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Per i banchieri la crisi non esiste

Malgrado la crisi e le pressioni per politiche di moderazione ed equità, continuano le prese in giro: i manager delle principali banche italiane guadagnano sempre di più.

Nel 2011 i compensi del top management bancario sono aumentati rispetto all’anno precedente, malgrado i costanti richiami alle aziende ad adottare politiche di moderazione ed equità e una crisi sempre più aggressiva, che ha prodotto aumento della disoccupazione e delle disuguaglianze sociali.

È questo il risultato dell’analisi annuale realizzata dall’Ufficio Studi della Uilca in merito ai compensi relativi al 2011 dei Chief Executive Officer (Ceo – Amministratori Delegati o Direttori Generali) e dei Presidenti di 11 tra i principali Gruppi bancari italiani. Nello specifico: Intesa Sanpaolo, Unicredit, Banca Monte Paschi di Siena, Banco Popolare, Ubi, Banca Popolare di Milano, Banca Popolare dell’Emilia Romagna, Banca Popolare di Sondrio, Banco di Desio e della Brianza, Banca Carige, Banca Popolare di Spoleto.

I risultati economici per i gruppi bancari del campione analizzato sono risultati complessivamente negativi nell’anno 2011 a causa delle rettifiche per impairment come si evidenzia nella tabella seguente.

I dati confermano inoltre l’ingiusta sproporzione della retribuzione del top management con quella media dei dipendenti del settore, che le Organizzazioni Sindacali hanno ufficialmente chiesto di ridimensionare in modo drastico, riportandola a un rapporto massimo di 20 a 1.

In particolare lo studio della Uilca evidenzia un aumento delle retribuzioni dei Ceo del 36,23% rispetto all’anno precedente, per un totale di 26,067 milioni, rispetto ai 19,135 milioni inerenti il 2010. Il compenso medio dei Ceo risulta quindi di 85 volte superiore a quello dei lavoratori.

Tale dato è condizionato da un esborso di circa 9,7 milioni di euro complessivi come indennità di fine carica o per cessazione di rapporto di lavoro a 4 top manager che hanno lasciato il loro incarico, ma questo importo alimenta comunque un montante distribuito al top management perlomeno invariato nella sua enormità.

Il riepilogo degli ultimi 5 anni, dal 2007 al 2011, evidenzia infatti una sostanziale costanza degli emolumenti distribuiti a Ceo e Presidenti bancari, nonostante risultati economici per i gruppi bancari del campione analizzato non brillanti e nel 2011 nominalmente negativi, a causa delle rettifiche per impairment.

Analogo è il risultato dell’analisi relativa ai compensi dei Presidenti, che nel 2011 sono complessivamente aumentati del 5,56% rispetto al 2010, per un totale di circa 9,6 milioni di euro, in crescita di circa 0,5 milioni di euro rispetto all’anno precedente.

La Uilca da tempo sta sostenendo una battaglia contro gli esorbitanti compensi del top management, chiedendo una loro drastica riduzione in termini assoluti e nel rapporto con la media delle retribuzioni del personale.

In molti paesi, tra cui Gran Bretagna e Stati Uniti d’America, le grandi aziende sono per la maggior parte delle public company, ove gli azionisti sono sovente Fondi pensione, Fondi d’investimento o Fondazioni che proprio perché portatori di interessi particolari sono vigili affinché il patrimonio da loro investito venga tutelato. Devono dunque rendicontare ai propri soci la redditività e l’eticità, se prevista, del loro investimento: nel 2012 vi sono casi emblematici, quali la bocciatura del compenso del CEO di Citibank e forti pressioni hanno imposto al CEO di Barclays Bank di rinunciare ad una parte dei propri compensi se non venissero raggiunti determinati risultati.

In Svizzera, sia UBS che Credit Suisse hanno visto crescere la percentuale di azionisti che si opponevano alla anomala remunerazione del management, mostrando come vi sia una forte unità d’intenti fra gli azionisti e portatori d’interesse diversi allorché difetti una reale corrispondenza tra remunerazione e obiettivi raggiunti.

In Italia infatti, diversamente da altri Paesi dove azionisti, anche rilevanti come Fondi Pensioni, Fondi di Investimento e Fondazioni, si sono opposti ad aumenti per il top management, non vi sono serie prese di posizioni su tali argomenti, anche da parte di azionisti “sociali”, quali le Fondazioni. Sembra che a questi enti ottenere la garanzia di un flusso costante di dividendi sia più importante che valorizzare il patrimonio.

Purtroppo i Fondi pensione e i Fondi comuni nel nostro paese sono controllati dagli stessi soggetti bancari/assicurativi che dovrebbero opporre eventuali eccezioni sulla gestione o sulla remunerazione ed è molto difficile che il controllato disobbedisca al controllore, favorendo lo sviluppo di una “coscienza assembleare”, che sappia guardare l’interesse collettivo e dunque anche quello dell’azienda di cui si è azionisti.

La “rabbia collettiva” che spesso si manifesta nei riguardi di chi legalmente guadagna più di ottanta volte lo stipendio di un impiegato va ben al di là delle singole “persone” ma investe l’intero sistema. Non servono solo leggi sulla remunerazione che fotografino uno status quo, ma norme che siano compatibili con il modello di società che si vuole creare. La responsabilità diventa dunque politica: si deve intervenire non solo per placare la ”rabbia “ ma anche per creare una società meno diseguale.

Il decreto “Salva Italia” del dicembre 2011 ha introdotto, con l’articolo 36, una norma che vieta agli amministratori di assumere o esercitare cariche in imprese (o gruppi di imprese) concorrenti operanti nei mercati del credito, delle assicurazioni o della finanza. Questo ha obbligato vari amministratori a scegliere a quale consiglio d’amministrazione o di gestione o sorveglianza rinunciare.

Anche considerando l’onestà, la buona fede e la competenza che tanti amministratori avevano e hanno nello svolgere il loro compito, il ricoprire il medesimo incarico in società concorrenti risulta una anomalia. Come si sarebbero comportati nel caso ci fosse stato il lancio di una offerta pubblica d’acquisto fra due società nelle quali siedono in entrambi i consigli d’amministrazione? Il conflitto d’interesse deve essere eliminato perché in Italia il capitalismo non è solo familiare ma patriarcale e questa norma sul conflitto di interesse può essere assai utile per far crescere la trasparenza e l’eticità nel nostro paese.

Sarebbe stato auspicabile che la classe dirigente di un Paese civile evitasse di incorrere in palesi situazioni di conflitto d’interesse senza che intervenisse una legge per vietarle, ma i fatti dimostrano che è un esercizio vano chiedere trasparenza e lungimiranza a chi persiste nel distribuire in modo iniquo i patrimoni delle aziende e le ricchezze del Paese.

 

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Claudio Rossi

“Ci sono uomini nel mondo che governano con l’inganno. Non si rendono conto della propria confusione mentale. Appena i loro sudditi se ne accorgono, gli inganni non funzionano più.”

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