“Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”
Giuseppe Todaro è un imprenditore di Palermo che lavora nel settore della logistica del freddo e della produzione del gelato. Dopo essere stato vittima di soprusi estorsivi per circa dieci anni trova, finalmente, il coraggio e la forza di ribellarsi, denunciando i propri estorsori e costituendosi parte civile nel famoso processo denominato “Addio Pizzo”. Il processo, in cui sono stati condannati numerosi esponenti di spicco del clan mafioso di San Lorenzo, è così denominato in onore del movimento antimafia impegnato sul fronte della lotta al racket delle estorsioni nato nel lontano 2004. Il Comitato Addio Pizzo e l’associazione Libero Futuro, di cui oggi Todaro è il Vice Presidente, lo hanno assistito lungo tutto l’iter di affrancamento dal fenomeno estorsivo.
La storia ha avuto inizio nel 1995, quando Todaro avviò la sua azienda nella zona industriale di Cinisi. Quasi subito divenne oggetto di attenzioni da parte del boss Gaspare Di Maggio, il cui pedigree criminale era noto, oltre che alle forze dell’ordine, anche a chi viveva ed operava nel territorio palermitano, tra Cinisi e Carini. Di Maggio, di cui Todaro aveva capito sin da subito la pericolosità, impose all’imprenditore palermitano di “mettersi apposto immediatamente” perché l’azienda, ormai avviata, doveva, come tutte, pagare il pizzo. Nonostante la voglia di ribellarsi al fenomeno estorsivo, orami parte del tessuto sociale palermitano, Todaro fu costretto ad arrendersi. In preda ad ansie ed angosce, chiese aiuto ad amici e colleghi imprenditori, ma si rese subito conto che erano tutti troppo spaventati per lottare ed opporsi al sopruso. “Così è ora e così sarà per sempre”. E questa risposta, purtroppo, lo costrinse ad arrendersi alle richieste estorsive. Questo episodio segna l’inizio di una bruttissima avventura per l’imprenditore, che, terrorizzato dall’eventualità di subire danni alla sua azienda e sentendosi in pericolo per la propria incolumità e per quella della sua famiglia, entra nel tunnel del racket. Il vero problema, oltre ad essere rappresentato dalla scelta di pagare il pizzo, che nel caso di Todaro si aggirava intorno ai 2.000 euro al mese, era rappresentato soprattutto dall’intrusione della mafia in qualsiasi attività della azienda di Cinisi: dalle costruzioni all’impianto elettrico, dagli scavi alle forniture.
“Qualunque cosa facessi – ci dice Todaro – dovevo farla solo con determinati soggetti che mi venivano imposti”. Nel 1998 Todaro rilevò anche un altro stabilimento a Carini (in provincia di Palermo), e li la situazione sembrava apparentemente essere tranquilla. “Dopo un po’ di tempo venne a trovarmi – racconta Todaro- uno che si occupava delle manutenzioni per lo stabilimento dicendomi che queste venivano regolarmente fatturate”. Ed ecco un’altra amara costatazione da parte dell’imprenditore, ossia il pizzo era, ormai, diventato un modo, peraltro pure fatturato, per controllare indirettamente l’azienda. “Le estorsioni -continua Todaro- sono un biglietto da visita. La mafia aggancia così l’azienda, vi entra dentro e la utilizza a 360 gradi. È vero che l’azienda è tua ma se non puoi avere l’elettricista che vuoi, le opere edili che vuoi, alla fine ne perdi il completo controllo. Loro ti impongono addirittura il personale, anche se nel mio caso sono sempre riuscito ad evitarlo per via della manodopera specializzata di cui avevo bisogno”.
Nel 2008 arriva, dopo un importante e travagliata riflessione, la decisione di ribellarsi al racket. “Alla fine del 2008 – dice Todaro- chiesi aiuto associazione antiracket Addiopizzo. Fu cosi che iniziai a parlare dei soprusi che ero costretto a subire da anni. Ma oramai non ero più solo. Da allora cominciai a collaborare e, quindi, a non pagare più il pizzo. Dopo un periodo travagliato, caratterizzato da forti pressioni affinché pagassi e di intercettazioni da parte della polizia, i miei estorsori furono tutti arrestati”. Todaro decise di denunciare proprio perché si rende conto di non essere più solo ed isolato e di vivere in un contesto in cui sono maturate le condizioni per uscire definitivamente dal tunnel dell’estorsioni. Il lavoro straordinario delle forze dell’ordine e della magistratura da un lato, la presenza delle associazioni antiracket e di Confindustria d’altro, rappresentano una forte spinta nei confronti di chi, come l’imprenditore palermitano, decide di denunciare. “L’ho fatto principalmente per i miei figli -dice Todaro- avevo imbarazzo nei loro confronti. Come fa un padre, dopo avere educato al rispetto delle regole e al senso civico, a dire poi al proprio figlio: sappi che c’è lo zio Pino e tu ogni mese gli devi dare una busta con 2 mila euro. Quello che viviamo è un momento storico – continua l’imprenditore – Basterebbero delle denunce di massa per liberarsi definitivamente dal pizzo a Palermo, perché è uniti che si vince la paura e oggi non siamo più soli”. La storia di Giuseppe Todaro, coraggioso imprenditore, è la dimostrazione della “rivoluzione culturale” in atto contro la mafia a Palermo e dintorni.
Qui i commercianti/imprenditori che si sono opposti pubblicamente al racket delle estorsioni mafiose.
832 negozi e imprese pizzo-free
10396 consumatori che li sostengono con i loro acquisti
33 produttori aderenti al marchio “certificato addiopizzo”
36 associazioni sul territorio che partecipano alla campagna
176 scuole coinvolte nella formazione antiracket
3585 messaggi di solidarietà da tutto il mondo