L’Italia risulta essere il più grande mercato del gioco d’azzardo legale in Europa con un fatturato di 90 miliardi di euro registrato nel 2012. Il settore, previsto in ulteriore crescita nei prossimi anni, coinvolge solo in Italia 15 milioni di persone. Tuttavia, degli 8 miliardi che lo Stato ricava dall’attività, 6 sono destinati a curare le dipendenze da gioco. Si calcolano infatti circa 800 000 malati e 3 milioni di giocatori a rischio. Oltre al problema della dipendenza, la diffusione su larga scala delle sale slot ha registrato un impatto negativo sulle realtà locali: degrado e problemi di ordine pubblico, problemi sociali e affettivi per le famiglie rovinate dal gioco e aumento della criminalità organizzata che guadagna con il gioco d’azzardo più che con gli altri traffici illeciti. 450mila le macchinette piazzate, 390mila sono le slot, 120mila il personale impiegato con 5 mila aziende. Numeri che hanno trasformato l’Italia in una grande bisca. Nella periferia romana le sale da gioco hanno preso il posto delle fabbriche: aperte 24 ore al giorno, offrono anche la pasta per non fare andar via il cliente, per incollarlo davanti alla slot.
Qui anche i nomi nascondono un bluff. Si chiamano Manhattan, Dubai, Cleopatra, Las Vegas. Evocano scenari esotici, magari momenti onirici, luoghi lontani visti o agognati attraverso la tv, il cinema, i rotocalchi. Soldi. Soldi accessibili, facili, a portata di monetina. Eppure siamo nella periferia di Roma, lungo la Tiburtina, a cavallo del Raccordo Anulare, a due passi dal carcere di Rebibbia, dove sono rinchiusi boss della mala, e non: siamo nel nuovo regno del gioco d’azzardo, con centinaia di slot schierate per attirare giocatori accaniti, o semplici curiosi. “E per ventiquattro ore al giorno”, specificano orgogliosi all’entrata. Nessuna sosta quindi, l’obiettivo è offrire un microcosmo ovattato del quale sia impossibile fare a meno: offrono la pasta due volte al giorno, divanetti per riposarsi. Una sobria moquette assorbe il rumore dei passi, chi è dentro deve ascoltare solo il fruscio dei soldi, il tintinnio dei due euro e deve avere il cervello sgombro per assimilare bene la musichetta leggera in sottofondo. Quelle poche note sono il chiodo che entra nel cervello, che scava e incide, che ti ricorda dove devi tornare. Sì, proprio lì, sullo sgabello davanti alla macchinetta.
Dieci euro? Troppo pochi. Venti? Forse non è chiara la realtà. Dai cinquanta in su si ragiona. Una coppia sui quaranta, sguardo fisso e sigaretta quasi terminata, hanno per loro un rotolo di banconote da dividersi. Sono in mano a lei. L’uomo non ha neanche bisogno di chiedere: nel momento di necessità allunga le dita, lei provvede. Dall’altra parte c’è una signora bruna, età indefinibile: potrebbe averne sessanta ben portati o quarantacinque tragici. Accanto a lei il figlio, si scambiano consigli, si passano il pacchetto di Camel blu, neanche chiedono “come va”, non sbirciano sulla slot altrui, “perché porta iella”, spiega scocciata la donna.
Poco lontano la roulette, “governata” da una voce elettronica con un lontano e assurdo accento russo. Chi si siede, se è un novizio, viene immediatamente braccato da uno stipendiato del locale, giacca nera improbabile e ampio nodo alla cravatta, presente per offrire tutte le spiegazioni del caso. “Se necessario”, ci mancherebbe. Oltre un vetro un energumeno controlla lo svolgimento dei “riti”: se la cassiera tacco 12 sorride, se lo sguattero raccoglie le cicche. Se il suo braccio destro svuota la macchina cambia soldi. Non sorride. Non parla. Non indica. Controlla. Attaccata alla parete la targhetta che ricorda l’unica presenza dello Stato dentro queste cattedrali del vizio: “Il gioco può causare dipendenza”. Fuori poche macchine, è l’una di notte, il momento clou del dopo cena sta scemando, all’entrata aspettano l’infornata della notte. Parcheggiatori semi-abusivi invitano a fermarsi, prostitute già stanche non insistono troppo: il sesso è l’ultimo pensiero di chi viene qui, lontano dall’altra Roma. Dalla Capitale da esportare in cartolina, da vendere su guide e suggestioni legate solo al passato. I panni sporchi vanno tenuti lontani dalla coscienza. “Eppure qui ’na vorta se lavorava; qui se veniva per portà la pagnotta a casa”, racconta un barista. Vero.
Las Vegas de noantri. Erano fabbriche, fabbrichette, grandi laboratori artigianali. Capannoni, strutture e nient’altro, con qualche palazzo da cornice, magari abitato dagli operai stessi. Una occupazione territoriale partita negli anni Sessanta, cresciuta nei Settanta, tra insegne per laterizi, materiale da edilizia, tornitori. Il Partito comunista era una religione, la croce su “falce e martello” una dovuta certezza, a pochi chilometri il Portonaccio scritto e raccontato da Pier Paolo Pasolini. Poi la volta dell’hi-tec, l’Alenia, la Technicolor, fino alla crisi e ai successivi lucchetti. Non dell’amore, della disperazione, tra un abbandono prima, lo sfacelo poi.
Così la rinascita a colpi di neon, un casinò dietro l’altro “e non è ancora finita” prosegue il barista “sento in continuazione de gente che sta a comprà artri capannoni pe aprinne degli altri”. Eppure gli ultimi dati parlano di bulimia di gestori e concessionari che hanno preteso troppo e piazzato la bellezza di 450 mila macchinette, 390 mila slot machine e 60 mila videolotterie. Tradotto: una ogni 100 italiani. “Sì, sì, ma questi fanno sempre li sordi e portano la bella gggente”. Vuol dire attori presunti, come presunti cabarettisti e improvvisati presentatori prestati a svolgere il ruolo di amplificatori di bellezza e di successo. Il giorno dell’inaugurazione di una di queste strutture abbaglianti, si sono presentati (con gettone di presenza, sia ben chiaro) tutti lustrati, entusiasti, platealmente emozionati, come se stare lì fosse meglio di una serata al casinò di Montecarlo. Via con le interviste, ecco la giusta passerella, il rombo di alcune Ferrari, rigorasamente rosse, opportunamente affittate. Sorrisi per tutti. Autografi. Fotografie e secondi di celebrità.
Scusi, da quanto tempo sta giocando? Silenzio. Il trentacinquenne con le infradito, oramai simbiotico con la poltroncina, ci pensa su. Poi infastidito liquida la domanda con un: “Non lo so, e non sono neanche affari tua”. Legittimo, per carità. Magari però non sa di poter far parte di quei tre milioni di italiani che secondo uno studio Ipsad (Italian population survey on alcohol and other drugs) dell’Istituto di Fisiologia Clinica del Cnr di Pisa sono a rischio “ludopatia”. L’identikit descritto nelle pagine è: maschio, disoccupato, con un basso livello di istruzione. Incline alla solitudine. Di questi tre milioni, due sono a basso rischio, i restanti sono classificati come “patologici”. Sono quelli che si giocano l’impossibile, appettibili per gli strozzini. Quelli che non provano nessun gusto nella vittoria, perché la vittoria alla lunga non esiste.
“Cosa vuole dalle persone?” ci chiede uno degli addetti, immediatamente spedito in missione dal capo branco dietro al vetro. “Niente, chiediamo come funziona qui”. “A questo ci pensiamo noi, eviti di disturbare, altrimenti può accomodarsi fuori”. Mai distrarre l’incallito, ogni secondo di riflessione o di “altro”, rompe la bolla, altera l’equilibrio, interrompe il circuito maniacale. Qui, nella Las Vegas de noantri, è meglio non alzare lo sguardo, perché il bluff potrebbe rivelarsi amaro.
(Fonte Il Fatto Quotidiano del 22/07/2013)