La Banca Mondiale ha pubblicato l’edizione 2013 di quello che è il suo “fiore all’occhiello”, cioè la pubblicazione annuale di indagine sulle politiche economiche, il Rapporto sullo Sviluppo Mondiale, che quest’anno verte sull’occupazione.
Per la Banca, scrivere un rapporto su questo tema rappresenta un segno di progresso, considerando che si tratta di un’istituzione nella quale, per un lungo periodo, il pensiero dominante è stato quello che alle politiche di sostegno alla crescita economica sarebbe automaticamente seguita la creazione di posti di lavoro (non che, comunque, la Banca avesse una formula vincente per la crescita).
Il fatto che la Banca abbia deciso di focalizzare la sua attenzione sulla crisi occupazionale – anche se è arrivata molto tempo dopo che altre istituzioni internazionali hanno cominciato a prestare almeno un’attenzione retorica al problema – riflette l’impatto della dimostrazione globale di interesse verso il persistente deficit di posti di lavoro e la crescente disuguaglianza.
Il Rapporto sullo Sviluppo Mondiale 2013 contiene numerosi aspetti positivi, ma anche alcuni negativi.
Forse il maggiore contributo è l’utile revisione della letteratura economica (Capitolo 8), che corregge un mito diffuso, attraverso gli anni, dalle numerose pubblicazioni della Banca Mondiale, ed esattamente quello che le economie con un mercato del lavoro completamente deregolamentato avrebbero una crescita occupazionale maggiore di quelle che regolano i salari minimi, l’orario di lavoro, l’uso contratti a breve termine, ecc.
Quella pubblicazione, Doing Business, nel 2009 ha sospeso il suo “indicatore sull’occupazione” (in precedenza chiamato “indicatore delle assunzioni e dei licenziamenti”) su pressione dell’OIL, della Confederazione Internazionale dei Sindacati (CSI-ITUC) e di alcuni governi, ma continua a raccogliere i dati per calcolare l’indicatore e la squadra di Doing Business non nasconde il desiderio di reintrodurlo. Si spera che la scoperta del Rapporto sullo Sviluppo Mondiale, che la pretesa forte correlazione tra il livello di regolamentazione e il tasso di occupazione è infondata, metta la parola fine, una volta per tutte, alla campagna della Banca per una generalizzata deregolamentazione del mercato del lavoro. (Bisogna aggiungere, tuttavia, che l’equilibrata revisione della letteratura economica nel Capitolo 8 viene temperata da una visione unilaterale della regolamentazione del lavoro, centrata soprattutto sull’India, in un annesso al Capitolo 9 su “Come accelerare la ridistribuzione del lavoro”).
Il Rapporto sullo Sviluppo Mondiale presenta materiale utile sulla crisi occupazionale e le sue differenti manifestazioni, sia nei paesi in via di sviluppo che in quelli industrializzati, e sottolinea i punti deboli di alcune delle mode di sviluppo preferite dalla Banca Mondiale, evidenziando che il loro impatto sull’occupazione è marginale o peggio (che esse possono, cioè, ostacolare la creazione di posti di lavoro in altri settori). Queste includono il sostegno alla micro-finanza e ai progetti ad alta intensità di capitali dell’industria estrattiva nei paesi in via di sviluppo.
D’altra parte, il rapporto conviene sul fatto che il sostegno all’assistenza sanitaria, all’istruzione, alle infrastrutture e allo stato di diritto sono tutti ingredienti importanti per la creazione di posti di lavoro stabili di alta qualità.
Sulla questione dello stato di diritto, il Rapporto sullo Sviluppo Mondiale 2013 fornisce una sostanziale difesa, per la prima volta in una pubblicazione ad alto profilo della Banca, della necessità di sostenere la conformità con le Norme Fondamentali del Lavoro (CLS – Core Labour Standards) dell’OIL (Capitolo 5). Inoltre, minimizza il contributo che le iniziative volontarie di responsabilità sociale d’impresa – che la Banca ha giocato un certo ruolo nel sostenere – può avere nel garantire la protezione dei diritti dei lavoratori: “Le iniziative volontarie non possono sostituire gli sforzi nazionali di istituire adeguate protezioni giuridiche e di creare istituzioni per sostenere la conformità e fornire vie di ricorso” (p. 306-307).
Sul versante negativo, uno degli elementi più problematici è rappresentato dalla decisione del Rapporto sullo Sviluppo Mondiale di mettere da parte il concetto di Lavoro Dignitoso dell’OIL e di sostituirlo con uno proprio, denominato “posti di lavoro buoni per lo sviluppo”. Il rapporto ne offre la seguente definizione sommaria: “Posti di lavoro buoni per lo sviluppo sono quelli che danno il più alto contributo alla società, tenendo conto del valore che essi hanno per la persona che li occupa, ma anche delle loro potenziali ricadute sugli altri” (p. 154).
Il Rapporto sullo Sviluppo Mondiale non rende certo facile capire che cosa voglia dire, in pratica, questo vago concetto, soprattutto quando aggiunge che “i programmi occupazionali sono intrinsecamente specifici di un paese” (pag. 153). Specifica che i posti di lavoro che non rispettano le Norme Fondamentali del Lavoro (CLS – Core Labour Standards) “sono, senza equivoci, cattivi e non dovrebbero essere considerati posti di lavoro” (pag. 153). Ma quando afferma che i buoni posti di lavoro possono includere quelli dell’economia informale, dove tali diritti non vengono rispettati, viene spontaneo chiedersi quanto profondo sia tale impegno nei confronti delle norme fondamentali del lavoro. Quanto ai lavori che non sono buoni per lo sviluppo, il rapporto chiarisce abbondantemente che essi comprendono l’occupazione nei “gonfiati” organismi del settore pubblico, ripetendo il termine per ben tre volte (pg. 17, 154, 163).
Questa ingiustificata denigrazione dell’occupazione del settore pubblico non è l’unico esempio nel Rapporto sullo Sviluppo Mondiale 2013 dal quale traspaiono i pregiudizi profondamente radicati della Banca Mondiale. Un altro si trova nella sezione che ripete un credo della Banca, vecchio di anni, a sostegno di un’ulteriore liberalizzazione incondizionata del commercio, compresi i servizi, tema al quale dedica ben tre pagine (Capitolo 9). Per contrasto, il rapporto non esprime alcun sostegno alle misure per prevenire il ricorrente ritorno dell’auto-tracollo del settore finanziario, che ha portato al più grande collasso dell’occupazione degli ultimi 80 anni, salvo menzionare che “la crisi finanziaria del 2008 ha riaperto l’acceso dibattito su di un appropriato livello di regolamentazione del settore finanziario” (pag. 294).
Un altro approccio problematico è quello che riguarda la “assicurazione sociale”. Il Rapporto sullo Sviluppo Mondiale sembra aver deciso che il più comune termine di “protezione sociale” sia una brutta parola, solo per evitare di menzionare il concetto e l’obiettivo, ora ampiamente supportati, del Social Protection Floor (Zoccolo di Protezione Sociale). Sviluppato per la prima volta dall’OIL, l’intero sistema della Nazioni Unite nel 2011 ha approvato il Social Protection Floor, così come il G20 durante il Summit di Cannes lo scorso novembre. Anche il Fondo Monetario Internazionale (FMI) sostiene il concetto fino al punto di collaborare con l’OIL nel designarne gli specifici meccanismi di finanziamento per ogni paese.
Il concetto di “assicurazione sociale” è più limitato rispetto a quello di protezione sociale; in molti paesi i servizi sociali e i programmi di sostegno del reddito non sono tutti fondati su una base assicurativa, che è una nozione, basata sul mercato, di acquisizione della protezione in caso di emergenza e che comporta la condivisione del rischio. L’insistenza del Rapporto sullo Sviluppo Mondiale sul fatto che la protezione sociale sia un’assicurazione porta ad occasionali affermazioni prive di senso come la seguente: “Le preoccupazioni circa disincentivi alla ricerca del lavoro e ridistribuzione nascosta hanno portato ad un certo interesse per i conti di risparmio assicurativi contro la disoccupazione [che infatti non sono un’assicurazione]…. Alcuni paesi hanno adottato questi conti di risparmio quale approccio alternativo ai programmi basati sull’assicurazione” (pag. 273).
Per essere un rapporto sull’occupazione, il Rapporto sullo Sviluppo Mondiale non contiene molte informazioni sul movimento sindacale, benché ciò che è presente sia per la maggior parte positivo, per esempio quando sottolinea il ruolo del sindacato nella riduzione delle ineguaglianze di reddito tramite la contrattazione collettiva e il raggiungimento di obiettivi sociali più ampi. Stranamente, però, un passaggio sul miglioramento delle condizioni di lavoro e dei diritti dei lavoratori nei paesi in via di sviluppo menziona il ruolo delle multinazionali e della società civile, ma non i sindacati (pag. 241).
Schede dettagliate focalizzate su specifici ruoli dei sindacati si trovano sui temi seguenti: SEWA (Self Employed Women’s Association of India); le iniziative dei sindacati dei lavoratori domestici per ottenere una convenzione OIL; il programma “Cambodia’s Better Factories”; i consigli per la contrattazione collettiva del Sud Africa; nuove forme di contrattazione collettiva in Cina; e il programma tedesco di riduzione dell’orario di lavoro.
(Fonte worldbank Traduzione a cura di Alida Di Marzio)
La lotta di classe dopo la lotta di classe. La caratteristica saliente della lotta di classe alla nostra epoca è questa: la classe di quelli che possiamo definire genericamente i vincitori sta conducendo una tenace lotta di classe contro la classe dei perdenti. Dagli anni Ottanta, la lotta che era stata condotta dal basso per migliorare il proprio destino ha ceduto il posto a una lotta condotta dall’alto per recuperare i privilegi, i profitti e soprattutto il potere che erano stati in qualche misura erosi nel trentennio precedente.