La data del 24 ottobre 1929, di cui ricorre oggi l’ottantatreesimo anniversario, ai molti apparirà priva di significato. Nessuna nascita o morte eccellente, nessun inizio o fine di conflitto più o meno mondiale e neanche una scoperta o invenzione che avrebbe fatto sussultare il mondo scientifico. Nonostante ciò, quel lontano giovedì d’autunno avrebbe segnato un costante punto di riferimento per chiunque si fosse avvicinato allo studio della storia, dell’economia ed ai complessi meccanismi che sovrintendono alla sfera più specificatamente finanziaria.
La borsa newyorkese di Wall Street, già allora tempio della finanza, quel giorno fu protagonista di uno spettacolare crollo, che investì l’intero sistema economico statunitense, destinato a scolpirsi nella memoria collettiva non solo americana. Molteplici furono gli elementi che concorsero al tonfo della borsa di oltreoceano.
A partire dalla fine del XIX secolo il tessuto socio-economico americano fu oggetto di una rapida trasformazione; nacquero grandi imprese industriali e bancarie, primarie case automobilistiche e, con esse, la classe salariata, che progressivamente si sarebbe affermata a partire dall’inizio del Novecento. La rapidità di tale ascesa, però, conteneva in sé i germi della sua fragilità.
La promozione di questa nuova classe sociale e la sua irruzione nel (fino ad allora) ristretto novero degli investitori finanziari determinò un forte incremento dei volumi borsistici di scambio e dei relativi corsi. L’indice Dow Jones raggiunse il suo massimo storico il 3 settembre 1929 a 381 punti (1926 = 100), con un guadagno del 340% rispetto al 1923. Il biennio 1928-29 fu caratterizzato da una vera e propria febbre speculativa: la borsa, o meglio l’insieme delle negoziazioni che vi si conclusero, aveva perso il contatto con la realtà. Era, quindi, inevitabile che, non appena fosse venuta meno la fiducia nel valore delle azioni, la spirale delle vendite avrebbe preso il sopravvento e, con essa, il crollo dei prezzi. Cosa che puntualmente accadde.
Gli effetti moltiplicativi della recessione, infatti, non furono più fronteggiati, come nel secolo precedente, dal predominio nel mondo della finanza di una classe imprenditoriale insensibile alle fluttuazioni tipiche del settore, ma accentuati dal comportamento emotivo e dalla fragilità psicologica della nuova tipologia di investitori. A questo scenario interno si aggiunsero altri fattori, riconducibili ad equilibri politico-economici internazionali, che contribuirono a determinare la dinamica ribassista: il 13 novembre l’indice Dow Jones cadde a 198 punti e a dicembre il livello medio dell’indice fu pari a 147 punti.
Gli Stati Uniti, che nel 1918 si trasformarono da paese debitore netto in creditore netto in conseguenza del rapido aumento dell’eccedenza delle esportazioni e degli ingenti prestiti concessi agli Alleati, erano divenuti una primaria potenza economica proprio nel momento in cui l’Europa, da poco uscita dall’esiziale primo conflitto mondiale, era ancora alle prese con le sue devastanti conseguenze politiche, sociali ed economiche. La Germania, abbandonata al suo destino dalla miopia delle potenze vincitrici (soprattutto della Francia, che nel 1923 arrivò persino ad occupare la Ruhr), era allo sbando ed in preda ad una spaventosa inflazione che travolse direttamente la sua moneta ed il suo sistema bancario.
In Inghilterra, il 21 settembre 1929 il governo autorizzò la Banca centrale a sospendere i pagamenti in oro e nel 1931 Londra abbandonò il gold standard. Anche altri Paesi europei, come l’Austria, attraversavano anni di forte depressione e di domanda interna molto debole. Nel maggio del ’31, ad esempio, la Creditanstalt di Vienna, una delle banche più grandi ed importanti dell’Europa centrale, sospese i pagamenti.
Il crack del ’29 fu determinato da molteplici cause strutturali e contingenti che si annodarono ed alimentarono reciprocamente e sulle quali, dopo oltre ottant’anni, non c’è generale consenso. Un posto d’onore tra esse spetta tuttavia al politicamente dissennato oltranzismo degli Stati Uniti dimostrato sulla cruciale questione dei debiti vantati verso gli alleati europei e delle proibitive riparazioni in contanti e in natura dei danni di guerra imposte alla Germania dal Trattato di Versailles.
Gli alleati europei, al termine delle ostilità, si aspettavano che i debiti sarebbero stati cancellati, considerando anche il modesto contributo in uomini e in materiali apportato dagli Stati Uniti allo sforzo bellico. Ma gli Americani vedevano nei prestiti una iniziativa commerciale. Se la Germania non avesse pagato le cosiddette riparazioni ai vincitori, questi ultimi, debitori degli Stati Uniti, non avrebbero mai potuto onorare i propri debiti verso Washington. L’insistenza degli statisti americani di trattare ogni posizione isolatamente dalle altre invece di riconoscerne le reciproche relazioni fu uno dei fattori che negli anni Venti determinò le tensioni legate alle compensazioni valutarie tra Stati. Quando nel 1928 banche ed investitori americani limitarono gli acquisti di titoli tedeschi (l’afflusso di fondi dall’America alla Germania era stato il solo modo per favorire la regolarizzazione delle numerose pendenze internazionali) per investire la propria liquidità sul mercato azionario domestico, iniziò una spettacolare ascesa che alimentò la bolla speculativa. Anche segmenti di popolazione di condizioni modeste tentarono l’avventura in borsa. E fu il disastro.
Al grande crollo seguì la grande depressione: una fase che negli Usa non fu superata neanche con il New Deal di Roosevelt e con la legge forse più caratteristica dell’intero periodo, il National Industrial Recovery Act. Il New Deal non fu efficace nell’affrontare la depressione. Il risanamento industriale fu deludente. Nel 1937 l’economia entrò in una nuova fase di recessione e l’obiettivo del pieno impiego fallì.
Gli Stati Uniti, al momento dell’entrata in guerra a fine 1941, contavano oltre sei milioni di disoccupati (benché fossero quindici quando, nel marzo 1933, Franklin Delano Roosevelt entrò in carica come presidente).
Fu necessaria la Seconda Guerra mondiale affinché l’economia statunitense avviasse un persistente circolo virtuoso di alta domanda aggregata, assorbimento della disoccupazione, aumento dei redditi e soprattutto di egemonia del dollaro. Un dominio planetario del biglietto verde sancito nel luglio del 1944 a Bretton Woods dove la tesi del ministro del Tesoro americano Whites (sistema di parità fisse tra monete basato sulla convertibilità del dollaro in oro) ebbe la meglio su quella di Keynes (creazione di una moneta artificiale, il “bancor”, accettata da tutti i membri aderenti all’unione valutaria utilizzabile a saldo dei debiti esteri).
Una difficile posizione – quella di Keynes – che si poneva in coerente linea con le sue predizioni di Versailles e a forte distanza da quelli che furono gli interessi egemonici di Washington sulla vicenda della interrelazione tra debiti e riparazioni di guerra che aveva trascinato le economie di mezzo mondo sull’orlo della bancarotta. E che, proprio per questo, doveva uscire perdente a Bretton Woods.
(Fonte rinascita)