Consumo di carne, allevamento, benessere animale, agricoltura in senso lato… Ascoltare Sergio Capaldo, veterinario e fondatore dell’associazione di allevatori “La Granda”, che da 20 anni difende la qualità della carne, parlare del prezzo di un hamburger significa affrontare insieme tutti questi argomenti, e comprendere come, già negli anni Ottanta, le sue siano state delle intuizioni che potremmo definire “eretiche”. Infatti, mentre il mercato imponeva di fare sempre meno allevamenti e macelli, e sempre più grandi, mentre si marciava con convinzione verso le grandi concentrazioni penalizzando gli allevamenti di piccola e media scala, insieme a Slow Food Capaldo decise di intraprendere una strada diversa, antitetica, che puntava sulla qualità del prodotto e sulla valorizzazione di una razza autoctona, fra i primi Presìdi Slow Food.
«Non basta che la carne sia rossa per essere definita carne. Ciò che ne determina la qualità è tutto un insieme di pratiche agronomiche, un sistema in cui rientrano non solo gli animali allevati, ma anche i campi, e l’uomo». Capaldo inizia così il suo intervento per poi entrare nel merito di alcune delle pratiche che danno una carne di qualità, salutare e sostenibile per l’ambiente. «Gli animali degli allevamenti intensivi sono come noi: mangiano troppo e male, sono sovralimentati, ma sottonutriti. L’alimentazione “forzata”, a base di insilati, soia e mais non tiene conto del fatto che anche gli animali hanno dei limiti. La loro crescita sarà anche più veloce, quindi più apprezzata dal mercato ma, insieme ad altri fattori, una cattiva alimentazione è proprio quello che determina una maggiore fragilità nell’animale, e dunque il ricorso agli antibiotici». Sembra quasi che Capaldo ci stia dicendo che il modo giusto sia procedere per sottrazioni, mentre nella concezione contemporanea degli allevamenti si è sempre aggiunto. Se si alimenta un animale con cibo di qualità – a quelli della Granda vengono somministrati solo foraggi, fieno da prati polifiti, miscele di cereali tutti rigorosamente Ogm free, e poi favino, pisello proteico, polpa di barbabietola –, e nelle giuste quantità, non ci sarà bisogno di utilizzare antibiotici, pratica comune negli allevamenti industriali convenzionali. «Un’altra scelta importante nei nostri allevamenti è stata quella di ripristinare la linea vacca-vitello. Una delle prassi comuni degli allevamenti di adesso è prendere i vitelli da più stalle diverse e radunarli tutti insieme… Un po’ come all’asilo, in una situazione di questo tipo i microbi proliferano, mentre se si consente ai piccoli di vivere in stalla insieme alle proprie madri cresceranno più forti, senza bisogno di intervenire con farmaci».
Prati polifiti? Per fortuna Capaldo ha spiegato di che si tratta, perché non è detto che a tutti il concetto sia chiaro… E lo ha fatto partendo da un’altra constatazione cromatica: «Non basta che un prato sia verde per essere definito prato. Questo è un ragionamento fondamentale per assicurare al bestiame un’alimentazione di qualità. L’agricoltura industriale, le monocolture, stanno determinando una perdita di biodiversità senza precedenti. Se si riparte dal prato, se si lavora con un ambiente più ricco, più vivo e più sano, i vantaggi saranno innumerevoli…». Per gli animali, ma anche per la nostra salute e per quella dell’ambiente… Capaldo insiste molto su questo aspetto, sulla necessità di recuperare la biodiversità nei prati e di favorire lo sviluppo di un micromondo ricco e variato – fatto di lombrichi e batteri, di funghi e microartropodi – che sia capace di fissare e “ancorare” al suolo l’anidride carbonica, favorendo al contempo lo sviluppo di un ambiente più sano. Si chiarisce così una parte fondamentale del sistema-allevamento virtuoso: un buon allevamento è indissolubilmente legato a una buona agricoltura, a un insieme di buone pratiche agricole e agronomiche.
E l’uomo, che ruolo ha, in tutto questo? Un ruolo molto importante, ci viene da dire. Da una parte, l’allevatore deve semplicemente essere capace di osservare bene, senza inventare troppo: la natura fornisce già tutte le indicazioni necessarie per allevare bene, è discostarsene troppo, tentare di prevaricarla, che origina problemi… Dall’altra parte – e veniamo così al prezzo di un hamburger – il consumatore dovrebbe essere disposto a sostenere, pagando un poco di più, un metodo di allevamento di questo tipo – un allevamento virtuoso, come lo abbiamo definito più volte –, che si preoccupa dell’alimentazione degli animali, che offre loro spazi adeguati, che li fa crescere lentamente e per più tempo, che non fa uso di antibiotici… Capaldo ricorre alla matematica, spiegando che, su un consumo medio procapite di poco più di 22 chili di carne all’anno, si tratterebbe di investire un centinaio di euro in più, sempre calcolati su base annua. Non crediamo che questo possa essere etichettato come un «cibo buono per soli ricchi», come lo abbiamo sentito definire di recente. Tanto più che questi 100 euro si possono recuperare risparmiando altrove, su altre voci della nostra spesa che, magari, non sono così necessarie o completamente superflue. Sono 100 euro in più, un prezzo più alto, ma un costo molto più basso dal punto di vista ambientale e delle ricadute sulla nostra salute. Non si è “fighetti” se si è disposti a pagarlo… Forse solo più consapevoli, più disposti a inserirci in un sistema virtuoso, e a favorirlo con le nostre scelte. «In genere» chiude Capaldo, «non è un prezzo un po’ più alto, a preoccuparmi, ma un prezzo troppo basso. Forse si tendono a dimenticare episodi lontani, che ci riportano, inevitabilmente a questo meccanismo: lo ricordate, ad esempio, lo scandalo del vino al metanolo? Era così economico!».
In commercio, oggi, si trovano carni che non costano nulla, ma cosa significa pagare poco, o niente quello che introduciamo nel nostro corpo? Ne sappiamo abbastanza? Vogliamo davvero continuare a favorire un sistema che privilegi i volumi anziché la qualità?
(Fonte slowfood)