L’articolo 18 è da anni al centro del dibattito politico sul tema del lavoro. L’ultimo a invocare la sua abolizione è stato il leader del Nuovo Centrodestra, Angelino Alfano. Da sempre ci si divide tra abolizionisti e difensori dello status quo. Ma cancellando l’articolo 18 si risolvere il dramma del lavoro? Oggi, oltre che per i lavoratori delle piccole imprese, l’articolo 18 non esiste più di fatto neppure per i giovani, i nuovi assunti. E quindi, che senso ha abolirlo rischiando di fomentare l’ennesimo scontro sociale?
“La vicenda dell’articolo 18 si presta bene per illustrare il dominio delle idee ricevute nella vita sociale. La versione originale, vedi la legge 300 del 1970, attribuiva al lavoratore un diritto sacrosanto: se veniva licenziato senza giusta causa, il giudice doveva reintegrarlo nel posto di lavoro. Per di più gli spettava un’indennità per il tempo intercorso tra licenziamento e reitegrazione.
Era tanto ovvio tale diritto, quanto difficile da negare, da non avere mai costituito un ostacolo alle assunzioni da parte delle imprese. Quando un intervistatore glielo chiedeva, lo collocavano tra il decimo e il ventesimo posto. La stessa Confindustria, salvo qualche dichiarazione di ufficio, non ha mai dimostrato di vedere nell’articolo 18 un nemico della crescita delle imprese. Poi sono arrivati i riformatori del mercato del lavoro. Devono avere letto da giovani alcuni rapporti Ocse che collocavano l’Italia tra i paesi con una legislazione a protezione dell’impiego molto rigida, la famosa Epl (Employment Protection Legislation Index) che misura il grado di protezione del lavoro. Nuoce all’occupazione, scriveva l’Ocse.
I nostri riformatori ne inferivano che in Italia la Epl si compendiava nell’articolo 18, per cui decisero che andava abolito. Ci provarono una prima volta negli anni 2000. Ne furono dissuasi da milioni di persone portate in piazza da Sergio Cofferati, allora leader della Cgil. Per aggirare l’articolo 18 i riformatori inventarono allora decine di contratti atipici, grazie ai quali i precari son diventati 4 milioni. Non basta. Un decennio dopo ci hanno riprovato, sempre in base all’idea ricevuta che se si toglieva di mezzo l’articolo 18 il tasso di occupazione sarebbe schizzato alle stelle. Non importa se la stessa Ocse ha poi scritto che a ben vedere non c’è nessuna relazione certa tra Epl e tasso di occupazione. Né che il tasso di Epl italiano tra gli anni 90 e il 2010 si sia dimezzato, scendendo da 3,5 punti a 1,8.
Guidata inflessibilmente dalle idee ricevute in tema di occupazione, la riforma del marzo 2012 ha svuotato l’articolo 18 dei suoi contenuti originari. Di fatto, come difesa forte del licenziamento senza giusta causa esso non esiste più. Nell’Olimpo dei personaggi letterari, Bouvard e Pécuchet si fregano le mani. Hanno aggiunto un altro reperto alla loro collezione di idee ricevute. E dei loro rovinosi effetti”. Luciano Gallino, docente di sociologia italiano