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Ma quale invasione? Gli immigrati sono lo 0,07% della popolazione

immigrati italia 2015

“I barbari hanno aperto una breccia nel muro. L’Europa è invasa. Sono a rischio la nostra civiltà e la nostra prosperità. È questa l’essenza dell’ondata di panico morale scatenata dai richiedenti asilo indesiderati che questa estate hanno stretto in una morsa l’Europa. Ma invece di considerare questi coraggiosi e avventurosi nuovi arrivati come una minaccia, gli europei dovrebbero considerare con favore il contributo che potrebbero dare.

richiesta asilo politicoFinora nel 2015 circa 340.000 persone hanno tentato di entrare senza permesso nell’Unione europea. In tutto il 2014 sono stati 280.000. L’Unione europea ha 28 Paesi con una popolazione di 508 milioni, gli immigrati indesiderati di quest’anno sono quindi pari allo 0,07% della popolazione. Statisticamente, in una folla di 1500 persone solo una sarebbe un immigrato clandestino. La maggior parte di coloro che cercano rifugio in Europa provengono dalla Siria, dall’Afghanistan e dall’Eritrea. I siriani fuggono da una sanguinosa guerra civile e dal barbaro eccidio a opera dei miliziani dello Stato Islamico. L’Afghanistan è sconvolto dalla violenza dei talebani con i loro alleati di al Qaeda e gli esponenti locali dell’Isis. L’Eritrea vive sotto una brutale dittatura.

L’Agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite, Unhcr, riconosce che è in corso la più grande crisi di rifugiati dalla Seconda guerra mondiale. Ma riguarda soprattutto Paesi al di fuori della prospera e sicura Europa. Sei rifugiati su sette approdano nei Paesi poveri. La Turchia ospita 1.600.000 rifugiati rispetto al milione e mezzo di tutta l’Europa. Il minuscolo Libano ha accolto 1.200.000 rifugiati, oltre un rifugiato ogni quattro abitanti. Nel frattempo la Gran Bretagna sembra percorsa da un attacco isterico per i 3.000 rifugiati accampati a Calais. Il numero di persone che cercano rifugio in Europa è modesto anche in rapporto ai molti milioni di europei sfollati e rifugiati all’estero dopo la seconda guerra mondiale e ai milioni costretti a lasciare la propria casa dopo il crollo del comunismo e le guerre nell’ex Jugoslavia negli anni 90. Come dimenticano in fretta gli europei!

Certo, i nuovi arrivati possono creare tensioni nelle piccole comunità di arrivo, come a Lampedusa e nell’isola greca di Kos. Ma la maggior parte dei rifugiati vogliono andarsene e lo fanno. Con la sola lodevole eccezione della Svezia, la maggior parte dei Paesi europei fanno del loro meglio per passare agli altri il “peso” dei richiedenti asilo. Ufficialmente i richiedenti asilo dovrebbero chiedere asilo nel primo Paese sicuro in cui arrivano. Ma pochi desiderano rimanere in una Grecia colpita dalla crisi e che non desidera accoglierli e, di conseguenza, le autorità greche spesso consentono ai rifugiati di attraversare illegalmente il Paese chiudendo un occhio, come fanno anche gli italiani. Questo atteggiamento suscita le proteste nel Nord ricco del continente dove finiscono per arrivare la maggior parte dei richiedenti asilo. Il ministro degli Interni tedesco avverte che la libertà di movimento all’interno dell’Europa non può durare a meno di un accordo su una politica comune in materia di asilo. Spinti dalla Commissione europea, i leader della Ue fanno malvolentieri primi passi in questa direzione. Hanno concordato di dividersi 32.000 richiedenti asilo. Solo Gran Bretagna, Austria e Ungheria non hanno aderito all’accordo. Il governo nazionalista slovacco accetterà solo 200 rifugiati, a condizione che siano cristiani. Ma invece di farsi prendere dal panico per una presunta invasione o di polemizzare su chi debba accollarsi il “peso” dei nuovi arrivati, l’Europa potrebbe considerare in modo favorevole il contributo che potrebbero dare.

L’Europa ha bisogno dei migranti. La popolazione in età lavorativa è in continuo calo mentre il numero dei pensionati che i lavoratori europei debbono mantenere è in ascesa, sta andando in pensione la generazione dei baby boomers. Rifugiati giovani, capaci di lavorare sodo e di contribuire con le imposte alle casse dello Stato, sarebbero una cura ricostituente per le economie europee debilitate dal peso degli anziani. Potrebbero contribuire a spalmare su più spalle il peso dell’enorme debito pubblico con grandi vantaggi per l’attuale popolazione. Potrebbero fare i lavori duri che i giovani europei con più elevate aspirazioni rifiutano: raccogliere la frutta e prendersi cura degli anziani, per esempio. Molti hanno abilità professionali preziose che possono essere messe a frutto negli ospedali, nell’ingegneria o nel settore dell’informatica. Altri potrebbero diventare imprenditori.

La migrazione è come avviare una azienda: è una impresa rischiosa che richiede un duro lavoro per ottenere risultati. La diversità e il dinamismo dei nuovi arrivati possono contribuire a far nascere nuove idee da cui dipende la futura crescita dell’Europa. La gente disperata e intraprendente non smetterà di arrivare in Europa. Invece di abbandonarli nelle mani di mercanti di esseri umani senza scrupoli che causano caos e morte in Europa e altrove, sarebbe meglio aprire corridoi umanitari legali e sicuri. La libertà di movimento nell’Ue funziona benissimo per i cittadini europei. La Svezia permette alle aziende di assumere lavoratori provenienti da tutto il mondo con un visto temporaneo di due anni, rinnovabile. L’Europa dovrebbe consentire alla gente di lavorare qui”. Articolo per il Fatto Quotidiano, del 3 settembre 2015, di Philippe Legrain economista e scrittore

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L’età d’oro delle forze speciali degli USA, in missione in 150 nazioni

US Navy SEALs

“Il seguente articolo è ciò che volevo evidenziare da oltre una settimana, ma le notizie erano così travolgenti che semplicemente non ne ho avuto la possibilità, finora. Avendo spese molto tempo a cercare di capire il mondo, mi stupisco sempre di ciò che leggo. Mentre i lettori abituali di questo sito sono ben consapevoli di come aggressivo e irresponsabile sia l’impero USA, distribuendo risorse militari all’estero, credo che parte delle seguenti informazioni, li renderanno ancora più inquieti.

Durante l’anno fiscale che si è concluso il 30 settembre 2014, le forze delle operazioni speciali (SOF) statunitensi erano presenti in 133 Paesi, circa il 70% delle nazioni del pianeta. Secondo il tenente-colonnello Robert Bockholt, ufficiale delle relazioni pubbliche del Comando Operazioni Speciali (SOCOM). Nell’arco di tre anni le forze d’élite del Paese erano attive in più di 150 Paesi nel mondo conducendo missioni che vanno dai raid notturni alle esercitazioni. E quest’anno potrebbe essere record. Solo un giorno prima del raid fallito che pose fine alla vita di Luke Somers, solo 66 giorni dall’inizio dell’anno fiscale 2015, le truppe d’élite statunitensi avevano già messo piede in 105 nazioni, circa l’80% del totale nel 2014. Nonostante dimensioni e scopi, tale guerra segreta globale in gran parte del pianeta è ignota alla maggior parte degli statunitensi. A differenza della debacle di dicembre nello Yemen, la stragrande maggioranza delle Special Ops rimane completamente nell’ombra, nascosta al controllo esterno. In realtà, a parte modeste informazioni divulgate attraverso fonti altamente selezionate dai militari, fughe ufficiali della Casa Bianca, SEALs con qualcosa da vendere e qualche primizia raccolta da giornalisti fortunati, le operazioni speciali statunitensi sono mai sottoposte a un esame significativo, aumentando le probabilità di ripercussioni impreviste e conseguenze catastrofiche. Il comando è allo zenit assoluto. Ed è davvero un periodo d’oro per le operazioni speciali“. Queste sono le parole del generale Joseph Votel III, laureato a West Point e Army Ranger, quando assunse il comando della SOCOM lo scorso agosto. E non credo che sia la fine, anzi. Come risultato della spinta di McRaven a creare “una rete globale interagenzie di alleati e partner delle SOF“, ufficiali di collegamento delle Operazioni Speciali, o SOLO, sono ora incorporati nelle 14 principali ambasciate degli USA per aiutare a consigliare le forze speciali di varie nazioni alleate. Già operano in Australia, Brasile, Canada, Colombia, El Salvador, Francia, Israele, Italia, Giordania, Kenya, Polonia, Perù, Turchia e Regno Unito, e il programma SOLO è pronto, secondo Votel, ad espandersi in 40 Paesi entro il 2019. Il comando, e soprattutto il JSOC, ha anche forgiato stretti legami con Central Intelligence AgencyFederal Bureau of InvestigationNational Security Agency, tra gli altri. La portata globale del Comando Operazioni Speciali si estende anche oltre, con più piccoli ed più agili elementi che operano nell’ombra, dalle basi negli Stati Uniti alle regioni remote del sud est asiatico, dal Medio Oriente agli austeri avamposti nei campi africani. Dal 2002, SOCOM è stato anche autorizzato a creare proprie task force congiunte, una prerogativa normalmente limitata ai comandi combattenti più grandi come CENTCOM. Si prenda ad esempio la Joint Special Operations Task Force-Filippine (JSOTF-P) che, al suo apice, aveva circa 600 effettivi statunitensi a sostegno delle operazioni di controterrorismo dagli alleati filippini contro gruppi di insorti come Abu Sayyaf. Dopo più di un decennio trascorso combattendo quel gruppo, i numeri sono diminuiti, ma continua ad essere attivo mentre la violenza nella regione rimane praticamente inalterata.

L’Africa è, infatti, diventato un luogo importante per le oscure missioni segrete degli operatori speciali statunitensi. “Questa particolare unità ha fatto cose impressionanti. Che si trattasse di Europa o Africa, assumendovi una serie di contingenze, avete tutti contribuito in modo assai significativo“, aveva detto il comandante del SOCOM, generale Votel, ai membri del 352.mo Gruppo Operazioni Speciali presso la loro base in Inghilterra, lo scorso autunno. Un’operazione di addestramento clandestina delle Special Ops in Libia implose quando milizie o “terroristi” fecero irruzione due volte nella base sorvegliata dai militari libici, e saccheggiarono grandi quantità di apparecchiature avanzate e centinaia di armi, tra cui pistole Glock e fucili M4 statunitensi, così come dispositivi di visione notturna e laser speciali che possono essere visti solo da tali apparecchiature. Di conseguenza, la missione fu abbandonata assieme alla base, che fu poi rilevata da una milizia. Nel febbraio dello scorso anno, le truppe d’élite si recarono in Niger per tre settimane di esercitazioni militari nell’ambito di Flintlock 2014, una manovra antiterrorismo annuale che riuniva le forze di Niger, Canada, Ciad, Francia, Mauritania, Paesi Bassi, Nigeria, Senegal, Regno Unito e Burkina Faso. Diversi mesi dopo, un ufficiale del Burkina Faso, addestratosi all’antiterrorismo negli Stati Uniti nell’ambito del Joint Special Operations presso l’Università del SOCOM nel 2012, prese il potere con un colpo di Stato. Le operazioni delle forze speciali, invece, continuano. Alla fine dello scorso anno, per esempio, nell’ambito del SOC FWD dell’Africa occidentale, i membri del 5° battaglione del 19.mo Gruppo Forze Speciali collaboravano con le truppe d’élite marocchine per l’addestramento in una base presso Marrakesh. Lo schieramento in nazioni africane, però, avviene entro la rapida crescita delle operazione all’estero del Comando delle Operazioni Speciali. Negli ultimi giorni della presidenza Bush, sotto l’allora capo del SOCOM, ammiraglio Eric Olson, le forze speciali sarebbero state dispiegate in circa 60 Paesi. Nel 2010 in 75, secondo Karen DeYoung e Greg Jaffe del Washington Post. Nel 2011, il portavoce del SOCOM, colonnello Tim Nye, disse a TomDispatch che il totale sarebbe stato 120 Paesi entro la fine dell’anno. Con l’ammiraglio William McRaven, in carica nel 2013, l’allora maggiore Robert Bockholt disse a TomDispatch che il numero era salito a 134 Paesi. Sotto il comando di McRaven e Votel nel 2014, secondo Bockholt, il totale si ridusse leggermente a 133 Paesi. Il segretario alla Difesa Chuck Hagel aveva osservato, tuttavia, che sotto il comando di McRaven, dall’agosto 2011 all’agosto 2014, le forze speciali erano presenti in più di 150 Paesi. In effetti, SOCOM e tutti i militari degli Stati Uniti sono più che mai impegnati a livello internazionale, in sempre più luoghi e in una sempre più ampia varietà di missioni“, ha detto in un discorso nell’agosto 2014.

Il SOCOM ha rifiutato di commentare la natura delle missioni o i vantaggi dell’operare in tante nazioni. Il comando non farà neanche il nome di un solo Paese in cui le forze delle operazioni speciali USA sono state dispiegate negli ultimi tre anni. Uno sguardo ad alcune operazioni, esercitazioni ed attività rese pubbliche, però, dipinge un quadro di un comando in costante ricerca di alleanze in ogni angolo del pianeta.

A settembre, circa 1200 specialisti e personale di supporto statunitensi si unirono alle truppe d’élite di Paesi Bassi, Repubblica Ceca, Finlandia, Gran Bretagna, Lituania, Norvegia, Polonia, Svezia, Slovenia nell’esercitazione Jackal Stone, dedicata a tutto, dai combattimenti ravvicinati alle tattiche da cecchino, dalle piccole operazioni su imbarcazione a missioni di salvataggio degli ostaggi. Per i capi delle Black Ops degli USA, il mondo è tanto instabile quanto interconnesso. Vi garantisco che ciò che succede in America Latina influisce su ciò che accade in Africa occidentale, ciò che interessa l’Europa meridionale riguarda ciò che accade nel sud-ovest asiatico“, ha detto l’anno scorso McRaven a Geolnt, un incontro annuale dei dirigenti dell’industria spionistica con i militari. La loro soluzione all’instabilità interconnessa? Più missioni in più nazioni, in più di tre quarti dei Paesi del mondo, sotto il mandato di McRaven. E la scena sembra destinata ad ulteriori operazioni simili in futuro. “Vogliamo essere ovunque“, ha detto Votel a Geolnt. Le sue forze sono già sulla buona strada nel 2015. “La nostra nazione ha aspettative molto alte dalle SOF“, ha detto agli operatori speciali in Inghilterra lo scorso autunno. “Si rivolgono a noi per missioni molto dure in condizioni molto difficili“. Natura e sorte della maggior parte di quelle “missioni dure” tuttavia, rimangono ignote agli statunitensi. E Votel a quanto pare non è interessato a far luce. “Mi dispiace, ma no“, fu la risposta di SOCOM alla richiesta di TomDispatch per un colloquio con il capo delle operazioni speciali sulle operazioni, in corso e future. In realtà, il comando rifiutò di mettere qualsiasi personale a disposizione per una discussione di ciò che fa in nome degli USA e con i dollari dei contribuenti. Non è difficile indovinarne il motivo. Attraverso una combinazione abile di spavalderia e segretezza, fughe ben piazzate, abili marketing e pubbliche relazioni, coltivazione della mistica del superman (con un ciuffo dalla torturata fragilità di lato) e di estremamente popolari e pubbliciazzatti assassinii mirati, le forze speciali sono diventate le beniamine della cultura popolare statunitense, mentre il comando continua a vincere a Washington il pugilato sul bilancio. Ciò è particolarmente evidenziato da ciò che realmente accade sul campo: in Africa, armamento ed equipaggiamento di militanti e addestramento di un golpista; in Iraq, le forze d’elite statunitensi implicate in torture, distruzione di case, uccisione e ferimento di innocenti; in Afghanistan stessa storia, con ripetute segnalazioni di civili uccisi; mentre in Yemen Pakistan, e Somalia è lo stesso. E questo è solo una minima parte degli errori delle Special Ops. Quindi non solo il pubblico statunitense non ha idea di cosa succeda, ma ciò spesso finisce in un disastro. Vedasi più sotto.

Dopo più di un decennio di guerre segrete, sorveglianza di massa, un numero imprecisato di incursioni notturne, detenzioni ed omicidi, per non parlare di miliardi su miliardi di dollari spesi, i risultati parlano da soli. Il SOCOM ha più che raddoppiato le dimensioni e il segreto JSOC sarebbe grande quasi quanto il SOCOM nel 2001. Dal settembre di quell’anno, 36 nuovi gruppi terroristici sono nati, tra cui divesre succursali, propaggini e alleati di al-Qaida. Oggi, tali gruppi ancora operano in Afghanistan e Pakistan, dove ora ci sono 11 riconosciuti affiliati di al-Qaida, e cinque nella prima, così come in Mali, Tunisia, Libia, Marocco, Nigeria, Somalia, Libano e Yemen, tra gli altri Paesi. Un ramo è nato con l’invasione dell’Iraq, alimentato da un campo di prigionia statunitense, ed ora noto come Stato islamico che controlla una larga parte del Paese e della vicina Siria, un proto-califfato nel cuore del Medio Oriente che i jihadisti, nel 2001, potevano solo sognarsi. Quel gruppo, da solo, ha una forza stimata di circa 30000 armati che sono riusciti a conquistare grandi territori ed anche la seconda dell’Iraq, pur essendo incessantemente colpiti fin dall’inzio dal JSOC. “Dobbiamo continuare a sincronizzare il dispiegamento delle SOF in tutto il mondo“, dice Votel. “Dobbiamo tutti sincronizzarci, coordinarci e preparare il comando“. Ad essere fuori sincrono è il popolo statunietnse, costantemente tenuto all’oscuro di ciò che gli operatori speciali statunitensi fanno e dove lo fanno, senza citare i fallimenti e le conseguenze che hanno prodotto. Ma se la storia insegna, i blackout sulle Black Ops contribuiranno a garantire che continui ad esserci l’”età d’oro” dell’US Special Operations Command. Ripetete dopo di me: USA! USA!” Tyler Durden, Zerohedge

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Il nuovo re dell’Arabia Saudita sostiene e finanzia al-Qaida

Salman bin Abdulaziz al-Saud

“Il nuovo re dell’Arabia Saudita, Salman bin Abdulaziz al-Saud, fratellastro di re Abdullah, morto a 90 anni per le complicazioni di una polmonite, dovrebbe governare in senso ancor più wahabita e concentrarsi a limitare la prudente politica di riforme iniziata da Abdullah. Salman dovrebbe anche dedicare energia ad aumentare la sicurezza nazionale saudita.

La devozione di Salman alla sicurezza saudita è ipocrita, dato il suo passato sostegno ad al-Qaida, tra cui alcuni soggetti implicati nell’attacco dell’11 settembre contro gli Stati Uniti. Il coinvolgimento di Salman nel finanziamento dei terroristi dell’11 settembre, ed altri, probabilmente rafforzerà il rifiuto dell’amministrazione Obama di declassificare le 28 pagine mancanti dal rapporto del Comitato sull’Intelligence del Senato, del 2002, sui fallimenti dell’intelligence riguardo l’attacco. Allora governatore di Riyadh, Salman probabilmente appare tra i responsabili nelle 28 pagine del rapporto del Senato.

In apparenza Salman non governerà assai diversamente dal predecessore su politica del petrolio e sicurezza nazionale. Salman sarà assistito dal figlio, principe Muhammad bin Salman, ministro della difesa e capo della corte reale. Muhammad fu principale consigliere del padre quando era governatore della provincia di Riyadh. Il principe Muhammad è divenuto ministro della Difesa quando il padre è salito al trono dopo la morte di Abdullah. L’altro consulente di Salman sarà Muhammad bin Nayaf, ministro degli interni dal 2012 e attuale secondo principe ereditario e secondo viceprimo ministro. Nayaf, nipote di re Salman, è secondo in linea al trono dopo il principe ereditario Muqrin bin Abdulaziz al-Saud. Muqrin era il capo del Muqabarat al-Amah, l’agenzia d’intelligence saudita nel 2005-2012.

Nel 2006, i capi dell’opposizione democratica saudita in Gran Bretagna accusarono Salman, allora governatore della provincia di Riyadh, di fornire aiuti materiali ad al-Qaida in Afghanistan, prima e dopo l’11 settembre. L’opposizione rivelò che i membri di al-Qaida viaggiavano regolarmente da Riyadh al Pakistan e poi alle regioni governate dai taliban in Afghanistan. Questi sauditi riferirono anche che il governatorato di Salman pagava in contanti hotel e voli aerei ai membri di al-Qaida. Non c’è dubbio che le attività di Salman per conto di al-Qaida siano note alla Central Intelligence Agency (CIA), che approvò i rifornimenti sauditi ai guerriglieri arabi tra i mujahidin in Afghanistan fin dai primi giorni del coinvolgimento di Langley nella campagna jihadista per abbattere il governo socialista e laico dell’Afghanistan.

Poco prima della sospetta morte in Scozia nel 2005, l’ex-ministro degli Esteri inglese Robin Cook scrisse su The Guardian che “al-Qaida” era l’archivio dei mercenari, finanzieri ed interlocutori utilizzati dalla CIA per combattere i sovietici in Afghanistan: “Per tutti gli anni ’80, lui (Usama bin Ladin) fu armato dalla CIA e finanziato dai sauditi per la jihad contro l’occupazione russa dell’Afghanistan. Al-Qaida, letteralmente ‘l’archivio’, era in origine i file dei computer di migliaia di mujahidin reclutati e addestrati dalla CIA per sconfiggere i russi”.

Secondo l’opposizione saudita e Cook, è inconcepibile che Salman non fosse a conoscenza delle attività del personale del suo governatorato a Riyadh. Quando un principe saudita e noto parente di re Salman, il primo consigliere principe Muhammad bin Nayaf, chiamato anche Nayif, fu arrestato in Francia per narcotraffico nel 1999, il ministero degli Interni saudita informò Parigi nel 2000 che se la Francia trascinava in tribunale il principe Nayaf, il contratto da 7 miliardi di dollari per il radar della difesa del progetto SBGDP (“Garde Frontiere”) con la ditta franceseThales, sarebbe stato annullato. I dettagli si trovano in un cablo diplomatico francese riservato, datato 21 febbraio 2000. Il tema del cablo era un incontro tra funzionari francesi e il ministro degli Interni saudita principe Nayaf, sul caso di un aereo saudita sospettato di narcotraffico (“Prince Nayef, ministre saoudien de l’interieure. Affaire de l’avion saoudien soupçonne d’avoir servi a un traffic stupefiants“.) Il cablo fu inviato dal consulente tecnico del ministero degli interni francese François Gouyette al ministero della giustizia francese e all’ambasciata francese a Riyadh. Gouyette divenne ambasciatore francese negli Emirati Arabi Uniti nel 2001. La cocaina spacciata da Nayaf era, secondo un documento riservato dell’US Drug Enforcement Administration (DEA), utilizzata per finanziare al-Qaida in Afghanistan. Il denaro del ministero dell’Interno per pagare le reclute del terrorismo che passavano per Riyadh, era i proventi del narcotraffico detenuti in conti bancari segreti. La CIA lo sapeva e incoraggiava i pagamenti sottobanco delle reclute di al-Qaida, proprio come fa oggi con le reclute di al-Qaida liberate dalle carceri saudite e pagate dai mediatori governativi sauditi.

Nel 1999, la DEA sventò una cospirazione, per contrabbandare cocaina colombiana dal Venezuela, del principe Nayaf a sostegno di certe “intenzioni future” basate su una profezia coranica. Le operazioni della DEA erano contenute in un memorandum “di declassificazione del documento segreto 6 della DEA ufficio di Parigi” del 26 giugno 2000. Nel giugno 1999, 808 chilogrammi di cocaina furono sequestrati a Parigi. Nello stesso tempo, la DEA conduceva una grande inchiesta sul cartello della droga di Medellin, chiamata Operazione Millennio. Attraverso un fax intercettato, l’ufficio di Bogota della DEA apprese della cocaina sequestrata a Parigi e collegò l’operazione ai sauditi. L’indagine della DEA s’incentrava sul principe saudita Nayaf al-Saud, il cui alias era “El Principe”. Il nome completo di Nayaf è Nayaf (o Nayif) bin Fawaz al-Shalan al-Saud. Nel perseguimento dei suoi traffici di droga internazionali, Nayaf viaggiava con il suo Boeing 727 e sfruttò il suo status diplomatico per evitare i controlli doganali. Il rapporto della DEA affermava che Nayaf aveva studiato presso l’Università di Miami, in Florida, di proprietà di una banca in Svizzera, parla otto lingue, aveva pesantemente investito nell’industria petrolifera del Venezuela, visitava regolarmente gli Stati Uniti e viaggiava con milioni di dollari statunitensi.

Nayaf aveva anche investito nell’industria petrolifera della Colombia. Nayef avrebbe incontrato i membri del cartello della droga a Marbella, in Spagna, dove la famiglia reale saudita ha una grande palazzina. La relazione afferma che, quando un gruppo di membri del cartello si recò a Riyadh per incontrare Nayaf, “furono accolti da una Rolls Royce appartenente a Nayaf e portati all’hotel Holiday Inn Riyadh. Il giorno successivo furono accolti da Nayaf e dal fratello (che si credeva si chiamasse Saul (sic). Il fratello gemello è il principe Saud. Il fratello maggiore, principe Nawaf, è sposato con la figlia di re Abdullah)… Il secondo giorno viaggiarono nel deserto su fuoristrada (Hummer). Durante il viaggio nel deserto discussero di narcotraffico. “UN” (informatore della DEA) e Nayaf accettaono di spedire 2000 kg di cocaina a Caracas, usando gente di UN, da cui Nayaf poteva facilitarne il trasporto a Parigi. Nayaf spiegò che avrebbe utilizzare il suo jet di linea 727, sotto copertura diplomatica, per il trasporto della cocaina. Nayaf disse a “UN” che poteva trasportare 20000 chilogrammi di cocaina nel suo aereo di linea, e propose ad “UN” di inviarne 10-20000 chilogrammi in futuro. “UN” chiese perché Nayaf, presumibilmente devoto musulmano, fosse coinvolto nel narcotraffico. La risposta di Nayaf illumina ciò che oggi è noto del finanziamento del terrorismo saudita, meritevole di attenta lettura. Durante l’incontro di Riyadh, Nayaf rispose alla domanda di “UN” affermando che “è un rigoroso sostenitore del Corano musulmano (sic)”. “UN” dichiarò, “Nayaf non beve, non fuma né viola qualsiasi precetto del Corrano (sic)”. “UN” chiese a Nayaf perché voleva vendere cocaina e Nayaf rispose che il mondo è già condannato e che era stato autorizzato da Dio a venderla. Nayaf disse a “UN” che poi avrebbe capito le vere intenzioni del suo narcotraffico, sebbene poi non dicesse altro. Il narcotraffico del principe saudita fu distrutto da DEA e polizia francese nell’ottobre 1999. Il riciclaggio di narcodollari a sostegno dei terroristi di al-Qaida in Afghanistan e Pakistan, la rigida interpretazione del Corano nel futuro governo dell’Arabia Saudita, il ritorno della temuta polizia religiosa, la “mutawin” e la repressione del legittimo dissenso interno in Arabia Arabia: questo è lo stile di governo che re Salman porta all’Arabia Saudita”. Wayne Madsen – globalresearch

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Missioni internazionali: In 9 mesi spesi 890 milioni di euro

Missioni-internazionali


Circa 673 milioni di euro per soli sei mesi. A tanto ammonta il rifinanziamento delle missioni internazionali deciso dall’ultimo consiglio dei ministri dello scorso 10 gennaio per il periodo che va fino al 30 giugno 2014. Una spesa esorbitante, non c’è dubbio, soprattutto se si considera che soltanto ad ottobre era stato presentato e approvato dall’esecutivo un decreto sul finanziamento delle missioni internazionali per il periodo ottobre-dicembre 2013 dal valore totale di circa 217 milioni di euro. In pratica, dunque, si arriva ad un totale di 890 milioni di euro in soli nove mesi. La più grande fetta del finanziamento è diretta “per la proroga della partecipazione di personale militare alle missioni in Afghanistan”: un totale, per il prossimo semestre, di oltre 235 milioni di euro a cui si aggiungono ulteriori nove milioni per mantenere altro personale negli Emirati Arabi Uniti, in Bahrain, in Qatar e a Tampa “per esigenze connesse con le missioni in Afghanistan”. E poi Libano (81 milioni), Balcani (40), Corno d’Africa (5), programmi europei come quello per il contrasto alla pirateria, rifinanziato per 25 milioni di euro. “Trattamento riservato” alla Libia, a cui andranno 5 milioni “per la proroga della partecipazione di personale militare alla missione dell’Unione europea in Libia”, più ulteriori tre milioni “per garantire la manutenzione ordinaria delle unità navali cedute dal Governo italiano al Governo libico e per lo svolgimento di attività addestrativa del personale della Guardia costiera libica”.

Le spese che non ti aspetti. Accanto ai finanziamenti cash, però, ecco anche curiosi “regali” come i 25 giubbotti antiproiettili alla Tunisia, i 2 veicoli “VBL PUMA” al Regno Hascemita di Giordania o i 50 veicoli “tipo ACM80” più effetti di vestiario alle forze armate somale (per un totale di 805mila euro). E poi il finanziamento che non ti aspetti: 11 milioni per il corrente anno, più altri 34 per il 2015, “per la partecipazione dell’Italia alla ristrutturazione del Quartier Generale della NATO in Bruxelles”. Certo, non è una vera e propria “missione internazionale”. Il risultato, però, non cambia: il conto, alla fine, lo pagano comunque i cittadini. (*La Notizia)

Nel dettaglio alcune spese:

  • 124,5 milioni di euro per la partecipazione del personale militare italiane alle missioni ISAF ed EUPOL in Afghanistan
  • 40,2 milioni per la partecipazione del contingente italiano in Libano (missione UNIFIL)
  • 22,4 milioni per la prosecuzione delle presenza militare italiana nei Balcani
  • 2,9 milioni di euro per la partecipazione del personale della Guardia di Finanza in attuazione degli accordi di cooperazione italo-libici per fronteggiare il fenomeno dell’immigrazione clandestina e della tratta di essere umani
  • 23,6 milioni di euro iniziative di cooperazione in favore di Afghanistan, Iraq, Libia, Mali, Myanmar, Pakistan, Siria, Somalia, Sudan, Sud Sudan e Paesi ad essi limitrofi
  • di 4 milioni di euro all’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (OPAC), finalizzato allo smantellamento del programma chimico siriano
  • 300.000 euro per lo stanziamento a favore delle associazioni combattentistiche.
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Noi siamo i Non Morti, la guerra nella faccia del soldato

Noi siamo i Non Morti

Il fotografo Lalage Snow, durante il suo periodo di inviato a Kabul, ha lanciato un progetto dal titolo “Noi siamo i Non Morti” (We Are The Not Dead). Ha ritratto le facce di alcuni soldati inglesi prima, durante e dopo il loro impiego in Afghanistan. Osservando le tre immagini in sequenza si possono notare i cambiamenti fisici, e negli occhi, di questi giovani soldati in tempo di guerra.

Non esiste uomo folle al punto di preferire la guerra alla pace. In pace i figli seppelliscono i padri, in guerra sono invece i padri a seppellire i figli.
Erodoto

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