“Ricordati di ciò che ti fece Amalek, durante il viaggio, quando usciste dall’Egitto”. Così è scritto nell’ultimo dei cinque libri della Torah. Amalek è colui che cercò di distruggere il popolo d’Israele durante l’uscita dalla schiavitù in Egitto. In ogni tempo gli ebrei hanno dovuto combattere per la sopravvivenza contro un nuovo Amalek che tentava di annientarlo. Per questo non dobbiamo dimenticare. E non vi è dubbio che Hitler e il nazismo sono stati l’Amalek del nostro tempo. Del resto, secondo la tradizione dei nostri Maestri, il “ricordo” è un precetto accompagnato dall’imperativo “non dimenticare” (Zachor, lo tischak). Per questo il 27 gennaio, istituito Giorno della Memoria nel 2000, rischia di relegare ad un singolo giorno un impegno che dovrebbe in realtà cingere la nostra quotidianità. Su questo sarebbe utile un continuo e costante confronto tra gli storici, gli educatori e le Istituzioni che sono, senza dubbio, il motore delle celebrazioni insieme con le scuole. I nostri detrattori ci accusano pubblicamente, oggi ancor di più abusando dello strumento della Rete, di usare il 27 gennaio per “farci commiserare”. Sta a noi dimostrare senza esitazione che queste odiose accuse possono essere rovesciate: i sopravvissuti alla Shoàh quasi mai si soffermano nel racconto delle sofferenze vissute nei campi di sterminio, ma sottolineano l’importanza di imparare dalla loro tragedia per scongiurare i pericoli del presente e del futuro affinché nessun altro “possa vedere ciò che i loro occhi hanno visto dentro l’inferno di Auschwitz-Birkenau” (Samy Modiano). Noi ricordiamo affinché il mondo non sia mai più indifferente. Per questo credo che il lavoro svolto nelle scuole grazie ai reduci dai Campi e agli scampati alla Shoàh debba insistere sull’idea che il valore della Memoria passa sottile, come un filo dentro la cruna di un’ago, attraverso la consapevolezza di quanta complicità vi sia stata dalla maggioranza silenziosa dell’opinione opinione pubblica che tra le pieghe del nazi-fascismo rimase indifferente. Quell’indifferenza che si rese complice delle tirannie incominciando con i provvedimenti discriminatori, passando per la cattura degli ebrei e poi per il trasporto in Campi di Sterminio attraversando mezza Europa. La battaglia di oggi è dare alle nuove generazioni gli strumenti per non rimanere indifferenti di fronte alle tragedie del presente. Che non sempre si manifestano subito con la violenza fisica, ma cominciano con quella verbale e con l’arma della demagogia sventolando beceri stereotipi contro ogni minoranza, al fine di trovare una valvola di sfogo ai drammi contemporanei. Aiutare i giovani a non restare indifferenti significa sottrarli un domani dall’accusa di essere stati dei “I volenterosi carnefici di Hitler”, citando il libro di Daniel Goldhagen. Ma il nostro sforzo sulla Memoria non passa solo attraverso il ricordo delle brutalità e delle violenze fisiche. Il progetto originario, e già prima dell’avvento del nazismo, era annullare e mortificare la nostra identità ebraica. Annientarci prima di tutto culturalmente e poco si sa sui numeri della portata di questo “annientamento culturale”. Si allontanarono dalle proprie Comunità, immaginando ingenuamente di trovare la salvezza. E se oggi vogliamo fare un servizio alla causa della Memoria dobbiamo accompagnare gli investimenti sui Musei e i Memoriali della Shoàh con gli aiuti concreti che possano mantenere viva la nostra identità, rafforzando i progetti educativi nelle oramai poche scuole ebraiche rimaste in Italia. In questo, oggi, la Germania è diventata un esempio e con il sostegno economico statale ha consentito con il risorgere delle proprie comunità ebraiche. Essere vicini alle istituzioni ebraiche, in questi giorni, è certamente un fatto che ci apre il cuore alla speranza. Ma immaginare un futuro in cui l’Italia possa commemorare i “propri ebrei” senza più ebrei, come già avviene in tanti Paesi d’Europa, allora significa che ogni sforzo sulla Memoria sarà stato vano.
Riccardo Reuven Pacifici – Presidente della comunità ebraica di Roma