Un costo per il welfare o una risorsa per il Pil? Il massiccio esodo di migranti che hanno invaso l’Europa ha riacceso il dibattito e la conseguente guerra ideologica su questo terreno minato.
L’ultimo tentativo di risposta allo scivoloso quesito arriva dalla Germania dove il paladino dell’austerity Ue, il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schaeuble, ha annunciato nei giorni scorsi una misura keynesiana per accogliere l’ondata di rifugiati siriani: spendere subito almeno 6 miliardi. “È un test per la Germania e per l’Europa, il più importante da molto tempo a questa parte”, ha detto Schaeuble. Ma con quali effetti per l’economia tedesca? Marcel Fratzscher, direttore del prestigioso istituto di ricerca Diw di Berlino ed economista molto ascoltato dal Governo della Merkel spiega che “i rifugiati costeranno tra i 6 e i 10 miliardi di euro aggiuntivi per il bilancio tedesco, ma quello che ci aspettiamo è un effetto tra lo 0,2% e lo 0,3% in più di crescita economica già dal prossimo anno”. In sostanza, a conti fatti, la Germania compenserebbe quello che ha speso (6-9 miliardi equivalgono a circa lo 0,2-0,3% del Pil tedesco). Ma a una condizione, aggiunge Fratzscher: “La crescita si stabilizzerà se avverrà rapidamente un’integrazione degli immigrati nel mercato del lavoro, come dimostra quello che è accaduto negli ultimi anni durante i quali la Germania ha beneficiato della loro presenza”. Come dire che questi costi per lo Stato e per il welfare sono sostenibili soltanto se c’è una veloce assorbimento della forza lavoro. Un concetto, questo, confermato nel passato da diversi studi dell’Ocse e che la stessa cancelliera Merkel ha ribadito nei giorni scorsi al Bundestag (“massima priorità all’integrazione“) e ancora ieri alla radio quando ha spronato le donne rifugiate a “non isolarsi e a imparare il tedesco”.
E in Italia da che parte pende la bilancia tra costi e benefici? Di numeri ce ne sono molti: secondo la Fondazione Leone Moressa, che ogni anno produce proprio un rapporto su questo, gli immigrati – quasi 5 milioni in tutto compresi i non occupati – producono 123 miliardi di euro di valore aggiunto, in pratica l’8,8% del Pil. La Fondazione calcola anche il rapporto costo benefici mettendo in fila le entrate (gettito fiscale e contributivo degli immigrati) e le uscite (sanità, scuola, servizi sociali , casa, giustizia, sicurezza e trasferimenti economici) e il risultato è un saldo attivo di 3,9 miliardi per lo Stato. Come dire che l’Italia ci guadagna.
Al di là del numero, che rappresenta comunque solo una stima, ci sono alcuni dati oggettivi da prendere in considerazione: gli immigrati sono contribuenti del Fisco, come gli italiani. Anche se rispetto a noi pagano in media di meno: secondo le dichiarazioni dei redditi del 2014, i nati all’estero hanno versato in tutto 6,8 miliardi di Irpef (il 4,5% del totale del gettito) dichiarando redditi per 45,6 miliardi (il 5,6% del totale in Italia). Il gettito si riduce poi a 3,15 miliardi se prendiamo in considerazione gli stranieri in senso stretto (escludendo quindi chi magari nel frattempo ha conquistato la cittadinanza). In media comunque chi è nato all’estero paga 2mila euro di meno di tasse rispetto a un italiano. Sul fronte dei contributi previdenziali le stime – appena calcolate dalla Fondazione Moressa su dati Inps – parlano di 15,7 miliardi di contributi versati nel 2013 da nati all’estero (il 7,3% del totale) che scendono a 10,3 miliardi se si prendono in considerazione solo gli stranieri (4,9%). Un tesoretto che rappresenta una bella boccata d’ossigeno per i conti degli enti previdenziali se si considera anche il fatto che di pensioni a favore di immigrati se ne erogano (ancora) poche: solo 67mila nel 2013 dall’Inps agli extracomunitari, per un importo medio di meno di 7mila euro all’anno.
E qui veniamo a un punto sottolineato anche dall’Ocse e cioè che gli immigrati, soprattutto in una prima fase, possono essere un beneficio o comunque non un costo troppo alto – l’Organizzazione di Parigi stima un saldo tra un +0,5% e un -0,5% di Pil – per il welfare vista l’età bassa di chi emigra in cerca di lavoro che “allarga così la base della piramide contributiva”.
In Italia il 60% degli stranieri ha tra i 20 e i 55 anni. Questo implica un accesso minore a certi servizi più utilizzati dagli anziani: il caso esemplare è quello della Sanità. “Su 45 miliardi spesi per i ricoveri il 96% riguarda gli italiani, il 3,3% gli stranieri regolari e lo 0,3% gli irregolari”, avverte Concetta Mirisola, direttore generale dell’Inmp, l’Istituto che si occupa della salute dei migranti, che sta lavorando con l’osservatorio sulle diseguaglianze proprio nella raccolta di dati. Anche sulla spesa farmaceutica l’incidenza è bassa: “Solo il 2,6% riguarda gli stranieri”, aggiunge Mirisola.
Fin qui i “vantaggi”. Perché è indubbio che su altri servizi le uscite si fanno sentire: dall’accoglienza che costa 2,6 milioni al giorno al ministero dell’Interno alle prestazioni sociali (almeno un miliardo dei 10 erogati l’anno scorso dall’Inps) fino alla sicurezza e alla giustizia, che per la Fondazione Moressa valgono fino a 2 miliardi. Quindi la “migrazione è buona per l’economia?” come si chiede l’Ocse in uno studio del 2013? Sì, se solo – e qui torna il modello tedesco – si procede a un’integrazione vera nel mondo del lavoro e offrendo opportunità di crescita per gli immigrati che oggi in Italia svolgono mestieri poco pagati e snobbati. E chissà che un contributo importante non arrivi anche dagli imprenditori stranieri: oggi si contano 540mila imprese (l’8,9% del totale), soprattutto micro (432mila sono ditte individuali). Un fronte che ha retto anche negli anni più bui della crisi, visto che dal 2012 a oggi se ne sono aggiunte 85mila, mentre gli italiani ne hanno perse 15mila.
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