Il valore dello stock totale di capitale umano, stimato in base all’approccio Jorgenson-Fraumeni (che calcola sostanzialmente due parametri: il livello di istruzione e il reddito percepito), è di circa 13.475 miliardi di euro. Tradotto significa che un maschio in termini economici ha una potenzialità produttiva nell’arco della vita stimata in 453mila euro, una femmina in 231mila euro. In Italia quindi, ci vogliono due donne per creare il reddito di un uomo. Il capitale umano di un over sessanta vale, soltanto, 46mila euro. Il guaio è che i dati si fermano al 2008 e quindi non fotografano gli effetti della Grande Crisi che stanno mettendo a dura prova il modello sociale italiano.
Lo studio Istat, definito sperimentale, adotta, come abbiamo detto, uno schema semplificato (definito di Jorgenson-Fraumeni). Il metodo di calcolo usato dall’istituto di statistica considera il valore attuale del reddito da lavoro lungo il ciclo di vita previsto tenendo conto di possibili cambiamenti della retribuzione (dovuti anche all’esperienza), di ulteriore istruzione che si può acquisire, di modelli differenziali di partecipazione alla forza lavoro e della mortalità. Quindi si tiene conto della formazione, delle condizioni del mercato del lavoro e delle tendenze demografiche.
Trasformando tale valore in termini pro capite, ne deriverebbe che il capitale umano di ciascun italiano vale circa 342 mila euro. Forti appaiono le differenze di genere nella dotazione di capitale umano: il 66 per cento dello stock complessivo si concentra nella componente maschile, per la quale il capitale umano pro capite è pari a 453 mila euro contro i 231 mila euro delle donne. Il differenziale è da mettersi in relazione alle differenze di remunerazione esistenti tra uomini e donne, ma anche al minor numero di donne che lavorano e al minor numero di anni lavorati in media dalle donne nell’arco della loro vita. Tuttavia, poiché le donne prevalgono di gran lunga nel lavoro domestico, le differenze di genere si riducono se si estendono le stime dello stock di capitale umano considerando anche le attività non market, tra le quali il lavoro domestico è una delle più rilevanti. La stima monetaria calcolata a livello nazionale per lo stock di capitale umano dà una misura sperimentale dell’entità di questa dotazione di capitale rispetto alla ricchezza prodotta nel Paese: nel 2008 lo stock di capitale umano risulta pari a oltre otto volte e mezzo il valore del Pil dello stesso anno. Ed è quasi 2,5 volte superiore al capitale fisico netto del nostro Paese. Informazioni sulla distribuzione del capitale umano tra persone con differenti caratteristiche di età o rispetto al livello d’istruzione raggiunto possono fornire importanti indicazioni sull’ineguaglianza o la coesione sociale del Paese. Riguardo alla distribuzione per età, il 58 per cento dello stock di capitale umano è attribuito alla componente più giovane della popolazione (15-34enni), quasi il 40 per cento alla classe di età 35-54 anni e solo il 3 per cento alla componente più anziana. Occorre osservare che questo risultato è direttamente legato al metodo di calcolo utilizzato: i giovani, anche se in generale hanno un reddito più basso di quello dei lavoratori più anziani, hanno davanti a sé un periodo più lungo per lavorare e guadagnare rispetto ai lavoratori meno giovani; inoltre, si assume che con il progredire dell’età essi abbiano le stesse probabilità di essere occupati e gli stessi guadagni osservati per i lavoratori contemporanei più anziani, ipotesi che non è necessariamente realistica. Per questi motivi il capitale umano pro capite di un giovane è pari a oltre 556 mila euro, contro i 293 mila euro dei lavoratori nella classe centrale e ai soli 46 mila euro dei lavoratori tra 55 e 64 anni. Va però rilevato che l’alto livello della disoccupazione giovanile nel nostro Paese (nel 2008 il tasso di disoccupazione dei giovani minori di 25 anni è arrivato al 21,3 per cento) suggerisce forte incertezza circa la possibilità per i giovani di inserirsi nei processi produttivi come nel passato appariva ragionevole prevedere. È quindi possibile che sia realistico rivedere al ribasso la stima dei redditi da lavoro attesi e di conseguenza quella del valore del capitale umano complessivo del Paese.
“Sono dati che semplificano la realtà, perché misurano solo un aspetto della persona. Ma sono indispensabili per capire almeno una parte di quella realtà”. Così la pensa Pietro Ichino, giuslavorista e senatore di Scelta civica , “Fa comunque impressione vedere la differenza del valore del capitale umano tra uomo e donna. Ecco perché è importante conoscerli, questi dati. Fotografare la disparità di genere in atto è utile per correggerla con le opportune azioni positive”.