“Educazione sessista. Stereotipi di genere nei libri delle elementari” è un libro di 5 anni fa, ma il tema, oggi come mai, è ancora attuale. L’autrice Irene Biemmi, una pedagogista dell’Università di Firenze, ha preso 340 storie dai libri di lettura delle quarte elementari, che sono stati editi agli inizi del 2000, ed è andata a vedere se gli stereotipi che il progetto europeo “POLITE” ovvero Pari Opportunità nei Libri di Testo, doveva cancellare erano spariti oppure no. Dall’analisi emerse che, in realtà, non c’era stato un grande miglioramento. Nei libri che studiano i nostri figli, si continua a raccontare di donne che cucinano e puliscono e di uomini che girano il mondo e portano a casa il pane. Spiega la Biemmi:
“In totale ho analizzato dieci libri di lettura che contenevano circa trentacinque storielle, per cui ho analizzato un campione anche abbastanza grosso di circa 350 storie. Prima le leggevo tutte e poi, man mano che leggevo andavo a selezionare le variabili che secondo me erano più significative. E sulla base di queste, ho costruito un doppio strumento di analisi: una griglia di analisi quantitativa e una scala, che ho chiamato “scala di sessismo”, che è uno strumento di tipo qualitativo. Distinguendo tra i due tipi di ricerca che ho condotto, quella quantitativa e quella qualitativa, rispetto alla prima, il primo dato che emerge è che nei libri di lettura delle elementari che quindi leggono sia i bambini, sia le bambine in IV elementare, non c’è parità numerica tra i protagonisti maschili e femminili delle storie. Se si ragiona in termini percentuali, ho individuato che circa un 59% dei protagonisti delle vicende sono maschi, uomini adulti oppure bambini, e circa un 37% sono protagoniste femminili, quindi donne e bambine. Se si fa un rapporto tra queste due percentuali, 59 e 37, viene fuori un numero che è un 1,6 che ci dice che per ogni 10 protagoniste femmine rappresentate in queste storie, vengono rappresentati 16 maschi. Questo secondo me è un primo dato su cui riflettere, partendo da un ragionamento abbastanza ovvio, per cui, visto che l’umanità è composta circa da metà maschi e da metà femmine (anzi, si sa che le donne, nella popolazione mondiale, sono in maggior numero), non si capisce perché nei libri di testo debbano diventare un gruppo di minoranza. I lettori e le lettrici di questi libri si troveranno di fronte un mondo popolato in maggioranza al maschile, che stride con la realtà concreta.
Nei dati qualitativi sono andata a fare un esame più approfondito sugli stereotipi di genere presenti in queste storie, ma ho fatto anche un’altra operazione complementare, che è quella di andare ad individuare eventuali modelli anticonvenzionali, cioè personaggi maschili o femminili che stridono rispetto ai canoni tradizionali del maschile e del femminile. E da questa analisi, secondo me, è venuta fuori una cosa interessante. Nell’insieme, in questi libri, gli stereotipi di genere sono assolutamente in sovrannumero rispetto agli antistereotipi. Quando, però, sono presenti antistereotipi, modelli divergenti, modelli “devianti”, quasi sempre questi modelli sono riferiti al mondo femminile e invece pochissimi sono riferiti al mondo maschile. Faccio degli esempi. In queste storie, si trovano comunque, un buon numero di bambine coraggiose, attive, avventurose, disubbidienti, creative, fantasiose, esperte di computer. Si trovano anche donne adulte spiritose, astute, sicure di sé, decise, intelligenti, donne che lavorano.
Si trovano quindi degli antistereotipi sia nel mondo femminile infantile, sia nel mondo femminile adulto, la forte contraddizione, però, deriva dal fatto che le bambine che assumono dei comportamenti anticonvenzionali, le bambine, per intenderci, “modello Pippi Calzelunghe” sono sempre connotate positivamente all’interno della vicenda. Sono modelli che vengono, comunque, approvati. Quando invece sono le donne adulte ad assumere tratti anticonvenzionali, per esempio il modello della donna lavoratrice che fa magari un lavoro impegnativo, queste donne quasi sempre vengono criticate. Ci sono diverse storie in cui c’è un bambino oppure una bambina protagonista che soffre e si lamenta perché la madre, appunto, lavora tutto il giorno, non ha tempo di preparare il pranzo e la cena e queste bimbe o questi bimbi sono molto tristi, per questo (ovviamente il padre non è mai responsabile del malessere dei figli/delle figlie, perché non è suo dovere prendersi cura di loro!).
Per cui quando vengono proposti modelli adulti femminili alternativi, in realtà ci vengono presentati per riaffermare un messaggio tradizionale: sarebbe meglio che le donne non lavorassero e che stessero a casa. Si stimolano le bambine a essere intraprendenti, spiritose, eccetera e poi si criticano le donne adulte che fanno la stessa cosa e che sono il loro principale modello di riferimento. Perciò si chiede alle bambine di essere diverse da quello che è il loro principale modello di riferimento: il modello femminile adulto.
Non c’è un papà che accompagna i figli a scuola, che prepara la cena, che va a fare la spesa, che fa le coccole, che racconta una fiaba ai propri bambini. Tutte attività che i papà di oggi, invece, direi che fanno abitualmente. Quindi sul fronte maschile adulto c’è proprio una totale non aderenza alla realtà. Sul fronte dei bambini, dei protagonisti maschili in età infantile, ci sono pochissimi esempi di bambini timidi e introversi, veramente in numero molto più limitato rispetto alle bambine. Quindi c’è una maggiore aderenza allo stereotipo sicuramente nel modello maschile che nel modello femminile visto che quest’ultimo ha questa doppia rappresentazione: quella più tradizionale e quella più innovativa. Questi libri non riescono nemmeno a fotografare la realtà, che è molto più avanti di quella che raccontano”.