Sono armi potentissime. Ma servono solo contro batteri specifici. L’abuso li ha resi inefficaci. Ed e’ allarme globale.
E’ l’uso maldestro degli antibiotici, il fatto che li prendiamo alle prime febbri o ai primi eccessi di tosse senza verificare che ci siano infezioni batteriche e quali, a rendere questi farmaci sempre meno efficaci. E l’abuso è tale, da creare un allarme sanitario per l’intero pianeta. Possibile che sia l’apprensione di una mamma o la fretta di tornare in uffico a mettere a repentaglio il pianeta? Sì, e vediamo perché. A partire proprio dall’abuso casalingo. Annota Alberto Ferrando, pediatra di famiglia a Genova: «Solo tre casi su dieci di mal di gola richiedono l’antibiotico e anche nell’otite media acuta e nella bronchite l’uso dell’antibiotico viene limitato ad alcune situazioni che presentano fattori di rischio o in caso di particolare gravita. Il problema è convincere le famiglie che un antibiotico non serve a guarire tutte le malattie. La maggior parte di bambini guarisce da un’otite anche senza antibiotico, mentre altri sviluppano una mastoidite anche se sottoposti a terapia. Non solo: a contribuire all’avanzata delle resistenze è anche il fatto che molti, una volta terminati 1 sintomi, smettono il farmaco pur se il trattamento non ha eradicato l’iniezione. Così si aiutano solo i germi a diventare resistenti». Resistenza è la parola chave per capire che l’abuso rende inutili queste armi altrimenti potentissime. L’ultima conferma viene da una ricerca apparsa su “Microbial Drug Resistance“. La quale dimostra che, se ci si cura bene e con la giusta indicazione, gli antibiotici sono ancora veri salvavita. Ma che purtroppo essi stanno perdendo potere, in un mondo dominato in misura crescente dai germi. Dove l’aumento delle resistenze ai farmaci si traduce sempre di più in casi di morte legati a infezioni che solo qualche anno fa potevano essere curate senza soverchie difficoltà. Nella sola Unione europea la resistenza agli antibiotici è responsabile di 25 mila decessi e di circa 200 mila ricoveri prolungati in ospedale con un’impennata delle spese sanitarie. Oggi in Italia il 40 per cento circa dei ceppi di stafilococco aureo isolati nei nosocomi è resistente a molti antibiotici. Lo pneumococco, potenziale responsabile di polmoniti, meningiti e setticemie diventa sempre più resistente agli antibiotici di scelta, come le penicilline e i macrolidi. Solo il 43 per cento dei ceppi di escherichia coli, batterio tristemente famoso per l’epidemia scatenatasi in Germania e legata ad un ceppo mutato, rimane sensibile a tutti gli antibiotici. Infine la klebsiella pneumoniae, responsabile di polmoniti, cistiti e gravi setticemie, è oggi “multiresistente” in Italia in oltre il 12 per cento dei casi. «Le difficoltà a trattare le infezioni batteriche non si riflettono solo sui pazienti, ma anche sulla spesa sanitaria, precisa Giovanni Fadda, docente di • Microbiologia all’Università Cattolica di Roma: «Abbiamo pubblicato uno studio su “Antimicrobial Agents and Chemotherapy ” che dimostra come in assenza di complicazioni infettive un paziente in media va a casa in 3-5 giorni e il costo del ricovero si aggira intorno ai 5.500 euro. Se però compare una setticemia si allungano i tempi di degenza da 5 a 13 giorni e i costi salgono a 8.500 euro. Se poi il malato contrae un’infezione da escherichia coli resistente il ricovero può arrivare anche a tre settimane e i costi lievitare fino a 13.700 euro». E al propagarsi di ceppi di batteri resistenti a ogni farmaco possibile contribuisce di gran lunga anche l’uso improprio di antibiotici negli animali d’allevamento. Perché in molti casi è proprio attraverso questa via che i germi assumono le caratteristiche genetiche che li rendono inattaccabili. Abuso dei farmaci, eccesso di antibiotici per proteggere e far crescere animali da macello o pesci d’acquacoltura…. Quali che siano le cause, ormai è una vera e propria gara tra apparati unicellulari che si modificano e assumono caratteristiche genetiche che li rendono immuni ai farmaci e ricerca impegnata a proteggere un organismo complesso come quello umano. E tocca a Susanne Jakab, direttore regionale dell’Oms per l’Europa, dire che «siamo ad un punto critico in cui la resistenza agli antibiotici sta raggiungendo livelli senza precedenti e nuovi antibiotici non saranno prodotti». Perché, se in passato i medici erano abituati ad avere a disposizione sempre nuove pillole per contrastare i batteri resistenti, oggi non è più così. Basta guardare i numeri: i nuovi antibiotici sono stati 16 nel quinquennio 1983-1987,solo dieci nello stesso periodo degli anni ’90 e cinque tra il 2003 e il 2007. Poi il crollo. Se tutto va bene, tra il 2008 e il 2012 saranno due i nuovi antibiotici approvati dalle autorità regolatorie. Sotto accusa ci sono l’industria farmaceutica e le istituzioni. La prima perché ormai sta abbandonando la ricerca in questo ambito, le seconde perché non offrono significativi sostegni, in termini di investimento per nuovi studi, prolungamento dei brevetti per le aziende e di agevolazioni nello sviluppo dei farmaci. La scarsa attenzione di Big Pharma a questo settore è fin troppo evidente. Nel 1990 erano 18 le grandi compagnie che ricercavano antibiotici, nel 2010 soltanto quattro.
La ragione è ovvia: un ciclo di trattamento con antibiotico che preveda l’impiego dei farmaci più moderni può costare al massimo 2 mila dollari e dura sette giorni; un moderno medicinale anti-cancro, al contrario, ha un prezzo dieci-venti volte maggiore e soprattutto va assunto per alcuni mesi, se non per anni. Il mercato degli antibiotici offre quindi profitti poco soddisfacenti, anche perché le istituzioni sanitarie pretendono che questi farmaci non siano solo efficaci, ma anche poco costosi. D’altro canto anche la ricerca pubblica in questo ambito langue. Nel 2009 l’Istituto nazionale per le allergie e le malattie infettive degli Usa ha speso ben 94 milioni di dollari per individuare nuovi approcci per malattie rare. E per sviluppare nuovi antibiotici capaci di rispondere all’emergenza dei ceppi resistenti di batteri comuni? Solo 16 milioni. Una proposta viene da Matthew Cooper e David Shlaes che, sulle pagine di “Nature”, avanzano l’ipotesi di una sorta di accordo tra le agenzie regolatorie principali per studiare un percorso comune di sviluppo di nuovi antibiotici. Dal 2006 ad esempio la Food and Drugs Administration (Fda) americana prevede ricerche ampie e molto costose per valutare l’efficacia di un nuovo antibiotico, mentre l’European Medicinal Agency (Ema) accetta studi più semplici ed economici da realizzare per registrare un nuovo antibiotico. Questo porta le aziende a puntare diritto sul Vecchio continente e magari su Cina, India e Brasile quando hanno a disposizione un farmaco promettente, tralasciando il mercato americano.
Il business, quindi, continua a guidare le scelte della ricerca ed è proprio la necessità di superare le logiche di mercato la chiave degli appelli degli scienziati per non ritrovarci completamente inermi di fronte ai batteri. Purtroppo però sono poche le prospettive a breve termine per invertire un trend che rischia davvero di riportarci indietro nel tempo, quando ancora bastava un batterio qualsiasi per mietere migliaia di morti.
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