
L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro questo stabilisce l’articolo 1 della Costituzione, legge fondamentale dello Stato italiano; proprio nella mancata applicazione di questo principio si possono trovare le cause del declino dello stesso.
Lavoro irregolare, evasione fiscale, mafia, questi sembrano essere i veri valori su cui questo paese si fonda e se da un lato il singolo cittadino, appellandosi alle proprie libertà decide di delinquere dall’altro lo Stato è incapace, o non si può permettere, di assicurare il rispetto delle leggi da lui stesso promulgate.
La stessa idea di Repubblica viene meno di fronte ad un insieme di individui che pensano solo al proprio tornaconto immediato, un concetto troppo nobile, quello democratico, per un popolo relegato ancora alle pratiche feudali della convenienza familiare a discapito della collettività.
Se l’economia sommersa italiana si aggira intorno al 40% vuol dire che alla base dell’inefficienza del paese non sta la politica ma la scelta di ogni singolo individuo; un sistema per troppi anni basatosi sulla tacita convenienza reciproca e sull’omertà a spese della comunità e delle generazioni future, allevate nel rispetto di valori dimenticati dai loro stessi promotori.
Da una situazione di lavoro irregolare non necessariamente scaturisce la reciproca convenienza ma, specialmente per i giovani, un vero e proprio ricatto basato sulla prevalenza numerica della domanda rispetto all’offerta: se ti va bene così, bene, altrimenti un altro subentrerà al tuo posto.
Salari ridicoli, mancato versamento dei contributi e totale assenza di diritti del lavoratore, anni e anni di progressi e battaglie sociali vanificati a spese delle categorie che più di tutte dovrebbero essere tutelate. Un modus operandi pericoloso in quanto non eccezione ma prassi, tanto da coinvolgere la famiglia dello stesso Ministro del Lavoro, situazione a dir poco intollerabile per uno stato che intende definirsi civile.
Se si intende quindi additare qualcuno per l’attuale situazione italiana, diaspora giovanile compresa, non c’è da far altro che mettersi di fronte ad uno specchio e meditare sulle proprie responsabilità.
La politica, in questo scenario, non è certo innocente ed è proprio la mancanza di tutela su entrambi i fronti che fa perdere ogni speranza nel domani: misure prese per promuovere il lavoro giovanile come il Jobs Act non hanno fatto altro che peggiorare la situazione permettendo il brulicare di piccole Società a responsabilità limitata (S.r.l) che al primo sollecito semplicemente scompaiono, lasciando i propri lavoratori privi di difesa.
Questa modalità, profondamente radicata ormai nel nostro tessuto sociale non è altro che il risultato di anni e anni NON di una politica per la politica bensì di una politica per il consenso, consenso che avviene a spese dei diritti umani e dei cittadini. Fino a quando nessun rappresentante politico si prenderà la responsabilità di affrontare questa realtà scomoda, dichiarando guerra al lavoro irregolare, e quindi al 40% dei suoi elettori, la situazione non cambierà.
Una repubblica fondata sul lavoro incapace di tutelare il lavoro appunto, pilastro della propria economia, non riuscirà mai ad esprimere il proprio effettivo potenziale.
Un apparato di giustizia inefficace è un apparato di giustizia inesistente, senza giustizia non ci sono diritti e senza i diritti a venir meno sono anche i doveri: senza un equo bilanciamento dei due la macchina democratica non può funzionare.
Fino a quando le sanzioni saranno inadeguate, i tempi della giustizia troppo lenti e i controlli troppo sporadici, il singolo cittadino preferirà sempre intraprendere vie traverse per ottenere maggior profitto immediato vanificando anche l’unico vero mezzo di difesa: la denuncia.
Siamo lo Stato delle contraddizioni, uno Stato che va indietro invece che andare avanti e l’ascendente xenofobia ne è l’ennesima riprova. La democrazia si basa su un equo bilanciamento di diritti e doveri: un diritto è figlio dell’adempimento ad un dovere anteriore e non della privazione di diritti altrui.
Da qui un appello a tutti quei giovani che se ne sono andati o, stremati, intendono andarsene: solo una spinta dal basso potrà limitare il moto perpetuo che sta portando l’Italia alla deriva sociale, economica e ideologica; non possiamo permettere che il futuro del nostro Stato rimanga nelle mani di disonesti e arresi, di individui che invece di garantire ai propri figli un terreno fertile su cui prosperare hanno preferito, e continuano a preferire, l’egoismo e l’accumulazione selvaggia.
Possiamo aspettare, correndo il rischio che le nuove generazioni si adattino a questo sistema marcio, oppure possiamo fare qualcosa subito, opporci con tutti noi stessi. Sfruttare i giovani, incolpare gli stranieri delle nostre colpe, interessarsi solo a ciò che tange direttamente la nostra vita: questa non è giustizia.
Questa non è evoluzione. Tollerando tutto ciò non facciamo altro che vanificare gli sforzi e i sacrifici di chi ha combattuto non solo per garantirci dei diritti, ma soprattutto per dimostrarci che è possibile invertire l’andamento delle cose.
Ci stanno portando ad odiare il paese più bello del mondo ed è nostro dovere prenderne le redini prima che, come insegna la storia, avvenga l’ennesimo tracollo.
Occorre quindi tornare indietro, non ad un totalitarismo basato sull’intolleranza, religiosa o razziale che sia, ma alle origini e ai principi su cui la democrazia si erse: una democrazia intessuta nella vita di ogni giorno, non quella delle cabine elettorali.
Gobbo Lorenzo