La ripresa non arriva, né in Italia, né in Europa. I dati ormai sono inconfutabili. Nonostante ogni anno, dall’inizio della crisi, venga previsto da tutti i principali istituti internazionali un segno positivo nella variazione del PIL dell’anno successivo, i dati definitivi poi smentiscono sempre tali previsioni e la ripresa non arriva mai.
In Italia, l’impatto recessivo e, soprattutto, depressivo delle politiche di austerità – di taglio lineare della spesa pubblica e di aumento generalizzato e iniquo della pressione fiscale – perseguite dal Governo Monti è ormai registrato in tutte le analisi e calcolato in tutte le ultime previsioni macroeconomiche (OCSE, 29 maggio 2013: -1,8% di PIL per il 2013), con conseguenze negative certificate anche sui conti pubblici. La crisi nel nostro Paese conta, peraltro, l’intensità maggiore di tutte le altre principali economie industrializzate, sia in termini di flessione del PIL e del contributo della domanda interna alla crescita, sia in ordine all’aumento della disoccupazione, soprattutto giovanile. Prendendo come riferimento i dati ISTAT sui Conti nazionali e su Le prospettive per l’economia italiana 2013-2014 (6 maggio 4 2013) , si possono ricostruire le dinamiche dei principali aggregati economici. Sebbene il sistema-paese, prima della crisi sovranazionale, fosse già caratterizzato da un declino economico – dettato da “vuoti” della domanda aggregata, legati anche a fattori di debolezza strutturale dell’offerta – il tasso medio annuo di variazione del PIL negli anni 2000-2007 si attestava sul +1,6%, con una crescita media annua del numero di unità di lavoro a tempo pieno dell’1,1% e un incremento dello 0,4% oltre l’inflazione, anche delle retribuzioni medie annue lorde (pressoché trasferito sulle retribuzioni nette, senza ulteriori incrementi dettati dal sostegno del sistema fiscale). La produttività reale cresce di mezzo punto percentuale l’anno. Gli investimenti fissi crescevano mediamente del 2,5% ogni anno. Dal 2008 il PIL perde mediamente 1,1 punti percentuali ogni anno, mentre al 2013 i posti di lavoro sono diminuiti di oltre 1 milione e mezzo rispetto al 2007. I salari lordi perdono lo 0,1% ogni anno (quelli netti lo 0,4%). La produttività è mediamente negativa (-0,2%). Gli investimenti diminuiscono mediamente 3,6 punti l’anno. Svolgendo dei semplici calcoli, è possibile simulare alcune ipotesi di ripresa, nell’ambito delle attuali tendenze, senza prevedere modifiche significative della politica economica, nazionale ed europea. Per capire quanto tempo ci vuole ancora per parlare di ripresa e recuperare il livello pre-crisi, se venissero prese come riferimento le suddette previsioni macroeconomiche ISTAT – e, dunque, senza elaborare alcun modello econometrico originale – a prescindere dalla congiuntura internazionale, si può immaginare:
- di proiettare l’eventuale ripresa calcolata dall’ISTAT, ovvero, moltiplicare il tasso previsto per il 2014 (es. PIL +0,7%), in modo costante nel tempo, per tutte le variabili illustrate (in termini reali), fino a raggiungere il livello del 2007. RISULTATO: il livello del PIL pre-crisi verrebbe recuperato nel 2026 (in 13 anni dal 2013), quello dell’occupazione nel 2076 (in 63 anni dal 2013); il livello dei salari reali mai (in confronto con l’inflazione effettiva, cioè il deflatore dei consumi, la variazione è negativa nel 2014); il livello di produttività verrebbe recuperato nel 2017 (in 4 anni dal 2013); il livello degli investimenti nel 2024 (11 anni dopo il 2013).
- di proiettare l’eventuale ripresa contando come tasso di variazione percentuale da moltiplicare in modo costante nel tempo, in un’ipotesi molto ottimistica, già dal 2015, quello degli anni 2000-2007 (es. PIL +1,6%). RISULTATO: il livello del PIL, dell’occupazione e dei salari verrebbe ripristinato nel 2020 (7 anni dopo il 2013); mentre quello della produttività nel 2017, come sopra, e il livello degli investimenti nel 2024 (12 anni dopo il 2013).
Da queste simulazioni emerge con chiarezza che, anche nella migliore delle ipotesi in campo, per uscire dalla crisi occorre ancora molto tempo. In realtà, poi, la ripresa resta incerta anche a livello globale, perché il rischio di nuovi “crolli” del PIL e dell’occupazione esiste ancora, è diffuso, ed è determinato dal fatto che i valori nominali delle borse sono generalmente tornati al livello 2007 mentre nessun paese ha ancora recuperato il livello di crescita e il numero di occupati pre-crisi. Qualsiasi ipotesi di ripresa, perciò, anche la più ottimistica, che insista sull’aumento della competitività e della crescita per recuperare così anche l’occupazione perduta, richiederebbe comunque tempi molto lunghi e ancora diversi anni di sofferenza sociale. Va, inoltre, considerata anche la perdita cumulata che ha generato la crisi, cioè il livello potenziale di crescita e di occupazione che si sarebbe registrato nel caso in cui la crisi non ci fosse mai stata:
- Per ottenere tale livello potenziale è sufficiente proiettare negli anni della crisi (2008-2014) il tasso di variazione degli anni precedenti (2000-2007) e calcolare la differenza con il livello 2014 attuale, per simulare nuovamente (con il tasso potenziale degli anni pre-crisi) il ritmo di ripresa necessario a recuperare la perdita cumulata. RISULTATO: la perdita cumulata di PIL è 276 miliardi di euro (in termini nominali oltre 385 miliardi, circa il 20% del PIL, con evidente impatto anche sulla sostenibilità del debito pubblico, misurato appunto in rapporto al PIL). Per recuperare quel livello potenziale del PIL occorrerebbero, anche qui, nella migliore delle ipotesi, 13 anni dal 2013, cioè si arriverebbe al 2026. Per recuperare i livelli occupazionali e salariali potenziali bisognerebbe aspettare il 2027; mentre per produttività e investimenti, rispettivamente il 2025 e il 2032.
Per uscire dalla crisi e recuperare la crescita potenziale occorre un cambio di paradigma. In altre parole, per non attendere che sia un’altra generazione ad assistere all’eventuale uscita da questa crisi e ritrovare nel breve periodo la via della ripresa e della crescita occupazionale occorre proprio partire dalla creazione di lavoro. La creazione di lavoro crea crescita, che a sua volta crea nuovo lavoro. Non il contrario, come nelle ipotesi di aumento della competitività sui costi di produzione e, in particolare, sul lavoro e sui diritti, per aumentare le esportazioni e i profitti, sperando in una successiva ricaduta positiva sulla crescita. Il Piano del Lavoro proposto dalla CGIL si fonda sull’idea di rispondere alla crisi globale e al declino dell’economia italiana attraverso un forte sostegno alla domanda, che avvenga proprio con un piano straordinario di creazione diretta di nuova occupazione, nuovi investimenti pubblici e privati, verso l’innovazione e i beni comuni. A ciò si affianca un’importante riforma delle entrate e della finanza pubblica per liberare le risorse utili e per una restituzione fiscale a vantaggio dei redditi “fissi” (salari e pensioni) e degli investimenti. In quest’ottica si ricompone la crescita verso la domanda interna, investendo nello sviluppo e in quei settori non esposti alla concorrenza internazionale e non direttamente ascrivibili al mercato. Per questa via è possibile recuperare nel medio periodo anche il potenziale di crescita e di sviluppo del Paese precedente alla crisi.
In cifre, utilizzando il modello econometrico (originale) elaborato dal CER per stimare l’impatto del Piano del Lavoro, si possono prevedere i possibili tempi della ripresa derivante dall’attivazione delle misure indicate nel piano, nel breve e nel medio periodo, partendo dallo scenario attuale (2013). RISULTATO: in 3 anni, al 2016, potrebbe essere possibile recuperare il livello occupazionale pre-crisi (2007) e in 4 anni, al 2017, il livello del PIL, della produttività e degli investimenti. Il livello della retribuzione di fatto media annua lorda potrebbe essere recuperato addirittura nel 2014. Anche il recupero della perdita cumulata e del livello potenziale (al netto della crisi) sarebbe molto più rapido delle ipotesi precedenti, dato anche il maggior livello di crescita potenziale che si conterebbe nella variazione media annua 2014-2020 del PIL (+2,7%), dell’occupazione (+1,9%), degli investimenti (+5,0%) e di salari e produttività, che crescerebbero di uno 0,8% annuo oltre il livello dei prezzi. Tutte dinamiche più sostenute di quelle pre-crisi (2000-2007).
*Studio Cgil