di civili sono stati uccisi e due milioni sono fuggiti dalle loro case, nel contesto del conflitto armato tra le forze governative e quelle dell’opposizione. Entrambe le parti hanno commesso crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

Questo breve elenco non rappresenta che una parte del problema. Qualcuno potrebbe sostenere che di fronte a tutto questo non è possibile fare nulla, che da sempre la guerra viene fatta alle spese della popolazione civile e che niente potrà mai cambiare. Ma si sbaglia. È essenziale affrontare la questione delle violazioni contro i civili, oltre che assicurarne alla giustizia i responsabili. C’è una misura evidente e concreta che attende solo di essere adottata: Amnesty International ha accolto con favore la proposta, attualmente appoggiata da circa 40 governi, di dotare il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di un codice di condotta che preveda l’astensione volontaria dal ricorso al veto in situazioni di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità, per non bloccare l’azione del Consiglio di sicurezza. Sarebbe un primo passo importante e potrebbe già salvare molte vite.

I fallimenti tuttavia non hanno riguardato soltanto l’incapacità d’impedire le atrocità di massa. È stata anche negata l’assistenza diretta ai milioni di persone in fuga dalla violenza che inghiottiva villaggi e città. Quei governi, tanto pronti a denunciare a gran voce i fallimenti degli altri governi, si sono poi dimostrati essi stessi riluttanti a farsi avanti e fornire gli aiuti essenziali di cui avevano bisogno i rifugiati, sia in termini di aiuti economici, sia di opportunità di reinsediamento. A fine anno, i rifugiati della Siria reinsediati erano meno del due per cento, una cifra che dovrà almeno triplicarsi nel 2015. Nel frattempo, un numero enorme di rifugiati e migranti continua a perdere la vita nel Mar Mediterraneo, nel disperato tentativo di raggiungere le coste europee. La mancanza di supporto da parte di alcuni stati membri dell’Eu nelle operazioni di ricerca e soccorso ha contribuito allo sconvolgente tributo in termini di vite umane. Una misura che potrebbe essere adottata per proteggere i civili nei conflitti è limitare ulteriormente l’impiego di armi esplosive nelle aree popolate.

Ciò avrebbe permesso di salvare molte vite in Ucraina, dove sia i separatisti appoggiati dalla Russia (che seppur in maniera poco convincente ha più volte negato un suo coinvolgimento) sia le forze pro-Kiev hanno colpito quartieri abitati da civili. L’esistenza di regole sulla protezione dei civili è importante in quanto implica un concreto accertamento delle responsabilità e l’ottenimento della giustizia, laddove tali regole siano violate. In questa prospettiva, Amnesty International ha accolto con favore la decisione assunta dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, a Ginevra, di avviare un’inchiesta internazionale in merito alle accuse di violazioni dei diritti umani e di abusi commessi durante il conflitto in Sri Lanka, dove, negli ultimi mesi di combattimenti nel 2009, furono uccise decine di migliaia di civili. Amnesty International si è molto impegnata negli ultimi cinque anni affinché fosse istituita quest’inchiesta. Senza un tale accertamento delle responsabilità non sarà possibile compiere alcun passo avanti. Ma anche altri aspetti inerenti la difesa dei diritti umani devono essere migliorati.

In Messico, la sparizione forzata di 43 studenti, avvenuta a settembre, è andata tragicamente ad aggiungersi alle vicende di oltre 22.000 persone scomparse finora o delle quali si sono perse le tracce dal 2006; si ritiene che la maggior parte di queste siano state rapite da bande criminali ma in molti casi le informazioni raccolte lasciano intendere che siano state sottoposte a sparizione forzata per mano di poliziotti o militari, i quali avrebbero agito in alcuni casi in collusione proprio con le bande criminali. Le poche vittime i cui resti sono stati ritrovati mostravano segni di tortura e altro maltrattamento. Le autorità federali e statali non hanno provveduto a condurre indagini su questi crimini per stabilire l’eventuale coinvolgimento di agenti dello stato e garantire un rimedio legale efficace per le vittime, compresi i loro familiari. Oltre a non aver dato una risposta, il governo ha tentato di nascondere la crisi dei diritti umani, in un contesto di elevati livelli d’impunità, corruzione e progressiva militarizzazione.

Nel 2014, i governi di molte parti del mondo hanno continuato a reprimere le Ngo e la società civile, una sorta di perverso riconoscimento dell’importanza del loro ruolo. La Russia ha accresciuto la sua stretta micidiale con l’introduzione di una spaventosa “legge sugli agenti stranieri”, un linguaggio degno della guerra fredda. In Egitto, le Ngo sono state al centro di un grave giro di vite, con l’utilizzo della legge sulle associazioni risalante all’era Mubarak, per mandare il chiaro messaggio che il governo non intendeva tollerare alcun tipo di dissenso. Organizzazioni per i diritti umani di rilievo hanno dovuto ritirarsi dall’Esame periodico universale del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Egitto, per timore di rappresaglie nei loro confronti. Come già accaduto in varie occasioni in precedenza, i manifestanti hanno dimostrato il loro coraggio malgrado le minacce e la violenza contro di loro. A Hong Kong, a decine di migliaia hanno sfidato le minacce delle autorità e affrontato un uso eccessivo e arbitrario della forza da parte della polizia, in quello che è diventato il “movimento degli ombrelli”, esercitando i loro diritti fondamentali alle libertà d’espressione e di riunione.

Le organizzazioni per i diritti umani sono talvolta accusate di essere troppo ambiziose nei loro sogni di dar vita a un cambiamento. Dobbiamo comunque ricordare che i traguardi straordinari sono raggiungibili. Il 24 dicembre, è entrato in vigore il Trattato internazionale sul commercio di armi, dopo che tre mesi prima era stata superata la soglia delle 50 ratifiche. Amnesty International, tra gli altri, si è impegnata a favore del trattato per 20 anni. Più volte ci era stato detto che non saremmo mai arrivati a ottenerlo. Ebbene, il trattato adesso esiste e servirà a proibire la vendita di armi a quanti potrebbero utilizzarle per commettere atrocità. Potrà pertanto svolgere un ruolo decisivo negli anni a venire, quando la questione della sua implementazione sarà cruciale.

Nel 2014 ricorrevano anche i 30 anni dall’adozione della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, un’altra convenzione per la quale Amnesty International si è battuta per molti anni e una delle motivazioni per le quali le fu conferito il premio Nobel per la pace nel 1977. Questo anniversario è, sotto un certo punto di vista, un momento da celebrare ma è anche l’occasione per sottolineare come la tortura sia ancora dilagante in molte parti del mondo, motivo per cui Amnesty International, proprio quest’anno, ha lanciato la sua campagna globale “Stop alla tortura”. Questo messaggio conto la tortura ha avuto una particolare risonanza in seguito alla pubblicazione a dicembre di un rapporto del senato statunitense, che ha dimostrato la facilità con cui era stato tollerato l’uso della tortura negli anni successivi agli attacchi agli Usa dell’11 settembre 2001. È sconcertante come alcuni dei responsabili per quegli atti criminali di tortura sembrassero ancora convinti di non avere alcun motivo di cui vergognarsi. Da Washington a Damasco, da Abuja a Colombo, i leader di governo hanno giustificato orrende violazioni dei diritti umani sostenendo che era necessario commetterle in nome della sicurezza. In realtà, è semmai vero il contrario. Questo tipo di violazioni sono uno dei motivi principali per i quali oggi viviamo in un mondo tanto pericoloso. Non può esserci sicurezza senza rispetto dei diritti umani. Abbiamo ripetutamente visto che, anche nei momenti più bui per i diritti umani, e forse in special modo in tempi come questi, è possibile dar vita a un cambiamento straordinario. Dobbiamo solo sperare che, quando negli anni a venire guarderemo indietro al 2014, ciò che abbiamo vissuto in quest’anno ci sembrerà il fondo, l’ultimo punto più basso da cui siamo risaliti e abbiamo creato un futuro migliore”.

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La Cina e il grande business della tortura

strumenti di tortura

La tortura può essere un grande business, un business globalizzato. Secondo una ricerca realizzata da Amnesty International e da Omega Research Foundation ci sono almeno 134 imprese cinesi impegnate nella produzione e nel commercio di strumenti intrinsecamente crudeli e inumani che dovrebbero essere messi al bando. Queste società dell’orrore sono in maggior parte di proprietà statale e stanno vivendo un boom nella Repubblica popolare “fabbrica del mondo”. Il rapporto spiega che erano 28 dieci anni fa, si sono più che quadruplicate. “È un business multimiliardario”, spiega Patrick Wilcken di Amnesty International, che ha lavorato per quattro anni al rapporto, “Pechino ha preso la testa nel segmento più orrendo di questo commercio, dalle catene pesanti per il collo che riducono la circolazione del sangue alle sedie per gli interrogatori, quella sorta di attrezzature di polizia considerate clandestine”.

“Oltre 130 aziende, a fronte di sole 28 di un decennio fa, sono attualmente coinvolte nella produzione e nel commercio di strumenti potenzialmente pericolosi destinati al mantenimento dell’ordine pubblico. Alcuni di essi, come i manganelli elettrici, i bastoni acuminati e i congegni serra gambe, sono intrinsecamente crudeli e disumani e dovrebbero essere immediatamente proibiti. Altri strumenti, che potrebbero avere un utilizzo legittimo come i gas lacrimogeni, le pallottole di plastica e i veicoli antisommossa, vengono esportati dalla Cina in paesi dove vi è il rischio concreto che possano essere usati per compiere gravi violazioni dei diritti umani.

“Sempre più aziende cinesi stanno facendo profitti col commercio di strumenti di tortura e di repressione, alimentando le violazioni dei diritti umani a livello mondiale” – ha dichiarato Patrick Wilcken, ricercatore su commercio di materiali di sicurezza e diritti umani. “Questo commercio, che procura immense sofferenze, è in pieno boom poiché le autorità cinesi non fanno nulla per impedire alle aziende di esportare questi disgustosi congegni o per impedire che strumenti destinati ad attività di polizia finiscano nelle mani di noti violatori dei diritti umani”.

Le aziende cinesi, la maggior parte delle quali di proprietà statale, stanno conquistando quote sempre più ampie nel mercato globale degli strumenti per il mantenimento dell’ordine pubblico. La Cina è l’unico paese noto nel mondo per la produzione di bastoni acuminati, con punte di metallo disposte lungo la parte terminale o addirittura su tutta la lunghezza dello strumento. Si tratta di oggetti prodotti per torturare e possono causare sofferenza e dolore gravi.

Sette aziende cinesi pubblicizzano apertamente verso i mercati esteri questi prodotti disumani. Di recente, bastoni acuminati prodotti in Cina sono stati usati dalla polizia della Cambogia ed esportati alle forze di sicurezza di Nepal e Thailandia. Dalle ricerche di Amnesty International e Omega Research Foundation è emerso che 29 aziende cinesi pubblicizzano i bastoni elettrici. Questi strumenti consentono facilmente di applicare scariche elettriche multiple dolorosissime su parti sensibili del corpo come i genitali, la gola, l’inguine o le orecchie senza che, a distanza di tempo, restino segni visibili.

Decine di aziende cinesi producono e commerciano strumenti di costrizione come i congegni serra gambe o le sedie di contenimento. Un’azienda produce congegni che serrano il collo: che possono mettere a rischio la vita delle persone limitando la respirazione, la circolazione del sangue e le comunicazioni nervose tra il cervello e il corpo. Sulla base dei materiali realizzati dalle aziende per promuovere le vendite, è stato possibile concludere che parecchie aziende vendono tali strumenti ad agenzie per il mantenimento dell’ordine pubblico di ogni parte del mondo, comprese quelle note per violare regolarmente i diritti umani.

“Non può esservi alcuna scusa per consentire la produzione e il commercio di strumenti il cui scopo principale è quello di torturare o infliggere trattamenti crudeli, disumani e degradanti, atti efferati totalmente vietati dal diritto internazionale. Le autorità cinesi dovrebbero introdurre il divieto di produrre ed esportare questi strumenti” – ha aggiunto Wilcken.

Un’azienda, la China Xinxing Import / Export Corporation – che pubblicizza strumenti quali congegni serra pollici, sedie di contenimento, pistole elettriche e manganelli elettrici – ha dichiarato nel 2012 di essere in rapporti con oltre 40 paesi africani e che il suo commercio con l’Africa era superiore a 100 milioni di dollari Usa. Amnesty International e Omega Research Foundation hanno rinvenuto prove dell’uso di manganelli elettrici di fabbricazione cinese da parte della polizia in Egitto, Ghana, Madagascar e Senegal.

Le aziende cinesi, inoltre, continuano a esportare strumenti che possono essere considerati legittimi allo scopo di mantenere l’ordine pubblico solo se vengono usati secondo gli standard internazionali e se chi li usa sia adeguatamente addestrato e possa rispondere in pieno del suo comportamento. Purtroppo, il rapporto di Amnesty International e Omega Research Foundation cita casi di esportazioni del genere verso paesi in cui vi è il rischio concreto che l’uso di tali strumenti contribuirà a gravi violazioni dei diritti umani.

Il rapporto cita, ad esempio, una grande fornitura di equipaggiamento antisommossa giunto in Uganda nel febbraio 2011, nonostante il massiccio ricorso alla tortura e ai maltrattamenti da parte della polizia locale. Due mesi dopo, quegli strumenti vennero usati per stroncare le proteste contro l’aumento dei prezzi. Durante la repressione – che provocò almeno nove morti, oltre 100 feriti e 600 arresti – le forze ugandesi utilizzarono veicoli blindati antisommossa di fabbricazione cinese.

Equipaggiamento antisommossa proveniente dalla Cina è stato impiegato anche dalle forze di sicurezza della Repubblica Democratica del Congo per sopprimere le proteste durante le elezioni del 2011, in cui sono state uccise almeno 33 persone e altre 83 sono rimaste ferite. Le esportazioni sono proseguite anche in seguito.

Il rapporto di Amnesty International e Omega Research Foundation denuncia la carenza dei controlli sulle esportazioni, la mancanza di trasparenza e l’assenza della valutazione sulla situazione dei diritti umani nei paesi destinatari delle forniture.

L’imperfetto sistema cinese delle esportazioni ha permesso al commercio di strumenti di tortura e di repressione di espandersi. È urgente che le autorità cinesi rivedano le norme in materia di commercio per porre fine all’irresponsabile trasferimento di equipaggiamento per il mantenimento dell’ordine pubblico che verrà con ogni probabilità usato per violare i diritti umani” – ha sottolineato Wilcken.

La Cina non è da sola a non controllare efficacemente i trasferimenti di equipaggiamento per il mantenimento dell’ordine pubblico. Il commercio mondiale di questi prodotti è soggetto a scarsi controlli e persino laddove le norme sono più evolute, come negli Usa e nell’Unione europea, sono necessari miglioramenti per colmare le lacune esistenti, proprio mentre nuovi prodotti e tecnologie escono sul mercato.

Alla crescita del commercio internazionale della Cina in strumenti di tortura e di repressione si è accompagnata la costante violazione dei diritti umani all’interno del paese. La tortura e i maltrattamenti, così come l’uso arbitrario della forza rimangono diffusi nelle carceri e nella soppressione delle proteste. Amnesty International ha documentato una lunga serie di forme di tortura fisica in Cina, compreso l’uso dei manganelli elettrici.

Un sopravvissuto alla tortura ha dichiarato: “Loro [i poliziotti] mi colpivano col manganello elettrico sul volto, è quella tortura che la polizia chiama “del popcorn”, perché il viso ti si apre e sembra come il popcorn. Fa una puzza terribile, di pelle bruciata”.

Il rapporto, infine, mette in luce l’ampio abuso degli strumenti meccanici di costruzione nei confronti dei detenuti in Cina. Molti di essi hanno denunciato di essere stati bloccati per i polsi e alle anche e sospesi al soffitto o costretti a rimanere per lungo tempo in posizioni dolorose.

Amnesty International e Omega Research Foundation hanno sollecitato le autorità cinesi e quelle di tutti gli altri paesi a:

  • imporre un’immediata moratoria sulla produzione e il commercio di strumenti intrinsecamente atti a violare i diritti umani;
  • sospendere immediatamente o negare le autorizzazioni a esportare altri strumenti per mantenere l’ordine pubblico laddove vi sia il rischio sostanziale che essi verranno utilizzati per commettere o facilitare gravi violazioni dei diritti umani;
  • istituire norme e prassi per controllare l’esportazione di strumenti di polizia e sicurezza che possono essere usati legittimamente ma che si prestano facilmente all’abuso;
  • porre fine alla tortura e ai trattamenti o pene crudeli, disumani e degradanti, così come all’uso della forza arbitraria e indagare su tutte le denunce relative ad atti del genere per poi portare i responsabili di fronte alla giustizia.
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La pena di morte nel mondo, nel 2012 eseguite 682 condanne

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ESECUZIONI DI CONDANNE A MORTE - anno 2012

Tabella 1: ESECUZIONI DI CONDANNE A MORTE – anno 2012

Il 10 aprile 2013 Amnesty International ha reso noto il suo rapporto annuale “Condanne a morte ed esecuzioni” nel 2012.

Il report è incentrato sull’uso giudiziario a livello mondiale della pena di morte riferito al periodo gennaio-dicembre 2012. Il quadro della situazione presentato nel rapporto si basa, come precisato nella premessa, su dati ufficiali quando disponibili, sulle informazioni provenienti dagli stessi condannati a morte, dai loro familiari e dai rappresentanti legali, sui rapporti di altre organizzazioni della società civile nonché sulle informazioni riportate dai media.
L’indisponibilità di informazioni adeguate alla ricostruzione di un quadro credibile con riferimento alla Cina, Paese nel quale i dati relativi all’uso della pena capitale sono considerati segreto di Stato (e lo stesso accade in Bielorussia, Mongolia e Vietnam), ha indotto gli estensori del rapporto, analogamente a quanto fatto in edizioni precedenti, a non considerare le esecuzioni di condanne capitali effettuate in Cina. Tuttavia, sulla base delle informazioni comunque reperibili Amnesty ipotizza che in Cina avvengano “più esecuzioni che nel resto del mondo messo insieme”.
La difficoltà nel reperimento di informazioni riscontrabile in molti paesi (quali Belize, Corea del Nord, Egitto, Eritrea, Libia, Malesia, Suriname e Siria) rende necessario un approccio prudenziale nell’esposizione dei dati relativi alla pena di morte. Pertanto, il numero delle esecuzioni e quello delle nuove sentenze di condanna alla pena capitale “è probabilmente molto più alto di quello riportato” – si legge nel report – così come superiore potrebbe essere anche il numero dei paesi che emettono o eseguono condanne a morte.

Nel corso del 2012 sono state eseguite nel mondo almeno 682 condanne a morte, al netto delle “migliaia di condanne a morte che si ritiene siano state eseguite in Cina” . I 21 paesi “interessati” corrispondono numericamente al dato registrato nel 2011, mentre le esecuzioni sono aumentate di due unità.

Nella tabella 1 vengono riportati i 21 paesi dove sono state eseguite condanne e il numero delle esecuzioni effettuate in ciascuno di essi. Il segno “+” accanto al numero indica che Amnesty International lo considera valore minimo; la presenza del solo segno “+” (nella tabella presente solo con riferimento alla Cina) ai fini del calcolo complessivo considerato pari a 2, segnala la certezza di avvenute esecuzioni capitali, in ordine alle quali, come accennato, non è stato possibile ottenere un dato affidabile. Cina, Iran, Iraq, Arabia Saudita, Stati Uniti e Yemen risultano essere, nell’ordine, i paesi ai primi posti per numero di esecuzioni capitali. Nel rapporto, peraltro, si segnala che il dato relativo all’Iran (314+) andrebbe presumibilmente più che raddoppiato.

CONDANNE A MORTE INFLITTE - anno 2012

Tabella 2: CONDANNE A MORTE INFLITTE – anno 2012

 

Nella tabella 2, costruita coi medesimi criteri della precedente, sono riportate le condanne alla pena capitale inflitte nel mondo nell’anno 2012. Il numero complessivo delle condanne è di almeno 1.722 ed i paesi interessati sono 58. Tali dati testimoniano una significativa diminuzione dell’irrogazione della pena capitale rispetto al 2011, quando Amnesty riportò almeno 1.923 condanne a morte inflitte in 63 paesi; in particolare, il decremento percentuale è dell’11,7% del numero delle condanne e dell’8,6% dei paesi interessati.

Alla luce di tali dati il rapporto sottolinea la coesistenza da un lato della prosecuzione di una tendenza globale verso l’abolizione della pena di morte e, dall’altro, il fatto che la sua applicazione avviene anche a sanzione di reati non violenti legati alla droga, a reati di natura economica, ma anche in casi di apostasia, blasfemia e adulterio.

Il report di Amnesty offre, altresì, una ricognizione delle panoramiche regionali dalla quale emerge un quadro di notevole disomogeneità tra aree geografiche.

L’area Asia-Pacifico è caratterizzata dalla drammatica ma non comprovabile situazione cinese dove le esecuzioni, come accennato, sono stimate nell’ordine delle migliaia e dalla ripresa delle esecuzioni in India, Giappone e Pakistan; sul fronte delle positività il rapporto sottolinea la non esecuzione di condanne in Vietnam, l’applicazione di una moratoria a Singapore nonché i progressi in ambito legislativo compiuti dalla Mongolia, che ha ratificato il Secondo Protocollo Opzionale al Patto internazionale sui diritti civili e politici (adottato a New York il 15 dicembre 1989 ed in vigore dall’11 luglio 1991). Il secondo Protocollo opzionale in questione chiede ai paesi aderenti di abolire la pena di morte permettendo, tuttavia, il mantenimento della pena capitale in tempo di guerra agli stati che abbiano posto una riserva specifica al momento della ratifica. Più in dettaglio, nell’area Asia-Pacifico sono state registrate almeno 38 esecuzioni (pari al 5.6% delle esecuzioni totali nel mondo) – al netto, tuttavia, delle migliaia di esecuzioni che si stima abbiano avuto luogo in Cina – da parte di 8 paesi (Afghanistan, Bangladesh, Cina, Corea del Nord, Giappone, India, Pakistan e Taiwan), uno in più rispetto al 2011, che complessivamente rappresentano il 38% dei paesi dove sono state eseguite sentenze capitali. Le nuove sentenze capitali ammontano ad almeno 679 da parte di 19 paesi. Nella regione fa eccezione l’area dell’Oceano Pacifico, che continua ad essere una zona virtualmente libera dalla pena di morte.

Nel quadrante di Medio Oriente e Africa del Nord, il “preoccupante” ricorso alla pena capitale, si legge nel rapporto, ha visto nel 2012 l’effettuazione di 557 esecuzioni capitali (81.7%) in 6 paesi (29%): Arabia Saudita, Autorità Palestinese (Hamas, amministrazione de facto a Gaza) Emirati Arabi Uniti, Iraq, Iran e Yemen. Nel 2011 le esecuzioni erano state 558 in 8 paesi. Quanto alla emissione di sentenze capitali, a fronte della consistente diminuzione dalle 750 del 2011 alle 505 del 2012, è aumentato di una unità il numero dei paesi che le hanno emesse, passato da 15 a 16. Arabia Saudita, Iran, Iraq e Yemen sono stati teatro nel 2012 della quasi totalità delle esecuzioni capitali nella regione. Particolarmente allarmante il quadro delle esecuzioni in Iraq dove sono state messe a morte almeno 129 persone, quasi il doppio (+47,3%) rispetto alle 68 del 2011. Quanto all’Iran, le autorità hanno reso ufficialmente note 314 esecuzioni, ma “il numero reale è di certo molto più alto” si legge nel report che, ancora una volta, considera il paese secondo solo alla Cina per numero esecuzioni. Il rapporto afferma l’impossibilità di confermare l’esecuzione di sentenze capitali in Egitto e in Siria.

Nelle Continente americano gli Stati Uniti sono rimasti l’unico paese a compiere esecuzioni: le 43 esecuzioni registrate nel 2012 (6.3%) ripropongono lo stesso dato rilevato nel 2011 ma risultano concentrate in soli 9 stati degli Usa (erano 13 nel 2011). Ad aprile 2012 il Connecticut è divenuto il 17° stato abolizionista (si rammenta in proposito che nel maggio 2013 la pena di morte è stata abolita anche nel Maryland, con provvedimento destinato ad entrare in vigore il 1° ottobre 2013) mentre a novembre 2012 con un referendum l’elettorato della California ha respinto tale ipotesi. Le 77 sentenze capitali emesse nel 2012 da 18 stati rappresenta uno dei numeri più bassi da quando la Corte Suprema americana ha reintrodotto la pena di morte nel 1976.
Nel resto del Continente americano sono state emesse 13 condanne a morte da parte di 3 paesi: Barbados, Guyana e Trinidad e Tobago. Il report sottolinea, infine, che in Guatemala, dopo la revisione dei casi di tutti i condannati a morte da parte della divisione penale della Corte suprema di giustizia, 53 sentenze capitali sono state commutate.
Nell’Africa subsahariana i recenti sviluppi in diversi paesi indicano il sussistere di un forte trend abolizionista. Sotto il profilo dei quadri giuridici di alcuni paesi viene in evidenza la ratifica (5 luglio 2012) da parte del Benin del Secondo Protocollo opzionale al patto sui diritti civili e politici del 1989 (cui si è fatto cenno a proposito della Mongolia) che abolisce la pena di morte, Protocollo firmato, il 24 settembre 2012, ma non ancora ratificato dal Madagascar ha firmato, ma non ancora ratificato, il Protocollo il 24 settembre 2012); risalta, altresì, la decisione della Commissione per la revisione costituzionale del Ghana di accogliere la raccomandazione di abolire la pena di morte dalla nuova Costituzione. In Sierra Leone, infine, al termine del 2012 non vi erano detenuti nel braccio della morte.
Nell’area sono state accertate nel 2012 40 esecuzioni capitali (5.9%), concentrate in 5 paesi (Somalia, Sud Sudan, Sudan, Botswana e Gambia) pari al 24% dei paesi che hanno eseguito pene capitali.
Il numero delle condanne a morte registrate nel 2012, pari a 449, rappresenta un incremento notevolissimo, +254 (+56,6%) rispetto al 2011, in gran parte dovuto all’impennata delle sentenze capitali in Sudan (almeno 199). Il numero dei paesi che hanno emesso sentenze capitali è invece diminuito rispetto al 2011, passando da 25 a 19. Il rapporto segnala la difficoltà di ottenere informazioni esaurienti in alcuni paesi, senza indicare quali, nonché la frequenza della condanna a morte in contumacia nella Repubblica democratica del Congo.

Nella regione Europa – Asia centrale il report segnala che la Bielorussia “ha continuato a essere l’unico paese a eseguire condanne a morte e lo ha fatto nella più rigorosa segretezza” mettendo a morte, nel 2012, almeno 3 persone (0.4%).
Sul versante degli sviluppi positivi va segnalato che la Lettonia, con l’entrata in vigore (1° maggio 2012) della ratifica del Protocollo n. 13 alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali relativo all’abolizione delle pena di morte in ogni circostanza del Consiglio d’Europa, è divenuto il 97° paese completamente abolizionista al mondo.

Si rammenta che La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali è stata ratificata dal nostro paese con legge 4 agosto 1955, n. 848, ed è in vigore per l’Italia dall’ottobre 1955. Il Protocollo n. 13 (adottato nel 2002), che ha esteso la portata del divieto della pena di morte a qualsiasi circostanza, incluse quelle del tempo di guerra o dell’imminenza di una minaccia bellica, è stato ratificato dall’Italia con la legge 179/2008 in vigore dall’11 novembre 2008.

Nella Federazione russa prosegue la moratoria sulle esecuzioni iniziata nel 1996 ed estesa dalla Corte costituzionale, nel 2009, a tempo indefinito. La moratoria prosegue dal 2004 anche in Tajikistan. Secondo i dati indicati nell’ultima parte del rapporto alla data del 31 dicembre 2012 la situazione riferita all’applicazione della pena di morte nel mondo era la seguente:

Paesi abolizionisti per tutti i reati97
Paesi abolizionisti per reati comuni8
Paesi abolizionisti de facto (no esecuzioni negli ultimi 10 anni o impegnati a non eseguire condanne a morte)35
TOTALE paesi abolizionisti (a)140
Paesi che mantengono in vigore la pena capitale (b)58
TOTALE (a)+(b)198

 

Come è noto, il 18 dicembre 2007 la 62a sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato – con 104 voti a favore, 54 contrari e 29 astenuti – la risoluzione 62/149 per la moratoria sulla pena di morte. Tra i contrari, con Cina Stati Uniti India Giappone Iran e Sudan oltre a numerosi Paesi arabi, caraibici e asiatici. Favorevoli numerosi Paesi latinoamericani, africani (tra cui il Ruanda), la Russia e le repubbliche centro-asiatiche Azerbaijan, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tajikistan, Turkmenistan e Uzbekistan

La risoluzione è l’esito di un percorso – che ha visto il nostro paese in attitudine proattiva – iniziato nel 1994 con una risoluzione di iniziativa italiana non accolta dalla III Commissione dell’Assemblea generale ONU, proseguito con il fallimento di un’iniziativa europea (1999) e giunto a maturazione grazie ad un’intensa attività diplomatica supportata anche da atti di indirizzo parlamentare. Il documento accoglie favorevolmente “le decisioni, adottate da un numero crescente di membri dell’ONU, di applicare una moratoria sulle esecuzioni, in molti casi seguita dall’abolizione della pena di morte”, e manifesta preoccupazione per il fatto che la pena capitale continui ad essere applicata in alcuni Paesi. La risoluzione invita i Paesi che prevedono la pena di morte ad assicurare gli standard minimi concordati a livello internazionale “sulle garanzie per i rischi di esecuzione” e a fornire al Segretario Generale delle Nazioni Unite le informazioni relative al  ricorso alla pena capitale e al rispetto delle regole. La risoluzione, infine, chiede ai Paesi di limitare progressivamente l’uso della pena di morte, anche riducendo il numero di reati per i quali può essere comminata e invita gli Stati che hanno abolito tale pratica a non reintrodurla.

Una seconda risoluzione (63/168) sulla moratoria sull’uso della pena di morte è stata approvata dall’Assemblea Generale il 18 dicembre 2008 con 106 voti favorevoli (due in più rispetto alla precedente risoluzione), 46 contrari (-8) e 34 astensioni (+5). La terza risoluzione Onu sulla moratoria della pena capitale (65/206) è stata adottata il 21 dicembre 2010 con 109 voti favorevoli (+3 sulla risoluzione del 2008), 41 contrari (-5) e 35 astenuti (+1). Infine, l’ultima risoluzione (67/176) adottata il 20 dicembre 2012 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, la quarta dal 2007, ha visto convergere a favore della moratoria il voto di 111 paesi (+2 rispetto al 2010), 41 voti contrari (dato invariato sul 2010) e 34 astensioni. Va rammentato che gli Stati membri delle Nazioni Unite sono ora 193, uno in più rispetto al 2010, il Sud Sudan, che ha votato a favore della Risoluzione, nonostante mantenga ancora la pena di morte. Repubblica CentrafricanaCiadSierra Leone e Tunisia, che si erano astenuti nel 2010, per la prima volta hanno votato a favore. La risoluzione invita i paesi membri a limitare progressivamente l’uso della pena di morte e non imporre la pena capitale per reati commessi da persone di età inferiore ai 18 anni e da donne incinte, nonché a ridurre il numero dei reati per i quali può essere inflitta la pena capitale.

Fondata a Roma il 13 maggio 2002, la Coalizione mondiale contro la pena di morte si compone di  oltre 135 organizzazioni impegnate nel campo dei diritti umani, di associazioni legali, di sindacati e di autorità locali e regionali uniti nell’intento di operare per l’eliminazione della pena di morte nel mondo. La Coalizione venne fondata a seguito dell’impegno assunto dai firmatari della Dichiarazione finale del primo Congresso mondiale contro la pena di morte organizzata dalla ONG francese Insieme contro la pena di morte (ECPM) a Strasburgo nel giugno 2001. Oltre ad Amnesty International, vi aderiscono la Fédération Internationale des Droits de l’Homme (FIDH), Penal Reform International (PRI), la Fédération Internationale de l’Action des Chrétiens pour l’Abolition de la Torture (FIACAT), Madri contro la pena di morte e la tortura, la Comunità di Sant’Egidio, la Regione Toscana ed i comuni di Matera, Reggio Emilia e Venezia, la Coalizione italiana contro la pena di morte, il Comitato Paul Rougeau nonché alcune associazioni attive in paesi mantenitori come Forum 90 in Giappone e Journey of Hope negli USA. La Coalizione Mondiale attraverso il rafforzamento della dimensione internazionale della lotta contro la pena di morte persegue l’obiettivo finale di ottenerne l’abolizione a livello universale. Gli strumenti posti in essere a tale fine consistono in attività di lobbying da parte delle organizzazioni internazionali e degli Stati; organizzazione di campagne internazionali, tra cui la Giornata mondiale contro la pena di morte; sostegno alle forze nazionali e regionali abolizioniste. La Coalizione mondiale contro la pena di morte promuove l’azione internazionale intrapresa dai propri membri, come ad esempio le “Città per la vita” iniziativa lanciata dalla Comunità di Sant’Egidio.

La Giornata mondiale contro la pena di morte (10 ottobre), istituita dalla Coalizione e celebrata per la prima volta nel 2003, si prefigge l’obiettivo di esercitare una pressione concreta e periodica sui governi e le istituzioni per l’abolizione della pena di morte nel mondo, focalizzandosi ogni anno su temi,che individuati anche in base a priorità e probabilità di successo. Nel 2012, in occasione della decima edizione, l’attenzione si è incentrata sui successi ed i progressi dell’abolizione. E’ stato sottolineato che dal 2002,  21 paesi hanno abolito la pena di morte per tutti i reati (Albania, Argentina, Armenia, Bhutan, Burundi, Isole Cook, Cipro, Gabon, Grecia, Kirghizistan, Lettonia, Messico, Montenegro, Filippine, Ruanda, Samoa, Senegal, Serbia, Togo, Turchia e Uzbekistan), e 17 paesi tra questi lo hanno fatto a decorrere dalla prima Giornata mondiale contro la pena di morte, (10 ottobre 2003). Inoltre i paesi che eseguono condanne a morte sono diminuiti dal 2003, quando erano 28, ed anche le condanne a morte sono diminuite, così come il numero di persone nel braccio della morte in alcuni paesi, a seguito di commutazioni di sentenze capitali. Infine, molti stati hanno ridotto l’applicazione della pena di morte ad alcune categorie di persone, tra cui i minori di 18 anni, le donne incinte, le persone che soffrono di malattia mentale e di ritardo mentale.

La Coalizione mondiale contro la pena di morte è anche partner del Congresso mondiale contro la pena di morte, che si tiene ogni tre anni. Dopo le edizioni di Strasburgo (2001), Montreal (2004), Parigi (2007) e Ginevra (2010), il  Congresso mondiale contro la pena di morte si svolgerà a Madrid dal 12 al 15 giugno 2013. Organizzato dalla associazione francese Ensemble contre la peine de mort – ECPM, con il patrocinio di Spagna, Norvegia,  Svizzera e Francia e, in collaborazione, appunto, con la Coalizione Mondiale contro la Pena di Morte, il Congresso rappresenta un’occasione di confronto tra membri della società civile internazionale, politici ed esperti legali per l’elaborazione di strategie abolizioniste da lanciare negli anni successivi a livello nazionale, regionale e internazionale.
Il Congresso mondiale è anche l’occasione per i gruppi abolizionisti di tenere riunioni statutarie. La Coalizione Mondiale terrà la propria assemblea generale annuale a Madrid il 12 giugno, come faranno, del resto, alcune reti regionali.

I lavori del Congresso saranno organizzati in due sessioni plenarie, incentrate una sull’Asia (con particolare riguardo agli aspetti afferenti l’esercizio della giurisdizione) e l’altra sugli aspetti sociologici, religiosi e politici della prospettiva abolizionista nell’area MENA (Middle East and North Africa), e tredici tavole rotonde tematiche.

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Haiti dimenticata: 3 anni dopo ancora 350.000 persone senza tetto


Tre anni dopo il devastante terremoto che ha ucciso 200.000 persone e resi 2,3 milioni di persone senza tetto, Haiti è ancora in crisi drammatica. 350.000 persone vivono nei campi e gran parte dei fondi promessi dal mondo per la ricostruzione sono andati persi.

Ad Haiti, la situazione degli alloggi nel paese resta devastante, con centinaia di migliaia di persone che si trovano ancora in rifugi precari. Amnesty International ha chiesto alle autorità haitiane e alla comunità internazionale di considerare la questione degli alloggi in via prioritaria.

Il terremoto del 12 gennaio 2010 causò 200.000 vittime e rese senza tetto 2,3 milioni di haitiani. Attualmente, 350.000 persone vivono nei 496 campi distribuiti su tutto il paese.

Secondo le testimonianze raccolte da Amnesty International ad Haiti, le condizioni di vita nelle tendopoli stanno peggiorando: si registra una forte difficoltà di accedere all’acqua, ai servizi igienici e ai sistemi di raccolta dei rifiuti, circostanze che hanno contribuito alla diffusione di malattie infettive, come il colera. Le donne e le ragazze rischiano stupri e altre forme di violenza sessuale.

Come se non bastasse essere esposti all’insicurezza, alle malattie e agli uragani, molte persone che vivono nelle tendopoli sono costantemente a rischio di essere sgomberate con la forza.

Dopo il terremoto, oltre 60.000 persone hanno subito sgomberi forzati dalle tendopoli. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, oltre 80.000 haitiani che vivono in campi allestiti prevalentemente su terreni privati rischiano lo sgombero.

Nell’aprile 2012, le autorità haitiane hanno annunciato un Piano nazionale sugli alloggi, che individua una serie di priorità per la costruzione di nuove abitazioni senza specificare in che modo i più poveri potranno avere accesso ad alloggi adeguati e in condizioni economicamente sostenibili. Il piano non prevede alcun impegno contro gli sgomberi forzati.

Mesi prima, nell’agosto 2011, grazie al sostegno dei donatori internazionali, il governo haitiano aveva lanciato un programma per trasferire i residenti di 50 tendopoli in 16 nuove strutture residenziali, attraverso un incentivo per famiglia di 500 dollari per 12 mesi e 25 dollari per i trasporti. Le famiglie avrebbero dovuto fare una trattativa privata coi proprietari.

Il progetto ha aiutato alcune famiglie ma gli incentivi troppo bassi hanno impedito a molte altre di trasferirsi e accedere a una soluzione abitativa di lungo termine. Anche le famiglie che ne hanno beneficiato temono cosa potrà accadere alla fine degli incentivi, poiché non saranno in grado di pagare l’affitto. Già oggi, sono a malapena in grado di dar da mangiare ai figli, per non parlare delle cure mediche, dell’istruzione e dell’abbigliamento.

Secondo Amnesty International, le iniziative del governo di Haiti sembrano più interessate a impedire alle vittime del terremoto di vivere in luoghi pubblici piuttosto che a fornire loro alloggi sicuri. La partenza degli attori umanitari da Haiti, nel 2011, e la diminuzione dei finanziamenti hanno peggiorato le condizioni di vita nelle tendopoli. Solo una piccola parte dei fondi promessi dai donatori è stata assegnata a progetti edilizi.


Haiti: l’isola che non c’era. Storia, attualità e scenari futuri di un paese «scoperto» dal terremoto. Il 12 gennaio 2010 il mondo a scoperto l’esistenza di Haiti. Dopo il terremoto i mezzi di comunicazione hanno cominciato a occuparsi di questo piccolo paese, sconosciuto ai più, senza tuttavia fornire gli strumenti minimi per comprenderne la realtà, talvolta limitandosi a letture approssimative. Il libro fornisce un quadro storico e sociale della realtà haitiana e dei rapporti con la vicina Repubblica Dominicana: una “cassetta degli attrezi” per interpretare il delicato passaggio dalla fase di emergenza a quella della ricostruzione.

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