Il problema del debito estero dei Paesi in via di sviluppo nasce durante gli anni ’70 in corrispondenza del primo Shock petrolifero. Le materie prime non petrolifere raddoppiarono il loro prezzo fra il 71 e il 73 e i derivati del petrolio lo quadruplicarono. La brusca impennata dei prezzi del petrolio, a fronte di una domanda sostanzialmente rigida, determinò inflazione per i paesi consumatori e portò nelle casse dei paesi produttori un’ingente quantità di valuta, largamente superiore al fabbisogno finanziario nazionale. Finanziati i progetti d’investimento interni, questi paesi offrirono i cosiddetti “petrodollari” sul mercato internazionale. La grande massa finanziaria così disponibile fece scendere i tassi d’interesse e venne raccolta dalle banche commerciali internazionali che la offrirono soprattutto ai paesi del sud del mondo. Tassi così bassi rendevano infatti particolarmente vantaggioso il finanziamento di programmi d’investimento industriale. I PVS non produttori di petrolio erano il mercato più bisognoso di un miglioramento del patrimonio tecnologico e divennero così un naturale obiettivo di collocazione dell’offerta finanziaria.L’indebitamento per i PVS appariva vantaggioso per diverse ragioni:
-bassi tassi d’interesse;
-diminuzione dei prezzi relativi ai beni capitali al Nord che rendeva più accessibile il costo degli investimenti;
-i prezzi delle materie prime erano alti. Siccome le materie prime rappresentavano la componente principale, a volte l’unica, delle esportazioni dei PVS, si supponeva che ciò avrebbe consentito facilmente la creazione di risorse per la restituzione dei debiti contratti.
Si mise in moto un intenso movimento finanziario in cui per la prima volta entravano con un ruolo di primo piano le grandi banche commerciali internazionali. Negli ani ’70 infatti il finanziamento allo sviluppo nel Terzo Mondo acquista una fisionomia nuova rispetto al passato. Nei decenni precedenti le forme tradizionali di finanziamento erano state quelle dei prestiti obbligazionari che i governi dei paesi debitori emettevano sulle piazze finanziarie europee e, in particolare, dopo il 1945, quelle degli investimenti esteri diretti e dei crediti di aiuto da parte dei governi e degli organismi internazionali. In questa fase invece assumono peso prevalente i finanziamenti privati rispetto a quelli pubblici e, fra questi, quelli operati dalle banche commerciali. Alla fine degli anni ’70 si composero tre fattori che si dimostrarono devastanti per la situazione finanziaria dei paesi che si erano indebitati negli anni precedenti. Nel 1979 si verifica il secondo shock petrolifero: i prezzi del greggio aumentarono di oltre venti volte rispetto al valore originario del 1973 e i PVS non produttori subirono, come tutti i paesi consumatori, un brusco e straordinario rialzo nell’ammontare delle importazioni. In secondo luogo, a fronte di questo aumento, i prezzi delle materie prime rimasero in un primo momento costanti, ma la recessione che colpiva i paesi industrializzati portò a ridurre la domanda e di conseguenza i prezzi. Poiché i PVS debitori erano esportatori soprattutto di materie prime, ciò si tradusse in un severo peggioramento delle ragioni di scambio, di conseguenza, in un deterioramento del saldo corrente della bilancia dei pagamenti. Il terzo fattore fu lo svilupparsi delle politiche di ispirazione monetarista degli Stati Uniti e della gran Bretagna, che all’insegna di politiche monetarie restrittive fecero impennare i tassi d’interesse. Non è difficile immaginare il risultato di questi 3 fenomeni per i PVS. L’aumento dei tassi d’interesse fece esplodere il costo del servizio del debito. L’aumentato onere dell’approvvigionamento energetico rese elevatissimo il costo delle importazioni e il fabbisogno finanziario. Il peggioramento delle ragioni di scambio rese le esportazioni del tutto insufficienti a pagare sia le importazioni sia il servizio al debito. E’ stato calcolato che nel periodo 1973/1982 il debito dei PVS non produttori di petrolio è aumentato di circa 500 miliardi di dollari, la metà dei quali dovuti unicamente all’aumento del prezzo del petrolio. Un fattore importante da non dimenticare è il violento apprezzamento del dollaro. Obiettivo delle politiche americane, dal 1979 in poi, fu la rivalutazione del dollaro. Gli alti tassi d’interesse interni ottennero efficacemente il risultato determinando un fenomeno del tutto particolare nella storia dell’economia: l’apprezzamento di una valuta rispetto a tutte le altre anche quelle forti. Rispetto alla lira italiana il dollaro quadruplica il suo valore, passando da circa 600 lire alle 2.200 per un dollaro nel 1982. Il confronto con le altre monete del nord è appena meno violento, con il raddoppio del corso rispetto al marco tedesco e al franco svizzero. Questa impennata, che i paesi del Terzo mondo, subirono in modo molto più pesante, ebbe due conseguenze sui paesi debitori e sulle loro già malconce ragioni di scambio. L’impatto di questa dinamica sul peso del debito estero fu terribile. I contratti erano siglati in dollari e in brevissimo tempo i debitori si trovarono a dover restituire ammontari costanti se misurati in dollari, ma moltiplicati numerose volte se misurati in valuta locale. Se un paese esposto per un miliardo di dollari al momento della stipula dell’accordo aveva debiti , ad esempio, per 100 miliardi di moneta locale, con la svalutazione rispetto al dollaro si trovò nello spazio di un paio d’anni ad essere esposto per lo stesso ammontare di dollari, per 500 o per 1000 miliardi di valuta locale. Nessuno poteva resistere ad un impatto di questo tipo, e l’inevitabile cedimento dei debitori li portò ad accettare, alle condizioni dei creditori, riscadenziamenti in cui il capitale non veniva comunque mai cancellato né ridotto, dando origine così ad un vero e proprio giogo, che nel lungo periodo ha comportato una sistematica ed enorme uscita di risorse che ha impedito lo sviluppo. Molti, non soltanto tra i rappresentanti dei PVS, sostengono che il debito è già stato pagato. Se utilizziamo un paniere di monete che sterilizzi l’apprezzamento del dollaro, per ricalcolare tutte le somme pagate e ricevute con un’unità di misura diversa dal dollaro emerge che in molti casi il debito è già stato pagato ed in alcuni casi più volte. Alla fine degli anni ’70 abbiamo dunque una situazione per i debitori insostenibile. Occorreva qualcosa di nuovo, qualcosa che consentisse ai debitori di onorare i debiti contratti e ai creditori di essere pagati, qualcosa che consentisse ai debitori vero sviluppo. Occorreva un approccio nuovo che cambiasse il quadro generale.
Le banche commerciali invece risposero con nuovi prestiti. Nel biennio 1980/81 prestarono ai maggiori debitori un ammontare netto uguale a quello erogato nell’intero periodo 1973/79. La crisi arrivò inevitabile. Nell’estate del 1982, dopo vari tentennamenti, il Messico dichiara l’impossibilità di pagare il servizio del debito. A ruota altri governi dell’America latina si dichiarano insolventi e scoppia la crisi del debito internazionale. Se le banche commerciali avessero portato a perdita i crediti inesigibili, avrebbero creato una crisi senza precedenti nel mercato finanziario dei paesi del Nord, soprattutto per la mancanza di fiducia che avrebbero determinato, più che per l’ammontare delle cifre di esposizione. Si determinò così un’attenzione politica alla crisi del 1982 che non si era verificata in occasione delle crisi precedenti. I governi del Nord sollecitarono le istituzioni finanziarie internazionali, Banca Mondiale e FMI ad intervenire per dare indicazioni super partes a debitori e creditori. Vennero così definiti accordi di riscadenzamento del debito, nei quali erano compresi nuovi tempi di restituzione, nuovi prestiti per superare la fase di crisi e provvedimenti di politica economica di ispirazione liberista che il governo debitore si impegnava a mettere in atto. Nascevano i piani di aggiustamento strutturale.
Con l’aggiustamento strutturale la comunità finanziaria internazionale, per bocca del FMI e della BM, imponeva ai paesi debitori riforme economiche che i governi erano di fatto obbligati ad avviare per poter accedere a nuovi finanziamenti e agli accordi di riscadenziamento. Tali riforme consistevano, in sintesi, nella liberalizzazione completa del mercato interno eliminando tutte le forme di protezione, nella liberalizzazione del tasso di cambio e nella riduzione ai minimi termini della spesa pubblica, per definizione improduttiva. FMI e BM partivano dalla convinzione che ci si trovasse nel pieno di una crisi di liquidità e non di insolvenza. Sarebbe bastato superare il momento difficile e poi, aumentare le esportazioni, i paesi debitori avrebbero avuto a disposizione le riprese necessarie per onorare il servizio al debito. Negli anni ’80 due cause hanno avuto un peso assai rilevante nell’acuirsi della crisi: l’impennata dei dollari nel mercato dei cambi (descritta prima) e la grave recessione dei paesi industrializzati. Quest’ultima fu dovuta alla spinte inflattive determinate dagli aumenti sconsiderati del prezzo del petrolio.
Il forte aumento dei tassi d’interesse cambiò le abitudini di molte imprese, che iniziarono a investire finanziariamente parte del loro patrimonio, per gli elevati redditi che il mercato finanziario garantiva. Si è verificato un travaso di risorse dall’apparato produttivo ai mercati finanziari determinando la cosiddetta finanziarizzazione dell’economia. Di fatto così, dal 1982 i prestiti ai paesi debitori si contraggono bruscamente e inizia una fase lunghissima nella quale i flussi netti tra Nord e Sud vedono un trasferimento massiccio di risorse finanziarie dai paesi debitori ai creditori. Tra il 1982 ed il 1990 i PVS hanno ricevuto 927 miliardi di dollari, tra crediti all’esportazione, finanziamenti ufficiali allo sviluppo e flussi privati. Nello stesso periodo i PVS hanno pagato ai paesi creditori 1.345 miliardi di dollari solo per il servizio del debito. La differenza ammonta a 418 miliardi miliardi erogati dai debitori ai creditori. Nonostante questo il debito dei PVS nel 1990 risulta aumentato del 61% rispetto all’ammontare del debito nel 1982. La situazione vede oggi una esposizione dei PVS di oltre 2.000 miliardi di dollari, che comporta un servizio del debito onorato per 270 miliardi di lire circa. Sono dati che nascondono situazioni insostenibili in cui il debito sottrae risorse alla stessa sopravvivenza di parte della popolazione.
La spirale del debito ovvero i meccanismi di causa/effetto
Fra queste un ruolo di rilievo ebbe la spinta all’industrializzazione. Purtroppo di fronte all’esigenza di modernizzazione dell’economia si misero in atto veri modelli di malsviluppo. In molti casi venne dimenticato l’obiettivo di autonomia alimentare, generando gravissime difficoltà per le popolazioni più povere. Sono purtroppo numerosi gli esempi di progetti faraonici che hanno comportato ingenti spese per i governi, senza offrire in cambio beneficio. Molti di questi impianti sono stati pagati dai governi dei PVS, che si sono indebitati per acquisirli, a prezzi più alti di quelli correnti al Nord. Non sono mancati i casi di corruzione, con tangenti pagate dai funzionari delle grandi imprese commerciali del Nord per convincere i funzionari pubblici dei PVS ad acquisire gli impianti di loro produzione. Purtroppo spesso si è avuta la cessione di macchine obsolete ai paesi poveri, ricavando prezzi iniqui in rapporto alla redditività del bene venduto e, soprattutto, la promozione di programmi che non tenevano sempre conto delle reali esigenze del paese. La tesi è che macchine con produttività inferiore a quelle che contemporaneamente i paesi industrializzati installavano presso le loro imprese abbiano condannato pregiudizialmente i PVS a perdere nella competizione internazionale. Questa tesi è naturalmente fondata, ma va ricordato che l’idea d’installare macchine superate disponibili a basso prezzo nasceva allo scopo di avviare produzioni su scala regionale, che cioè non intendevano competere sul mercati internazionale.
Fu quando i paesi debitori vennero spinti a competere con la loro produzione industriale sul mercato internazionale che si raggiunse in qualche caso la soglia del raggiro. La comunità del Nord ha spesso spinto in modo esigente i paesi debitori a trasformare la loro economia affinchè fosse trainata dalle esportazioni. Da una parte si concordavano finanziamenti solo a patto che si mutasse in questo senso l’apparato produttivo del paese e dall’altra si offrivano i beni capitali per farlo. Ma in diversi casi solo una manodopera sottopagata poteva compensare un fattore produttivo capitale con produttività minore rispetto a quella dei competitori del Nord. Alla contrazione in valore delle esportazioni agricole dei paesi forzati a modificare le loro colture, rinunciando all’autonomia alimentare, per produrre beni esportabili, qui basti sottolineare che l’onere sul debito dei paesi del sud è aumentato anche a causa della spinta a realizzare investimenti industriali che non si sono rivelati produttivi, rinunciando ad attività di orizzonte più circoscritto che garantivano però la soddisfazione di bisogni primari. In diversi casi i beni sono stati utilizzati per finanziare l’importazione di beni di consumo di lusso per le classi più agiate della popolazione, sottraendo risorse agli investimenti. Un altro fattore che ha pesato sulla formazione del debito è quello della cosiddetta fuga di capitali. E’ stato calcolato che tra il 1980 ed il 1981 in Messico più del 40% dei prestiti ricevuti sono “volati” all’estero. In Argentina la percentuale fu dell’84% e in Venezuela raggiunse addirittura il 167%. In alcuni casi questo fenomeno è dovuto alla contemporaneità di politiche fiscali mirate male e di politiche monetarie di lotta all’inflazione e difesa del tasso di cambio. In altri casi ben altre sono le ragioni. La fuga di capitali che Marcos ha operato dalle Filippine, per citare uno dei casi più noti e scandalosi, ha fondamenti molto diversi. Altrettanto dicasi per l’abellimento che Mobutu con le sue ville ha portato alla riviera della Costa Azzurra. La corruzione delle classi dirigenti di alcuni PVS ha fatto sì che parte dei finanziamenti ottenuti con prestiti internazionali venissero letteralmente rubati e riportati all’estero in investimenti finanziari “sicuri”. Questo fenomeno è stato a volte incoraggiato dalle stesse banche commerciali occidentali che con una mano proponevano il prestito e con l’altra suggerivano la ricollocazione. Le banche più aggressive come la Citybank, hanno probabilmente raccolto dai paesi poveri una somma pressochè equivalente a quella che hanno loro prestato. La loro vera funzione è stata quella di prendere i capitali, rubati dalle classi dirigenti del Terzo mondo ai rispettivi governi, e di riprestarglieli, guadagnandoci ogni volta una bella differenza. Tra le responsabilità del Nord non va dimenticato l’incoraggiamento a svalutazioni competitive per aumentare le esportazioni, che ovviamente incoraggiavano anche gli esportatori di capitali a guardarsi bene da farli rientrare in patria.
La spesa militare è sempre improduttiva. Spesso è promossa dai governi per sentirsi più sicuri, soprattutto nei confronti del proprio popolo, che, sfruttato e affamato, tende a diventare “riottoso”. Una ricerca dell’istituto SIPRI di Stoccolma ha calcolato che il 20% del debito dei PVS non produttori di petrolio è direttamente attribuibile alla spesa per armamenti.
Debito e ambiente
Negli anni 70 e 80 vennero finanziati nei paesi sottosviluppati colossali progetti dannosi per l’ambiente: come megadighe, centrali nucleari, vastissimi impianti agricoli e industriali, fonderie alimentate col carbone proveniente dalle foreste. Ciò comportò un pesantissimo indebitamento dei PVS. Ma quando i debiti arrivarono alla scadenza, ai danni ambientali si sommarono quelli economici derivanti dalle condizioni capestro che erano state accettate al momento della stipula dei contratti di credito. Messi alle strette dai creditori, i paesi sottosviluppati non possono che dare fondo alle loro risorse naturali affrettandosi nel tentativo di trasformarle rapidamente in valuta pregiata da destinare al pagamento dei creditori.
Il mercato secondario dei prestiti
Preoccupate del crescente rischio d’insolvenza dei loro debiti, le banche dopo aver tratto tutto il profitto possibile dai prestiti concessi decidono che è giunta l’ora di tutelarsi. Una trovata ingegnosa fu quella di trattare i prestiti come se si trattasse di una merce qualsiasi da vendere sul mercato dell’usato. Il “Debt for Equity Swap” (Debito contro quote di capitale) permetteva alle banche di liberarsi del problema di recupero crediti, rivendendoli con uno sconto che variava dal 50 all’85% a seconda delle condizioni economiche del paese debitore. E così la banca si libera di una parte dei suoi crediti in sofferenza (dopo che le avevano fruttato molte volte il loro valore tra restituzioni ed interessi); e un’impresa straniera acquisisce a prezzi scontatissimi quote di aziende pubbliche d’importanza strategica.
Mentre parte degli investimenti realizzati dal paese debitore per fornire servizi essenziali alla popolazione passa nelle mani di un’azienda straniera.
Il paese indebitato deve accettare questa ingerenza per poter ridurre anche di poco la pressione delle banche private creditrici.
(Es. 1) il valore nominale del debito che la banca vende è 1 miliardo di dollari; 2) Questo stesso debito la banca lo vende a 300 milioni di dollari. 3) L’impresa, nuova titolare del debito, acquisisce quote d’imprese pubbliche del paese (telefono, acqua, ecc.) per l’equivalente di 1 miliardo di dollari. E così la multinazionale o il detentore di cospicui fondi depositati all’estero (spesso illegalmente) si ritrovano proprietari di strutture produttive del valore di 1 miliardo di dollari in moneta locale a fronte di un investimento di soli 300 milioni di dollari: guadagno della sola operazione finanziaria: 700 milioni di dollari).
Secondo la Banca Mondiale nell’aprile del 1999 il debito del Terzo Mondo ammontava a 2450 miliardi di dollari USA. Il debito è dovuto a tre categorie di creditori:
le istituzioni multilaterali (in particolare FMI, BM);
il settore privato (banche, fondi d’investimento);
gli stati.
Debito multilaterale. FMI e BM per statuto non rinunciano mai a riscuotere un debito, al massimo arrivano a creare un fondo fiduciario alimentato dai paesi membri, da cui attingono in condizioni eccezionali per rimborsarsi.
Se si considera che FMI e BM detengono una percentuale compresa tra il 30 ed il 75% del debito totale dei paesi dell’Africa subsahariana e, al tempo stesso, si propongono come punto di riferimento per l’aiuto pubblico allo sviluppo e la lotta alla povertà, una domanda sorge spontanea: perché BM e FMI non hanno regole che permettono l’annullamento dei debiti divenuti insostenibili? Non sarebbe forse utile che rivedessero i propri statuti, che risalgono ancora al 1944?
Per il debito privato. In nessun caso è stato proposto l’annullamento del debito nei confronti di istituzioni finanziarie private. Pur considerando che il 50% del debito di America Latina e Sud est asiatico è dovuto a privati.
Il debito bilaterale (tra stato ricco e stato povero). Per trattare questo debito il paese povero si deve presentare singolarmente davanti all’insieme dei maggiori paesi creditori, come dire un Davide davanti ad una squadra di Golia. Solo questo tipo di debito è stato oggetto di iniziative di riduzione.
L’iniziativa HIPC (Highly Indebted Poor Countries). E’ un’iniziativa ideata nel 1996 da FMI e BM con l’obiettivo di riduzione del debito di tali paesi fino ad un livello sostenibile. Ma cosa significa “debito sostenibile”? Purtroppo nei fatti rimane un concetto assai vago ed arbitrario come ha ammesso lo stesso FMI. L’iniziativa è stata orientata, in realtà, al fine di permettere ai paesi più poveri di continuare a pagare i loro debiti. Essa quindi protegge più l’interesse dei creditori ad essere rimborsati che la necessità di alleviamento dei debitori. L’iniziativa HIPC ha inoltre un raggio d’azione molto limitato: considera solo i 41 paesi classificati come poveri ed altamente indebitati, ma non riguarda paesi come Brasile, India, Messico, Indonesia dove vive la grande maggioranza dei poveri del pianeta. La riduzione del debito viene concessa solo dopo sei anni di applicazione rigorosa dei piani di aggiustamento strutturale. E abbiamo già visto gli effetti disastrosi di questa “terapia” economica. Le condizione imposte per la riduzione sono così dure che dal 1986 i PAS sono stati interrotti più di 50 volte in ben 28 delle 36 nazioni interessate. Ogni ritardo o interruzione nell’attuazione dei programmi si traduce in un ritardo a tempo indefinito nella riduzione del debito. Ad oggi sono 7 i paesi che si sono qualificati per la riduzione dei quali solo 3: Uganda, Bolivia e Guyana, hanno iniziato a ricevere parte dei benefici. E’ inquietante che un paese HIPC beneficiario della riduzione del debito come l’Uganda, abbia aumentato immediatamente la sua spesa militare senza che nessuno trovasse nulla da ridire.
Il G7 di Colonia
Nel giugno del 99, in occasione della riunione dei primi ministri dei paesi più industrializzati, numerose associazioni hanno presentato una petizione di 17 milioni di firme per l’annullamento del debito del Terzo mondo. Non potendo ignorare la pressione della società civile, i rappresentanti delle potenze industriali hanno annunciato una manovra da 70 miliardi che dovrebbe annullare il 90% dei debiti dei paesi poveri. Ma le cose stanno davvero così? Vediamo l’esempio dell’Italia. L’Italia ha un credito totale con i paesi poveri, paesi in via di sviluppo e paesi dell’est, di 78.000 miliardi di lire. A dicembre l’Italia promette uno sconto di 3.000 miliardi. In effetti di questi 3000 miliardi circa 2.400 sono crediti inesigibili, cioè già riconosciuti come irrecuperabili. Cancellare questi 2.400 miliardi non ci costerà nulla perché sono già perduti. Quindi è una mossa di propaganda piuttosto squallida, perché si realizza sulla vita e sulle sofferenze di persone che invece sono vere.
In realtà i 70 miliardi di dollari di cancellazione da parte dei G7 rappresentano solo il 3% del debito dei paesi del Terzo Mondo e solo il 35% dei paesi HIPC (che nel 1998 ammontava a 205,7 miliardi di dollari) a cui è rivolta l’iniziativa. Secondo stime autorevoli la reale riduzione del debito sarà di soli 25 miliardi di dollari. In più non è stato modificato il meccanismo in base al quale la riduzione del debito arriverà solo dopo l’applicazione dei PAS. Questo farà sì che alcuni paesi come Nigeria, Angola, Sudan, Sierra Leone, Repubblica democratica del Congo, non accederanno alla riduzione. In sostanza l’iniziativa non costerà niente ai paesi ricchi che rinunceranno a debiti che in realtà i poveri non avrebbero mai potuto pagare. Questa iniziativa non impedirà che i paesi poveri continuino a pagare per il debito più di quanto non investano in sanità ed istruzione.
Il debito: un sistema di usura internazionale
Nel 1998 i PVS hanno pagato 13 dollari per ogni dollaro ricevuto, mentre ne pagavano 9 per dollaro nel 1996. I prestiti ai PVS sono calati dai 35 miliardi di dollari del 1991 a 23 miliardi di dollari nel 1998. Nonostante abbiano ricevuto meno di quanto abbiano pagato, il debito dei PVS è cresciuto, arrivando a 2.500 milardi di dollari nel 1998.
Il debito uccide. Su un miliardo di persone che vivono nei paesi più poveri altamente indebitati pesa un debito di 354 miliardi di dollari. Ogni bambino deve già 347 dollari in debito estero.
Per i paesi dell’Africa a Sud del Sahara, il valore complessivo dell’indebitamento è pari al 108% del prodotto interno lordo(la richezza del paese). Per 7 paesi supera il 200% (dati UNICEF). L’UNDP nel 1997 dichiarava che 21 milioni di vite potrebbero essere salvate se la spesa per debito fosse impiegata per sanità ed educazione.
Quanto costa cancellare il debito
Il valore di mercato dei debiti dei 41 paesi più poveri e indebitati non supera i 24 miliardi di dollari rispetto ai 200 di valore nominale. Se invece si considerano i 52 paesi per i quali Jubilee 2000 chiede la cancellazione, il valore nominale è di 354 miliardi ma quello di mercato è di soli 109 miliardi e il costo reale della cancellazione per i contribuenti dei paesi più ricchi non supera i 71 miliardi di dollari. Se questa spesa fosse distribuita su 20 anni, il costo per ogni abitante dei paesi industrializzati sarebbe di 4 dollari all’anno, solo 20 lire al giorno per un cittadino italiano. Il debito dei venti paesi più poveri del mondo potrebbe essere cancellato con un costo pari a quello di un solo bombardiere invisibile Stealth.
Un’opinione autorevole sul persistere del debito
Secondo Susan George, tra i primi ad occuparsi di questa problematica, si tratta di una guerra, non in senso metaforico ma in termini letterali. A sostegno della sua tesi cita Machiavelli che dice: “Gli Stati possono essere tenuti dai conquistatori in tre modi: il primo è distruggerli, il secondo è tenerli personalmente in soggezione, il terzo è lasciarli continuare a vivere con le proprie leggi assoggettandoli ad un regolare tributo e instaurando un governo minoritario che assicurerà i buoni rapporti col conquistatore”. Secondo la George è stata scelta questa terza via. Che sia una guerra trova conferma nella definizione che di quest’ultima dà Karl von Clausewitz: “La guerra è un atto di violenza il cui scopo è di costringere l’avversario a fare la nostra volontà”. Col debito si possono praticamente raggiungere tutti gli obiettivi della guerra classica, salvo l’occupazione dei territori, che oggi interessa poco. Nel Nord, da una parte noi otteniamo le materie prime a prezzi bassissimi, i più bassi che ci siano stati dal 1930, dall’altra rileviamo anche a bassissimo prezzo da questi paesi delle imprese con il meccanismo del “debito contro capitale”. Quel che è peggio è che questa guerra si consuma nel più grande silenzio. E’ un vantaggio enorme per quelli che fanno la guerra, perchè se avete sugli schermi la visione, per esempio, del massacro dei curdi, la coscienza universale si scuote e l’opinione pubblica obbliga i governi a fare qualcosa.
Nel caso del debito, questo non si vede, sembra essere un problema di finanze, da esperti, da pagina economica del giornale. Tuttavia, ci sono sommosse in 24 paesi tra quelli indebitati, perchè la gente non ne può più. Quando il prezzo continua a salire per il pane, per il riso, per l’olio, la gente va per le strade e l’esercito spara e colpisce. Ma nel Nord non vediamo ogni sera quelle immagini ossessive e quindi non abbiamo una chiara coscienza della situazione, della sofferenza. Ci sono certamente vittime in queste situazioni, ma sono vittime del loro esercito, del loro governo. Noi non abbiamo mandato truppe, non ci sentiamo responsabili. Ma questa guerra viene condotta pure nel nord, contro di noi, anche se non è facile distinguerla chiaramente come nel Sud.
Ad esempio la perdita d’impiego e di mercato nell’ambito dei prodotti da esportazione, dovuta al fatto che un paese obbligato a porre tutti i suoi guadagni a servizio del debito bancario, non ha più niente per importare prodotti dal Nord. Si tratta di cifre da 500.000 a 750.000 dollari per l’Europa e di oltre 1 milione per gli USA. A conferma di ciò e della necessità di recuperare fette di mercato perduto c’è stata una recente risoluzione delle nazioni Unite che ha abbuonato parte del debito a 10 tra i paesi più colpiti
La guerra del debito è anche una guerra contro l’ambiente. Quando un paese è sottoposto ad una politica del “tutto esportazione”, bisogna vendere le risorse naturali, comprese le foreste tropicali. I suoli vengono forzati a colture commerciabili e si esauriscono le risorse perchè pensare all’avvenire è un lusso. L’ambiente si distrugge a velocità incredibile. Ogni secondo vengono distrutti tremila metri quadrati di foreste tropicali. Questa distruzione contribuisce anche all’effetto serra, al riscaldamento globale del clima, perchè le foreste tagliate emettono anche grandi quantità di gas carbonico. La proliferazione della droga è ancora un’altra conseguenza del debito. In Perù, in Bolivia, in Colombia è di fatto la sola economia che funziona correttamente. Come diceva il presidente del Perù Alan Garcia “la droga è la sola multinazionale dell’America latina”. C’è ancora il problema dell’immigrazione: quando la gente non può vivere decentemente nel suo Paese, è evidente che va a fare qualsiasi cosa in un altro posto dove intravede possibilità di guadagnare da vivere. Infine c’è il numero dei conflitti nel terzo mondo, già elevato e che va crescendo.
*Michela Di Gennaro Socia e Consigliere AIFO e Responsabile del Servizio Comunicazione e Relazioni esterne