Il numero minimo per avere un gruppo parlamentare al Senato è di 10 unità, alla Camera i deputati devono essere almeno 20. Il suo valore? Almeno 500 mila euro l’anno. Denaro pubblico.
Se il finanziamento diretto ai partiti è stato abolito da Enrico Letta nel 2013 (sarà azzerato nel 2017, quest’anno vale ancora circa 10 milioni), lo Stato continua a distribuire denaro a palate ai gruppi di Camera e Senato. Ogni giorno, sette giorni su sette, i gruppi parlamentari percepiscono 160 mila euro. In un mese fanno 4,8 milioni. Sono 32 milioni di euro per Montecitorio e 21,3 milioni per Palazzo Madama nel 2014. In un anno 53,3 milioni, dall’inizio della legislatura sono 106,7. Da segnalare che il M5S rinuncia al finanziamento pubblico ma incassa i contributi ai gruppi: 13 milioni.
Nel 1993, quando i cittadini abrogarono (la prima volta) il finanziamento pubblico via referendum, lo Stato distribuiva ai partiti circa 82 miliardi di lire, grosso modo 40 milioni di euro. Ventitrè anni dopo sono stati aboliti i rimborsi, ma i gruppi parlamentari di Camera e Senato incassano oltre 50 milioni all’anno. Una cifra che si è gonfiata nel tempo e serve sempre di più a tamponare l’emorragia causata dall’abolizione del finanziamento pubblico vero e proprio.
Ecco il motivo di tanti cambi di casacca: siamo a quota 336 (più di 1 parlamentare su 3, record assoluto). Aumentare le dimensioni del gruppo significa incassare di più.
“Il finanziamento ai gruppi parlamentari si è venuto dilatando fino ad assumere i contorni di un vero e proprio finanziamento parallelo e autonomo rispetto a quello standard dei partiti, determinando non di rado un uso del denaro inevitabilmente improprio, aprendo ad abusi e a comportamenti in qualche caso addirittura illeciti”, Giuliano Amato, in un documento del 2013 scritto per una consulenza al governo Letta.