Un testo assai interessante di Amador Fernández-Savater, filosofo spagnolo, una lettura del libro A nuestros amigos del Comité Invisible, dal titolo “Riaprire la questione rivoluzionaria”.
Introduzione: Estendere le piazze
Recentemente, durante un viaggio in Argentina, dopo aver ascoltato il mio racconto delle peripezie politiche che vanno dal M15 a Podemos, un amico mi chiese se nella società spagnola c’è una spinta verso il cambiamento che abbia una forma diversa dal desiderio di tornar a vivere in un capitalismo “tranquillo”. Ovvero se ci sono elementi di una mutazione di civiltà o se si chieda soltanto di tornare a quel che c’era prima ma ora non c’è (neppure come aspettativa), un cambiamento senza cambiamento.
Non sapevo bene cosa rispondere se non qualche banalità (c’è un po’ di tutto) ma la domanda continuò a risuonare nella mia testa. Quale è il movimento di fondo che stiamo vivendo dopo il 2011? Si tratta solo di veder la caduta di coloro che sono responsabili del fatto che le cose non sono più come erano e cercare qualcuno che ci riporti alla normalità, o si tratta di inventare nuovi modi di vita?
Sette anni dopo aver pubblicato quel best-seller paradossale che fu La insurrection qui viene, l’ultimo libro del Comité invisible (CI) inizia dicendo che “finalmente le insurrezioni sono arrivate”. Primavera araba, 15M, Syntagma, Occupy, Gezi… A partire da qui una scommessa: nei movimenti delle piazza vi sono indizi di una mutazione di civiltà, però senza un proprio linguaggio, senza una bussola, nel mezzo di una grande confusione.
“A nuestros amigos” è un piccolo evento nel mondo editoriale, non nel senso che si tratti di un successo di vendita o di marketing, ma di una anomalia. Non è un libro di autore, se non per il fatto che viene firmato con la denominazione fittizia di una costellazione di collettivi e di persone che sostengono che “la verità non ha proprietario.” Non è un libro che semplicemente emerga dalla lettura di altri libri, ma un complesso di esperienze, di pratiche e di lotte che considerano importante pensarsi e raccontarsi da sole. Non è un libro che pretenda di convincere qualcuno, e perciò si dirige agli amici, a quelli che in qualche modo già stanno camminando insieme anche senza conoscersi proponendo una serie di segnali, come quelle fessure che lasciano coloro che vanno per sentieri ad altri amanti delle passeggiate, con la differenza che questo cammino non esiste prima della camminata.
Il dato da cui parte il libro sono le potenze e le impasses dei movimenti delle piazze, non intesi come una serie dispersa di eruzioni non collegate, ma come una sequenza storica di sollevazioni collegate tra loro. Questi movimenti irrompono e alterano profondamente i contesti nei quali si svolgono, fondendo legittimità che apparivano solide come la roccia e redescrivendo la realtà, però sembrano alla fine scontrarsi con un muro (la politica macro) ed entrare in fase di riflusso. E’ qui che appare o può apparire l’operazione egemonica: approfittando del collasso e dello spostamento del senso comune generato dal clima delle piazze, si tratta di conquistare l’opinione pubblica, i voti e il potere istituzionale, per forzare il limiti del capitalismo parlamentare dall’interno, attraverso politiche effettivamente socialdemocratiche (Syriza in Grecia, Podemos in Spagna).
Ci sono altre opzioni? Si può immaginare un prolungamento non elettorale o istituzionale della potenza a delle piazze? Tra la riproposizione del verticismo politico e la tentazione della nostalgia e del risentimento come continuare e come andare oltre?
Il Comité Invisible propone la sua alternativa: riaprire la questione rivoluzionaria. Cioè riproporre il problema della trasformazione radicale dell’esistente chiusa dai disastri del comunismo autoritario del ventesimo secolo. La rivoluzione non come obiettivo ma come processo ovvero non tanto come un orizzonte astratto o ideologico, un puro dover essere senza ancoraggio nel desiderio e nella realtà, ma come prospettiva, come un punto di vista capace di spingersi più lontano però a partire da dove si sta, con i piedi a terra. Questa prospettiva rivoluzionaria sarebbe, secondo il CI quella del passaggio dal “paradigma di governo “ (che in Occidente regola tutto: l’ordine politico economico e intimo) al “paradigma dell’abitare”, una svolta insieme fisica e metafisica. Ci torneremo.
Riaprire la questione rivoluzionaria, una proposta eccessiva, irreale, delirante, inopportuna, di minoranze per minoranze? Sicuramente sì. Però al tempo stesso che spostamento significativo è nato come opzione maggioritario come riflesso del senso comune? Non è sempre stato dall’esterno del possibilità che le questioni decisive si sono aperte? E non sono forse ogni volta un piccolo pugno di pazzi (schiavi, operai, neri, donne, omosessuali)
coloro che avviano le mutazioni più importanti? La politica trasformatrice non è mai consistita in un calcolo di maggioranze, ma in una nuova verità che si dirige potenzialmente a chiunque.
“Ci siamo presi il tempo per scrivere, sperando che altri si prendano il tempo per leggere” dice il CI. Ho passato varie settimane a sbrogliarmela con il libro perché per me molto di quello che esso dice è strano, controintuitivo o contraddice direttamente quello che penso. Però in questo caso valeva la pena di scontrarsi. Finalmente mi sono messo a scrivere come un modo per capire meglio, di riappropriarmi del testo a partire dalle mie esperienze e referenze. Questa si può leggere dunque come una presentazione del libro che al tempo stesso è una mia interpretazione che mescola le sue parole e le mie, tirando fuori quattro dei punti forti che possiamo trovare nelle sue pagine.
2. Le verità etiche
Il corpo ustionato di Mohamed Bouazizi di fronte al commissariato di Sidi Bouazid, le lacrime di Wael Ghonim nell’intervista televisiva dopo essere stato liberato dalla detenzione segreta della polizia egiziana, lo sfratto notturno dei 40 di Puerta del Sol… le scene che durante gli ultimi anni hanno avuto la forza per aprire situazioni politiche: la primavera araba, l’acampada spagnola, non opponeun sapere all’ignoranza. In esse vi sono parole e voci più che discorsi e spiegazioni, ci sono persone comuni e anonime che dicono basta, ci sono corpi che occupano con coraggio lo spazio facendo quel che non dovrebbero fare, ci sono gesti pazzi nel senso di imprevisti e impossibili che sfidano lo stato delle cose con la vita allo scoperto, c’è la materializzazione poliziesca di un ordine odioso…. Sono scene che ridefiniscono e spiazzano per tutti la soglia tra quel che tolleriamo e quel che non tolleriamo più. Scene che ci commuovo e mostrano la differenza tra vita degna e vita indegna di esser vissuta.
Il CI afferma che se i movimenti delle piazze hanno spostato moltissimo i militanti di tutta la vita, è per questo: non si muovono da ideologie politiche, da una spiegazione del mondo, ma da verità etiche. In che senso? Come si differenzia una verità etica da una verità intesa come adeguamento dell’enunciato e della cosa?
Ricapitoliamo un po’: prima di scendere in piazza il 15M forse che sapevamo quel che stava succedendo, che la crisi è una truffa, che la chiamano democrazia e non lo è, che la politica dei politici è corrotta e subordinata alle esigenze dell’economia? Lo diceva perfino Inaki Gabilondo in prime time, in termini non tanto differenti da quelli che usa Pablo Iglesias. Lo sapevamo tutti però non succedeva nulla. La verità come semplice enunciato oggettivo, non possiede da sola la capacità di scuotere la realtà. Un potere delegittimato può continuare a operare, perché non si sostiene fondamentalmente sul nostro consenso (credenze o fiducia nelle sue spiegazioni), ma sopra la soggezione dei nostri corpi,la anestesia della sensibilità, la gestione dell’immaginazione, la logistica delle nostre vite, la neutralizzazione dell’azione.
Le verità etiche certo non sono descrizioni del mondo ma affermazioni a partire dalle quali abitiamo e ci comportiamo in quello spazio. Non sono verità obiettive o esteriori ma verità sensibili: quel che sentiamo di fronte a qualcosa più che quel che ne pensiamo. Non sono verità che teniamo separate, ma che ci legano a coloro che percepiscono la stessa cosa. Non sono enunciati che possano lasciarci indifferenti, ma che ci compromettono, ci colpiscono ci chiedono qualcosa. Non sono verità che illuminano, sono verità che bruciano.
Perché sarebbero tanto importanti le verità etiche, da un punto di vista di trasformazione? Secondo il CI, l’apolitica non oppone un gruppo a un altro, un discorso a un altro, ma un mondo a un altro. Il neoliberismo gioca a questo livello e da qui trae la sua forza. Cioè non solo è l’imposizione di certe politiche macro, ma anche “il fatto che si ammetta come naturale per il futuro una relazione col mondo basata sull’idea secondo la quale ciascuno ha la sua propria vita.”
Il neoliberismo non è ideologico ma essenzialmente esistenziale, e le sue catastrofi sono già implicite in questa idea della vita, materializzata nei gesti più quotidiani.
Se il CI afferma che la potenza politica delle piazze risiede nelle sue verità etiche è perché queste ci strappano dall’individualismo (ciascuno per sé) e ci legano da ogni parte a persone e luoghi, a modi di fare di pensare. A un tratto non siamo soli di fronte a un mondo ostile, ma siamo collegati. Colpiti insieme dall’immolazione di un nostro simile, dalla demolizione di un parco, dallo sfratto di un vicino i casa, il disgusto per la vita che dobbiamo fare, il desiderio di qualcosa di verso. Sentiamo che il destino di uno deve aver qualcosa a che fare con il destino degli altri. La stessa emozione della paloba che si condivideva nelle piazze aveva qualcosa a che fare col fatto che si trattava di parole magnetizzate da queste verità che veicolano altre concezioni, altri sentimenti.
La politica consiste, a partire da questo, nel fatto che sentiamo come verità di forme di vita desiderabili, capaci di durare e sostenersi materialmente. Le verità etiche producono un mondo.
3. Critica della democrazia
Senza dubbio per il CI la rivendicazione di democrazia (sotto qualsiasi forma: rappresentativa, diretta, digitale, costituente) non ha a che fare con le verità etiche provenienti dalle piazze. Piuttosto il contrario: l’immaginario e l’orizzonte della democrazia ci porta fatalmente fuori, conducendoci in un campo minato.
E’ un punto di scontro con il senso comune dei movimenti delle piazze, riassunto nella famosa parola d’ordine “democracia real ya” Come si spiega questo?
La concezione classica della politica divide le cose in un soggetto che governa e un mondo di cose di persone, processi che deve essere governato E’ il paradigma che regge disastrosamente il mondo, e ne fa un oggetto di controllo. Dato che la democrazia fa parte di questo paradigma, sia nella sua versione gerarchica (la democrazia rappresentativa secondo la quale il popolo non delibera se non attraverso i suoi rappresentanti) o nella sua versione diretta o assembleare.
Nell’agora democratica gli esseri razionali argomentano e contro-argomentano per prendere una decisione (la legge), però l’assemblea che li riunisce continua a essere uno spazio separato dalla vita e dai mondi: si separa di fatto per meglio governarli. Si governa producendo un vuoto, uno spazio vuoto (il cosiddetto spazio pubblico), in cui i cittadini deliberano liberi dalla pressione della necessità: rimane fuori dalla porta dell’assemblea la materialità della vita, quella che chiamiamo, slegandola dal politico, come spazio riproduttivo, domestico, economico, sopravvivenza, o vita quotidiana.
La critica del CI alla democrazia diretta non è solo una critica teorica ma si può intendere come un’osservazione dei vicoli ciechi e dei blocchi delle assemblee nei movimenti recenti: la parola si distanzia dall’azione, collocandosi “prima”: le decisioni non coinvolgono coloro che le prendono; il soffocamento della libera iniziativa e dei dissensi: il feticismo dei procedimenti e dei formalismi: le lotte di podere per condizionare le decisioni, la centralizzazione e burocratizzazione, eccetera. Per il CI, nulla di questo è accidentale, ma strutturale. Ha a che fare con la separazione istituti dall’assemblea tra le parole e gli atti, tra le parole e i mondi.
(Certo la democrazia digitale non risolve nulla di questo problema semmai aggrava alcuni problemi: regno dell’opinione in cui non si sa chi parla, in cui le decisioni non comportano conseguenze ecc).
La potenza delle piazze non sta per il CI nelle assemblee generali, ma negli accampamenti, cioè nell’autorganizzazione della vita comune (infrastrutture, alimentazione, turni di guardia, infermeria, biblioteche…). A partire dalle necessità immediate che venivano sorgendo (non per un piano stabilito prima), coordinando gli sforzi locali e situati in pochi giorni si costruirono decine di piccole città nel cuore stesso delle grandi. Non attraverso l’assemblea come luogo sovrano, ma attraverso mille pratiche dirette di autorganizzazione.
Gli accampamenti si organizzarono secondo quello che il CI chiama il “paradigma dell’abitare” che si oppone a quello del governo. Nel paradigma dell’abitare non c’è vuoto o opposizione tra soggetto e mondo, se non che i mondi si piegano su se stessi per pensarsi e darsi forma. Non si decreta quel che deve essere ma si elabora quel che sta avvenendo. Non si funziona a partire da metodologie, procedimenti e formalismi, ma da una disciplina dell’attenzione a quel che accade. Le decisioni non si prendono per maggioranza o per consenso, ma sono loro che prendono, decantandosi nella discussione: non ci sono elezioni tra opzioni esistenti, ma invenzioni che sorgono dalla pressione di un problema o di una situazione concreta: e le applicano coloro stessi che le prendono, provando in prima persona quel che queste decisioni implicano, facendo di ogni decisione un’esperienza.
La libertà, per il CI, non ha a che fare con la partecipazione o con l’elezione e il controllo dei rappresentanti, ma con lo svolgimento delle iniziative, con la costruzione di mondi abitabili, con pratiche concrete. Non tanto con il “poter decidere”, ma con il “poter fare”.
In conclusione la democrazia non solo fa parte del paradigma di governo, ma è insidiosa perché pretende di confondere governanti e governati.
Il grido: “Non ci rappresentano” apre una breccia scandalosa, ma arriva sempre un “vero democratico” per assicurarci che con lui, allora sì, ci sarà un governo della gente. E i governati così vengono di nuovo assorbiti dai governanti. Un potere rilegittimato in questo modo, un potere che dice di provenire dal popolo stesso, un governo del 99% può essere il più oppressivo di tutti. Chi potrebbe metterlo in dubbio? Solo l’1%. La parte si fa passare per il tutto e pone l’avversario nella posizione del mostro, del criminale del nemico da abbattere. In questo senso il ricordo del 15M sarà sempre un pericolo in quando “marea destituente” e creazione di mondi auto-organizzati, senza traccia di “potere costituente”, senza “nuova istituzionalità”. Divenire e rimanere ingovernabili passa attraverso la rinuncia a legittimarsi inun princpio superiore, per lasciare allegramente nudo il re del racconto, assumendo il carattere sempre locale e situato, arbitrario e contingete, di ogni posizione politica.
4. Il potere è logistico
I tunisini occuparono la Kasbah, i greci piantarono le tende di fronte al Parlamento in piazza Syntagma, i portoghesi tentarono di entrare con la forza all’Assemblea della Repubblica… Circondare, assaltare, occupare i parlamenti: i luoghi del potere istituzionale hanno attirato l’attenzione e il desiderio dei movimenti delle piazze, e forse per questo i dispositivi elettorali ne sono la continuazione logica.
Ma siamo sicuri che il potere si trovi lì? Il CI ha un’idea molto diversa: il potere è logistico, e risiede nelle infrastrutture. Non ha natura rappresentativa e personale, ma architettonica e impersonale. Non è un teatro, ma una struttura di acciaio, un edifico di cemento, un canale, un algoritmo, un programma informatico.
Nel suo libro Tecnica del colpo di stato il brillante e contraddittorio scrittore italiano Curzio Malaparte sostiene che il cuore della discussione tra Lenin e Trotzki alla vigilia della rivoluzione russa si trovava proprio qui. Per Lenin si trattava di suscitare e organizzare una sollevazione generale delle masse proletarie che sboccasse nell’assalto al Palazzo d’Inverno. Per Trotzki, al contrario, la rivoluzione non consisteva nel combattere a petto nudo il governo con le sue mitragliatrici, né in una conquista dei palazzi dei ministeri, ma nella presa di possesso dell’organizzazione tecnica della società: centrali elettriche, ferrovie, telefoni, telegrafi, porti, gasometri, acquedotti… Per lui non occorrevano le masse proletarie, ma una truppa di assalto di mille tecnici: operai specializzati, meccanici, elettricisti, radiotelegrafisti… agli ordini di un ingegnere capo della rivoluzione: lo stesso Trotski.
Secondo Malaparte i mille tecnici di Trotzki si esercitarono per mesi in manovre invisibili: infiltrandosi di qua e di là, riuscirono a mappare la distribuzione degli uffici postali, le istallazioni della luce elettrica e del telefono il piano degli edifici e dei servizi tecnici della capitale. Giunto il momento elusero la vigilanza poliziesca, che era più attenta a una possibile sollevazione popolare che all’azione sotterranea di piccoli gruppi) e presero tutte le infrastrutture dello stato. L’assalto al palazzo d’Inverno fu spettacolare e passò alla storia, ma fu solo il modo per comunicare che il potere già era passato di mano.
Allo stesso modo il CI pensa che il governo non risiede nel governo, ma che è incorporato negli oggetti e nelle infrastrutture che organizzano la nostra vita quotidiana, e da cui dipendiamo completamente. Ogni costituzione è carta straccia, la vera costituzione è tecnica, fisica materiale. La scrivono coloro che disegnano costruiscono e gestiscono la infrastruttura tecnica della vita, le condizioni materiali di esistenza. Un potere silenzioso, senza discorsi, senza spiegazioni, senza rappresentanti, senza dibattiti televisivi al quale è inutile contrapporre un’egemonia discorsiva.
Ignorare il potere politico, concentrarsi sulle infrastrutture: qui terminano le risonanze con il singolare Trotzki di Malaparte. Per il CI non si tratta di “impadronirsi” dell’organizzazione tecnica della società, come se questa fosse neutra o buona in sé, e quindi fosse sufficiente porla al servizio di altri obiettivi. Questo fu l’errore catastrofico della rivoluzione russa: distinguere tra i mezzi e i fini, pensare per esempio che si potesse liberare il lavoro attraverso le stesse catene di montaggio capitaliste. No, i fini sono inscritti nei mezzi, ogni strumento e ogni tecnica configura e insieme incarna una certa concezione della vita, implica un mondo sensibile. Non si tratta di impadronirsi delle tecniche esistenti, ma di sovvertirle, trasformarle, riappropriarsene, hackerarle.
Lo hacker è una figura chiave della proposta politica del CI. O piuttosto lo spirito hacker, in un senso sociale, che va al dei limiti digitali, e consiste nel domandarsi (sempre attraverso il fare) come funziona questo, come si può interferire con il suo funzionamento, come potrebbe funzionare in un altro modo e condividere i saperi. Lo spirito hacker rompe la naturalizzazione delle black boxe tra cui viviamo normalmente (infrastrutture opache che costringono le nostre possibilità e i nostri gesti più quotidiana), rendendo visibili i codici di funzionamento, inventando usi eccetera. Tutto il contrario della narrazione tecno-feticista.
Ma non si tratta di sostituire i mille tecnici di Trotski con mille hacker.
Ciò che occorre piuttosto, quello che appare com un processo rivoluzionario effettivo, è un divenire hacker collettivo, di massa, senza ingegnere capo.
Cioè la messa in comune di saperi che non sono opinioni sul mondo, ma possibilità molto concrete di farlo e disfarlo. Saperi che sono poteri. Potere di costruire e di interrompere, potere di creare e di sabotare. Un divenire-hacker collettivo vuol dire migliaia di persone che bloccano in un certo punto nevralgico un megaprogetto di infrastrutture che minaccia di devastare un territorio e le sue forme di vita. Migliaia di persone che costruiscono piccole città in mezzo alle grandi e che sono capaci di riprodurre la vita per settimane. Le manovre invisibili in cui si preparano i processi rivoluzionari sono quegli spazi politici in cui si condividono saperi, scuole di conoscenza condivise, punti di incrocio tra saperi tecnici e forme di vita dissidenti. Meno assemblee e più hacklab.
5. Le comuni
La politica classica propaga il deserto perché è separata dalla vita: si fa in un altro luogo con altri codici in altri tempi… Fa il vuoto (astrazione dei mondi sensibili per governare) e quindi lo estende. La rivoluzione sarebbe al contrario un processo di ripopolamento del mondo: la vita allora potrebbe affiorare, dispiegandosi e autorganizzandosi da sola, nella sua irriducibile pluralità.
Il CI chiama “comune” la forma in cui si potrebbe realizzare questo dispiegamento autorganizzato della vita. La parola “comune” ha almeno due sensi (oltre l’evocazione storica): una relazione sociale e un territorio. La comune è da un lato, un tipo di legame: di fronte all’idea esistenziale secondo cui ciascuno ha la sua vita. La comune è il patto, il giuramento, l’impegno di affrontare il mondo uniti. D’altro lato è un territorio. Luoghi vivi in cui si iscrive fisicamente un certo tipo di condivisione, la materializzazione di un desiderio di vita comune.
Il CI propone allora di formare delle tribù, delle bande? Non esattamente, perché la comune è diversa dalla comunità, non vive rinchiusa e isolata, altrimenti si cristallizza e muore, ma sempre attenta a quel che le sfugge e la supera, in una relazione positiva con il di fuori. Né mezzi per un fine, né fini in se stesse le comuni seguono una logica di espansione e non di autoaccentramento.
Stiamo parlando di politica locale, di quartiere? Non esattamente, perché il territorio della comune non è dato anticipatamente, non preesiste, ma è la comune che lo attiva, crea e delinea, e il territorio offre rifugio. Il territorio della comune non ha limiti fissi, è una geografia mobile e variabile, una costruzione permanente. Un gruppo di amici può essere una comune, una cooperativa può esserlo, un collettivo, un quartiere. Forse per capire meglio la proposta del CI è utile vedere il contrasto con la politica classica.
Se la concezione classica ci fa pensare che la politica si svolge in un luogo astratto e separata dalla vita, un luogo eccezione che richiede un tipo di sapere ugualmente eccezionale, la comune si costruisce dove uno sta, a partire da quel che rende la vita rilevante, a partire dalle relazioni che ci sono, ricombinando i saperi esistenti, dovunque si trovi il corpo, il desiderio e l’attenzione. Si tratta di politicizzare la vita, non di mobilitarsi.
Se la concezione classica ci fa pensare che la politica è guidata da una mappa precostituita (la sinistra contro la destra, il proletariato contro la borghesia) le comuni disegnano delle loro mappe e decidono con chi cooperare e con chi scontrarsi situazione per situazione, punto per punto secondo una logica della strategia e non una logica dialettica, ovvero partendo dall’amicizia (incremento della potenza nell’incontro) e non dell’inimicizia (unificazione per designazione di un nemico comune). Amici e nemici che non sono entità astratte o ideologiche, ma sono concreti e situati, con i quali abbiamo contatto, dei quali abbiamo esperienza, che aumentano oppure ostacolano la nostra potenza. Se la concezione classica ci fa pensare che organizzarsi equivale ad affiliarsi o partecipare in una struttura unica, con un comando centralizzato, linee dall’alto al basso, cinghie di trasmissione, formalismi omogenei, le comuni piuttosto si compongono, si connettono, comunicano, si incrociano cooperano e collidono senza articolarsi in una fantasmatica unità, altrettanto plurali come lo sono le forme di vita sulla terra.
Il problema dell’organizzazione è quindi il problema di pensare come circola l’eterogeneo, non come si struttura l’omogeneo. La sfida di inventare forme e dispositivi di traduzione, momenti e spazi di incontro, legami trasversali, intercambiabili, occasioni di cooperazione eccetera.
L’universale non si costruisce mettendo fra parentesi il particolare (situato, singolare), ma per approfondimento, per intensificazione del particolare. In ogni situazione c’è il mondo intero, se ci diamo il tempo per trovarlo. Sarebbe difficile per esempio pensare a una esperienza dotata di maggiore capacità di interpolazione e al tempo stesso iscritta tanto profondamente nel suo territorio come lo zapatismo. Come dice il poeta Miguel Torga, “lo universal es lo local sin los muros”.
L’organizzazione più importante, finalmente, è la vita quotidiana stesa in quando rete di relazioni suscettibile di attivarsi politicamente qui o là. Quanto più densa è la rete, quanto maggior qualità hanno le relazioni, maggiore è la potenza politica di una società.
6. Elogio del tatto
Anche le rivoluzioni si sono pensate a partire del paradigma di governo: un soggetto contrapposto al mondo (l’avanguardia) che lo spinge nella buona direzione; il pensiero come scienza e sapere con le maiuscole: l’azione come applicazione di questo sapere; la realtà come materia informe da modellare; il processo rivoluzionario come sottile aggiustamento del rapporto tra mezzi e fini.
Forzare le cose dall’esterno: le rivoluzioni che si fanno da questo punto di vista finiscono in un disastro e bruciano i rivoluzionari nel volontarismo. Essere militanti, nel paradigma di governo implica lo star sempre incazzati con quello che accade perché non è quello che dovrebbe accadere; sempre rimproverando gli altri perché non si interessano di ciò di cui dovrebbero; sempre frustrati perché nell’esistente manca questo e quello: sempre angosciati perché la realtà sta permanentemente nella direzione sbagliata e occorre dirigerla, indirizzarlo. In questo modo non si impara nulla dalla situazione, non si confida nelle forze stesse del mondo.
Ci sarebbe un altro percorso. Imparare ad abitare pienamente, invece che governare, un processo di mutamento. Lasciarsi trasformare dalla realtà, per poterla trasformare alla volta. Darsi tempo per imparare i possibili che si aprono in questo o quel momento. In questo senso il CI afferma che “il tatto è la virtù rivoluzionaria cardinale”. Se la rivoluzione è l’incremento dei potenziali iscritti nelle situazione, il contatto è insieme quel che ci permette di sentire da dove sta circolando la potenza e il modo di accompagnarla senza forzarla, con attenzione. Di questa sensibilità abbiamo bisogno più che di mille corsi di formazione politica.
“L’intelligenza strategica nasce dal cuore… incomprensione, negligenza e impazienza: il nemico sta qui.”
(Fonte urgeurge)