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Reddito di cittadinanza? L’Istat dice sì

reddito di cittadinanza

Ieri l’Istat ha detto sì al reddito di cittadinanza del M5S, presentando un’accurata simulazione sugli effetti della proposta di legge in discussione alla commissione Lavoro a Palazzo Madama. Il costo per lo Stato? 14,9 miliardi. I 5Stelle propongono di dare 780 euro al mese (9.360 l’anno) a tutti i cittadini italiani ed europei che hanno almeno 18 anni, la somma è calcolata per star sopra la soglia di povertà indicata dall’Istat. Se una persona ha reddito zero riceve l’importo pieno, altrimenti un’integrazione fino ad arrivare ai 780 euro. Ne beneficiano anche i pensionati (sotto la soglia), esclusi i carcerati. A beneficiarne sarebbero 2,79 milioni di famiglie. Il beneficio sarà massimo (12 mila euro) per le 390 mila in condizioni di povertà più grave, mentre si riduce a meno di 200 euro per le 120 mila famiglie che hanno un reddito superiore all’80% della linea di povertà.

“La necessità di introdurre anche in Italia, come nella maggior parte dei paesi europei, strumenti di protezione sociale di ultima istanza volti a garantire ai cittadini un livello minimo di risorse è da tempo al centro del dibattito pubblico. Questo tipo di interventi completerebbero il sistema degli ammortizzatori sociali, attualmente sbilanciato verso interventi di stampo assicurativo collegati alla posizione lavorativa degli individui (ad esempio Cig e pensioni), mirato a fornire una rete di protezione per gli individui nelle diverse fasi della loro vita. A seconda degli obiettivi perseguiti, l’implementazione di queste misure può assumere forme diverse attivando meccanismi differenti e di conseguenza generando risultati eterogenei. Si può andare, infatti, da una forma di reddito minimo universale (comunemente detto reddito di cittadinanza) destinato a tutti i cittadini indipendentemente dalle caratteristiche socio-economiche individuali o familiari, a configurazioni più dettagliate dello strumento che stabiliscono criteri specifici di accesso o di tipo economico (cosiddetta prova dei mezzi, means test), ovvero relativi alle caratteristiche dei beneficiari. Circoscrivendo l’attenzione ai soli strumenti che introducono qualche forma di selettività, è evidente che si possono declinare diverse tipologie, a seconda dell’entità dei sussidi, delle soglie di intervento scelte, delle caratteristiche dei beneficiari e dei meccanismi di definizione degli importi. Gli elementi di cui tenere conto nella scelta tra l’ampio ventaglio di alternative sono perciò numerosi. In particolare, credo sia opportuno specificare che una misura di reddito minimo dovrebbe essere associata (così come già fatto da molti Paesi Europei) a politiche di accompagnamento e inserimento nel mercato del lavoro, al fine di bilanciare gli effetti di disincentivo alla partecipazione all’offerta di lavoro: un individuo potrebbe scegliere di percepire un sussidio sicuro anziché lavorare, generando un meccanismo perverso noto come “trappola della povertà”, con perdite di efficienza a livello sia individuale (depauperamento del capitale umano) sia collettivo (inefficienza allocativa). Occorre anche affrontare i problemi che sorgono con riferimento alla cosiddetta prova dei mezzi, ovvero la scelta degli indicatori da utilizzare (reddito, patrimonio, ecc.) e l’attendibilità dell’accertamento dei requisiti richiesti, tenendo in giusto conto la significativa presenza di lavoro irregolare o parzialmente regolare e la dimensione rilevante dell’evasione fiscale. Anche in questo caso, infatti, potrebbero verificarsi effetti distorsivi influenzando lo stesso impatto dei provvedimenti in termini di equità. Infine, l’introduzione di questo tipo di misure implica una riconciliazione con le misure già esistenti (come esplicitamente previsto nel Ddl 1670) e può arrivare ad associarsi a una riforma più articolata di tutto il sistema di ammortizzatori sociali. È quindi di cruciale importanza la programmazione di politiche accessorie che aiutino ad armonizzare l’introduzione delle nuove misure.

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Nel disegno di legge 1148 viene proposta una misura di intervento a livello familiare denominata reddito di “cittadinanza”, che però in questo caso si configura come misura selettiva, limitando l’erogazione dei benefici alle famiglie il cui reddito è inferiore a una determinata soglia. La proposta, come risulta dal testo stesso del disegno di legge, ricalca nelle sue linee fondamentali la simulazione presentata dall’Istat nel Rapporto Annuale 2014 di un’imposta negativa sul reddito. Le stime si riferiscono a un sussidio che equivale alla differenza fra una soglia minima di intervento pari a 9.360 euro annui (stabilita secondo una valutazione dell’indicatore ufficiale di povertà monetaria al 2014, art.3 comma 1) e il 90 per cento del reddito familiare. Il beneficio mensile massimo, erogato alle famiglie senza reddito, è pari a 780 euro per un singolo e cresce con il numero di componenti della famiglia. Inoltre, come già illustrato in quella sede, la proposta in esame presenta alcune caratteristiche ritenute auspicabili per questo tipo di provvedimenti, in particolare:

  • è definita a livello familiare, per tener conto sia dei maggiori bisogni sia delle economie di scala consentite dalla condivisione delle spese nelle famiglie numerose;
  • copre in parte la differenza fra una soglia minima di intervento e il reddito familiare;
  • ripartisce il sussidio fra i diversi componenti della famiglia (attribuendolo a specifici beneficiari), al fine di tutelare sia l’autonomia di spesa degli individui per quanto riguarda le spese strettamente personali (per esempio l’abbigliamento), sia il loro potere decisionale (power spending) sulle spese comuni della famiglia (per esempio l’affitto);
  • il beneficio diminuisce gradualmente al crescere del reddito, in modo da evitare che ad ogni minimo incremento del reddito corrisponda una riduzione del sussidio di pari importo (o addirittura maggiore), e per contenere i disincentivi all’offerta di lavoro (trappola della povertà).

Nel Rapporto Annuale Istat, il costo totale della misura era stimato in 15,5 miliardi di euro, in un’ipotetica applicazione nel 2012. Le stime, che presento oggi, sono proiettate al 2015 con un utilizzo nel modello dei più recenti dati disponibili e delle previsioni macroeconomiche dell’Istat. Il costo totale del sussidio nel 2015 è stimato in circa 14,9 miliardi di euro. Il minor costo rispetto al 2012 è dovuto soprattutto al fatto che nel 2015 è presente il bonus di 80 euro mensili che, aumentando il reddito disponibile di una parte delle famiglie interessate dal provvedimento, riduce la quota complessiva da erogare. Secondo i risultati della simulazione, non vi è dispersione a favore dei non poveri, essendo la spesa interamente destinata a 2 milioni e 759 mila famiglie con un reddito inferiore alla linea di povertà (10,6 per cento delle famiglie residenti in Italia). Di queste, la maggior parte (2 milioni e 640 mila) ha un reddito inferiore all’80 per cento della linea di povertà relativa calcolata sui redditi con la metodologia europea. Per effetto della misura, le risorse economiche delle famiglie beneficiarie aumentano in misura significativa in relazione inversa rispetto al reddito. Il beneficio medio è massimo, pari a circa 12 mila euro annui, per le 390 mila famiglie in condizioni di povertà più grave (che dispongono di un reddito inferiore al 20 per cento di quello della linea di povertà) e si riduce a meno di 200 euro per le 120 mila famiglie che hanno un reddito superiore all’80 per cento della linea di povertà. La misura tende a costituire una rete di protezione sociale “compatta”, compensando eventuali insufficienze del sistema di welfare. Favorisce il contrasto alla povertà minorile e a quella dei giovani che vivono soli. La maggiore incidenza di beneficiari si osserva fra le coppie con figli minori (13,2 per cento delle famiglie, con un aumento del reddito del 44 per cento) e, soprattutto, fra i monogenitori con almeno un figlio minore (30 per cento di famiglie beneficiarie, con una maggiorazione del reddito del 76 per cento). La percentuale di famiglie con un reddito inferiore al 60 per cento della linea di povertà relativa viene di fatto azzerata in tutte le ripartizioni geografiche, con un impatto maggiore nel Mezzogiorno dove, prima della simulazione, il 12,4 per cento delle famiglie si trova in condizioni di povertà più grave. Poiché la soglia di intervento è posta al di sotto della linea di povertà relativa, il reddito di cittadinanza ha effetti nulli, per costruzione, sull’incidenza di povertà relativa. L’effetto della misura è massimo sulla povertà più grave e sull’intensità della povertà (misurata dal poverty gap ratio). Per effetto del provvedimento, nessuna famiglia si trova al di sotto del 50 per cento della linea di povertà relativa e il divario fra il reddito medio delle famiglie relativamente povere e la linea di povertà si dimezza. La disuguaglianza si riduce di quasi 2 punti secondo l’indice di Gini, che passa dallo 0,300 allo 0,282. Per questo tipo di indicatore, si tratta di una variazione significativa”. Giorgio Alleva – Presidente dell’Istituto nazionale di statistica

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Una crisi sociale

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Cinque anni di crisi, con la brusca accelerazione nel corso del 2012, hanno lasciato un segno profondo nella società italiana. Meno imprese, meno occupati, meno investimenti, meno ricchezza, un’area di sofferenza sociale crescente. Dal 2008 al 2012 in Italia si è perso il 2,4% dell’occupazione, il 6% del PIL, il 4,3% dei consumi delle famiglie, il 20% degli investimenti. Sono a rischio di occupazione nell’industria, ad oggi, circa 245.000 lavoratori. Solo le esportazioni hanno mantenuto i volumi del 2008. Il mercato del lavoro continuerà a manifestare segnali di debolezza, con un tasso di disoccupazione che dovrebbe arrivare all’11,9% nel 2013 e al 12,3% nel 2014, nonostante la moderata crescita del Pil prevista nel 2014.

Negli ultimi cinque anni (2008‐2012) sono scomparsi, nell’occupazione maschile, 726.424 posti di lavoro (‐5,1%), dato che deriva per la gran parte dal calo degli occupati nell’industria e nelle costruzioni (‐674,778). L’industria, con meno 415.485 occupati, ha perso l’8,3% di occupati, le costruzioni, con meno 259.293 occupati, hanno perso il 13,2%. La gran parte dell’occupazione sparita è attribuibile nell’area dei contratti “protetti”, cui rimane, in situazioni di crisi, la sola copertura degli ammortizzatori sociali, che peraltro spesso sono ammortizzatori in deroga, con le incertezze neifinanziamenti che stiamo sperimentando. Annunciano esuberi o eccedenze anche aree considerate solidamente “protette” come Ministeri (7.576), Enel (4.000), Poste (oltre 3.000), Finmeccanica‐Selex (2.529), settore bancario (20.000 posti di lavoro persi tra il 2008 e il 2011, altri 20.000 a rischio fino al 2017), per confermare come il recinto di “protezione” sia sempre più messo in discussione. Dall’altro lato, il settore dei servizi è stato in grado di produrre nuova occupazione anche nella fase di crisi. L’aumento, sempre negli ultimi cinque anni, è dell’1% (+153.328), in particolare per l’occupazione femminile, aumentata del 1,8%, 169.736 unità. A fine 2012 gli occupati nei servizi sono 15,6 milioni, vale a dire il 68,6% del totale degli occupati, il che indica un mercato del lavoro ampiamente “terziarizzato”. Il settore dei servizi, l’unico dinamico dal lato dell’occupazione, non è facilmente assimilabile alla logica dei contratti standard, derivati da un modello “fordista” nato dalla contrattazione nell’industria. Nel terziario dei servizi privati esistono complesse dinamiche di gruppi professionali, una grande articolazione delle stesse figure professionali, una pluralità accentuata di modelli organizzativi. Per fare solo un riferimento strutturale, il lavoro indipendente nei servizi rappresenta il 25,2%, da confrontarsi con il 14,5% dell’industria manifatturiera.

Confronti a livello europeo. Dal lato dei grandi numeri del mercato del lavoro, la situazione italiana, comparata a quella di altri paesi europei, non mostra particolari catastrofi fino a tutto il 2012, rispetto all’effetto di cinque anni di crisi (2008‐2012) diffusa nella gran parte dell’Europa. Il tasso di disoccupazione, tranne che in Germania, aumenta di qualche punto in tutta l’area europea. L’Italia, che parte dal 6,7% nel 2008, arriva al 10,7% nel 2012, da confrontarsi con il 10,5% della media dell’Unione Europea a 27 paesi. Nel 2012, la disoccupazione in Italia ha cominciato a crescere più intensamente. La differenza tra 2012 comparato al 2008 è +4,0 punti percentuali, più della media UE. A marzo 2013 il numero totale dei disoccupati è salito a 3 milioni in Italia e a 3,3 milioni in Francia. I senza lavoro superano i 25 milioni nel complesso dell’Unione europea (20 milioni nell’area dell’euro). Secondo stime della BNL, insieme ai disoccupati propriamente detti aumentano le dimensioni di aree contigue di grave disagio sociale. Sommando ai disoccupati gli inattivi disponibili a lavorare, quelli che cercano lavoro e i sotto‐occupati part‐time i numeri del deficit europeo di occupazione passerebbe da 25 a 45 milioni di persone (32 nell’area euro). Mentre nel suo insieme in Europa la disoccupazione cresce, in Germania la disoccupazione diminuisce a minimistorici. Oggi in Germania i disoccupati sono poco più di due milioni, la terza parte della somma di Italia e Francia.
*Decimo Rapporto sull’Industria in Italia


L’uomo che sussurra ai potenti. Trent’anni di potere in Italia tra miserie, splendori e trame mai confessate. Ministri, onorevoli e boiardi di Stato fanno la fila nel suo ufficio per chiedergli consigli, disegnare strategie e discutere di affari. Luigi Bisignani è unanimemente riconosciuto come il capo indiscusso di un network che condiziona la vita del paese.

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