Sorridiamo siamo su Scherzi a Parte anzi Casta a Parte. Infatti L’Espresso ha scandagliato bilanci e leggi, promesse e dichiarazioni solenni scoprendo che, dopo anni di polemiche su sprechi e privilegi di deputati e consiglieri regionali, i costi della Casta sono rimasti praticamente invariati.
Stipendi – Tagli fantasma alla busta paga
La promessa di tagliare le indennità dei parlamentari è arrivata lo scorso 13 dicembre. A formalizzarla il presidente della Camera Gianfranco Fini e quello del Senato Renato Schifani: entro fine gennaio verranno sensibilmente ridotte le buste paga del Parlamento, quei 14 mila euro netti che gli onorevoli percepivano fra indennità (11.283 euro lorde alla Camera, 11.555 al Senato) e benefit vari. Ed ecco che, il 31 gennaio 2012, il Parlamento vara puntale un pacchetto di norme per introdurre l’austerity a Palazzo. All’italiana, però. L’ufficio di presidenza della Camera decide, infatti, una riduzione di 1.300 euro lordi, pari a poco più di 700 euro netti. Pochi davvero, potrebbe pensare qualcuno.E invece è ancora peggio. Perché, nonostante il taglio, il netto della busta paga di deputati e senatori è rimasto praticamente identico. Come mai? Nello stesso giorno della riforma è stata varata anche una novità in materiadi vitalizio: «Come tutti i cittadini», spiegò Fini, «anche i parlamentari passano dal sistema retributivo a quello contributivo». Un passaggio che permette agli onorevoli di risparmiare un bel gruzzolo di contributi, cessando di versare obbligatoriamente una quota di stipendio all’ente di previdenza. Quanto risparmiano? Guarda caso proprio 700 euro. Alla fine della fiera,il saldo è zero, la stessa cifra del taglio. E così lo stipendio è salvo. Persino la Commissione Giovannini, che da mesi lavorava per confrontare gli stipendi italiani con i colleghi europei s’è dovuta arrendere: «I vincoli posti dalla legge, l’eterogeneità delle situazioni riscontrate negli altri Paesi e le difficoltà incontrate nella raccolta dei dati non hanno consentito alla Commissione di produrre i risultati attesi».
Portaborse – Più controlli, niente riduzioni
Tanto fumo e poco arrosto anche per i benefit. A partire dal taglio delle spese per i portaborse degli onorevoli. Rispetto agli annunci di metà dicembre, che parlavano di cancellazione, s’è arrivati a un compromesso: il contributo fisso resta invariato (3.690 euro al mese), ma solo la metà verrà erogata a scatola chiusa. Per ottenere l’intera cifra il deputato dovrà portare i giustificativi delle spese per i collaboratori: secondo gli ultimi dati ufficiali solo un onorevole su tre si avvale di un aiutante, ma molte inchieste hanno dimostrato che i parlamentari spesso pagano il portaborse al nero. Per quanto riguarda la diaria di 3.503 euro mensili, invece, le nuove norme prevedono una penalizzazione per i fannulloni. Per incassare l’intera cifra la grande novità e’ che i parlamentari dovranno presentarsi al lavoro, visto che finora non serviva nemmeno andarci a Montecitorio e Palazzo Madama. Significa che il provvedimento, almeno sulla carta, non taglia un euro dalle buste paga dei politici. Ma almeno ha fatto scattare in Parlamento una mezza rivoluzione. Da febbraio, infatti, guarda caso le presenze medie in commissione sono schizzate al 70-71 per cento a fronte di una percentuale ufficiosa (Camera e Senato non la rilevavano prima della riforma) che si attestava, stando ai resoconti delle segreterie di commissione, fra il 30 e il 40 per cento. I più virtuosi sono i parlamentari della Lega (80 per cento), del Pd (79) e dell’Italia dei Valori (78), con una media che vede tutti sopra il 60 per cento, secondo il conteggio della segreteria della Camera a un mese dal taglio degli stipendi.
Privilegi – Treni e voli gratis benefit e pasti Vip
Gli infiniti benefit dei parlamentari sono ancora in piedi. Non solo le agende in pelle – il nuovo bando della Camera prevede spese per 900 mila euro – ma anche i trasporti gratis restano un must. La proposta di cancellare i viaggi a sbafo per deputati e senatori s’è, infatti, persa per strada. Così come l’ipotesi di dotare i gruppi di un pacchetto di biglietti a esaurimento. Alla faccia delle promesse di rigore, insomma, i parlamentari hanno mantenuto la tessera per non pagare autostrada, treni (prima classe) e aerei, dove pochi volano low cost e quasi tutti preferiscono Alitalia. Anche perché così aumentano i punti “Freccia Alata” che regalano altri viaggi a costo zero utilizzabili anche da amici e parenti. Ma non basta ancora. C’è pure il rimborso mensile per taxi e spese varie che va dai 1.107 ai 1.331 euro, a seconda della distanza tra l’abitazione e il più vicino aeroporto. Se a Fiumicino un mese di parcheggio al silos ai comuni mortali costa 293 euro, ai parlamentari costa 50 euro. E ancora: la tessera del Coni, che permette di entrare gratis a molte manifestazioni sportive, gli sconti sulle auto (anche del 15-20 per cento), in alcuni musei, al Teatro dell’Opera di Roma. Mutui agevolati e prestiti di favore: al Senato Francesco Barbato e’ riuscito ad ottenere dalla Bnl un tasso dell’ 1,57 per cento. Gli italiani, in media, pagano tre volte tanto. Nessuna riduzione infine per occhiali, massaggi, psicoterapia e prestazioni sanitarie rimborsate.
Auto blu – Solo un lifting da 270 mila Euro
l motto e’ sempre lo stesso: “Tagliare le auto blu”. Prima ci ha provato il ministro Renato Brunetta, che ha avviato un censimento delle vetture di Stato e varato un primo taglio datato 3 agosto 2011. Poi e’ arrivata un’ordinanza del Tar, che il 10 settembre ha messo nero su bianco il fallimento dell’austerità sulle auto di Stato e spiegato che quella riduzione non bastava. E infine e’ arrivato il governo Monti che, appena insediato, ha varato un altro giro di vite. Con un risultato piuttosto magro. L’Italia scende ufficialmente da 72 mila auto blu a quota 64.524, con un taglio del 13 per cento. Ma, per fare dei raffronti, resta prima in classifica, sempre davanti a Francia (63 mila) e Inghilterra (56 mila). In più, la doppia sforbiciata non ha scalfito le cosiddette auto “blu-blu”, quelle cioè in uso a politici e governanti vari. La scure e’ caduta soprattutto sui vertici della pubblica amministrazione e su quel parco macchine chiamato in gergo “auto grigie”, adibite a dirigenti e servizi operativi. I tagli ai politici sono stati ridottissimi, nonostante il ministro Filippo Patroni Griffi avesse annunciato la grande rivoluzione, culturale prima che economica: “Devono diventare auto di servizio e non più status symbol”. Peccato che, secondo uno studio della Uil, i costi di gestione del parco auto della Pubblica amministrazione sfori i 4,4 miliardi, mentre secondo le cifre del ministero della Funzione pubblica ci si fermerebbe a 2,1 miliardi di euro l’anno. E Monti? Durante i primi cento giorni il governo ha risparmiato qualcosina: 270 mila euro, su base annua.
Vitalizi – La pensione resta e bastano 60 anni
Il privilegio acquisito non si tocca. Neanche se riguarda uno dei benefici più odiati della casta, quello dei vitalizi. Con più di una legislatura, fino a qualche mese fa, si poteva riscuotere la pensione ad appena 60 anni, mentre gli eletti prima del 2001 potevano arrivare a incassare l’assegno anche a 50. Con soli cinque anni di mandato in molti riscuotevano più di 3 mila euro al mese. Senza dimenticare l’assegno di fine mandato, una specie di trattamento di fine rapporto che arriva – per cinque anni di mandato a 47 mila euro, addirittura oltre 140 mila euro con 15 anni di Parlamento. Privilegi inaccettabili, di cui in tanti hanno chiesto l’abolizione. Che cosa ha fatto l’ufficio di presidenza della Camera (e quello del Senato) lo scorso gennaio? Ha partorito una “riformata” che, attraverso l’adozione del regime contributivo, introduce qualche modesto ritocco al sistema. Ma – a sorpresa – le pensioni dei parlamentari attualmente seduti sullo scranno sono salve: il calcolo contributivo integrale (tanto versi tanto ricevi) si applicherà solo a coloro che saranno eletti dalla prossima legislatura in poi. Ma non e’ finita qui: dietro la “rivoluzione” annunciata si nascondono altre furbate. I comuni mortali, a causa alla riforma voluta dal ministro Elsa Fornero, matureranno il diritto alla pensione solo a 66 anni. Lorsignori invece si sono riservati un trattamento di favore, grazie al quale potranno riscuotere l’assegno a 65 anni, anche solo con 5 anni di mandato. Per ogni anno di mandato ulteriore, poi, l’età richiesta per il conseguimento del diritto scende ulteriormente, fino a toccare il limite dei 60 anni.
Legge mancia – Oltre 300 milioni per le regalie
Si veste di denominazioni pompose come “Fondo per la tutela dell’ambiente e la promozione dello sviluppo del territorio”. Ma dietro parole evocative e titolini ad effetto si nasconde la famosa (e per molti famigerata) “legge mancia”, attraverso la quale deputati e senatori elargiscono ogni anno ricche regalìe ai loro collegi elettorali e alle loro clientele. I leghisti l’hanno per esempio utilizzata per pompare denaro verso la scuola “Bosina”, l’istituto “padano” in cui insegna Manuela Marrone, moglie di Umberto Bossi, a cui sono stati girati decine di migliaia di euro. Non è che gli altri partiti ci siano andati con mano leggera. Era il 2004, regnava il secondo governo Berlusconi, quando la “legge mancia” venne partorita per la prima volta: con finanziamenti a pioggia per piccole opere pubbliche, sagre paesani, eventi storici e ricorrenze, si rivelò subito uno scandaloso bancomat per soddisfare le clientele. Provò a cancellarla Romano Prodi nel 2007, ma con il ritorno al governo del centrodestra venne ripristinata dal ministro Giulio Tremonti: «È un elemento di democrazia», spiegò l’allora titolare dell’Economia. Così sono stati sperperati 312 milioni nell’arco di un triennio. Adesso i politici ci stanno riprovando. Tra Camera e Senato sono stati stanziati infatti circa 200 milioni che dovrebbero andare a soddisfare la solita, lunga lista di regali: un elenco è già stato recapitato sui tavoli dei presidenti delle commissioni Bilancio di Montecitorio e Palazzo Madama. Chissà se Monti riuscirà a stoppare l’assalto alla diligenza.
Testate di partito – Onorevoli giornali
Sono anni che si dibatte dei soldi pubblici che tengono in vita giornali di partito che costano decine di milioni di euro l’anno e che vendono un numero di copie (qualche centinaia al giorno) inversamente proporzionale al loro costo di gestione. In passato Fini e Di Pietro hanno chiesto nuove regole affinché il denaro pubblico non vada, almeno, a testate «collegate a qualche parlamentare», ma una legge per evitare che i soldi pubblici finiscano a quotidiano come “Avanti” di Valter Lavitola (2,5 milioni l’anno usati, secondo la procura di Napoli, per altri scopi) non è mai stata fatta. Il governo Monti qualche settimana fa ha innalzato il fondo per l’editoria dai 47 milioni stanziati da Berlusconi a 120 milioni, in modo da scongiurare la chiusura indiscriminata di decine di testate storiche. Però le nuove regole per legare l’entità dei contributi alle copie effettivamente vendute o lette sono state posticipate al 2014. Così come quelle per maggiori controlli sui bilanci. Anche nel 2012, dunque, prenderanno vagonate di soldi fogli minori come “Liberal” diretto dall’Udc Ferdinando Adornato (2,7 milioni nel 2010), “Il Secolo d’Italia” diretto dal Pdl Marcello De Angelis (2,3 milioni) e “La Discussione” del deputato Giampiero Catone (2,5 milioni, sempre nel 2010). Non è tutto. Se le “radio politiche” percepiscono tra i 4 e i 5 milioni di euro, va ricordato che i partiti versano ai loro giornali anche parte dei rimborsi elettorali: se la Lega ha finanziato per milioni “La Padania”, la Margherita, un partito che non esiste più dal 2007, ha girato negli ultimi anni 8 milioni a un quotidiano, “Europa”, che vende circa 1.500 copie al giorno.
Province – Tanti annunci pochi risparmi
E’ la promessa delle promesse. Non c’è stata tornata elettorale nell’ultimo decennio in cui centrodestra e centrosinistra non abbiano preso l’impegno solenne di sopprimere le Province, istituto tanto inutile quanto caro: tutte le stime indicano un costo, sugli italiani, tra gli 11 e i 13 miliardi all’anno. Cifre da manovra finanziaria. Alle elezioni politiche del 2008 promisero di cancellarle praticamente tutti i leader in campo, da Silvio Berlusconi («Le Province dobbiamo abolirle») all’allora segretario del Pd Walter Veltroni («Serve l’abolizione delle Province»), passando per Pier Ferdinando Casini dell’Udc («L’abolizione delle Province è fondamentale»). Peccato che quando l’Idv di Antonio Di Pietro passò dalle parole ai fatti e presentò, la scorsa estate, un disegno di legge alla Camera per sopprimerle davvero, Pdl, Pd e Udc cambiarono atteggiamento rimandando, d’accordo con la Lega, la soluzione del problema ad un futuro prossimo venturo. Anche Mario Monti, appena nominato presidente del Consiglio, ne promise l’abolizione. Eppure poche settimane sono bastate a far cambiare idea al premier tecnico: i partiti che lo sostengono sono stati infatti irremovibili: nulla da fare. E così, alla fine, Monti ha dovuto accontentarsi di un maquillage e ha modificato solo le modalità di elezione. A votare presidente e giunta non saranno più i cittadini, ma sindaci e consiglieri comunali. Con quale gran risparmio per le casse pubbliche? Poco davvero: il disegno di legge approvato il 6 aprile, secondo lo stesso governo Monti, consentirà risparmi per 319 milioni di euro, pari al 2,4 per cento.
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