Per Mediaset ci vorrebbe un governo tecnico. Il partito-azienda ha generato un’azienda-partito che per anni ha beneficiato di un azionista premier, di leggi su misura e di un concorrente, la Rai, tenuto in ostaggio. Dopo lo sfratto del Cavaliere dagli studios di palazzo Chigi, l’elettore-spettotore-azionista ha tagliato la corda. Il 2011 è stato l’anno più triste per la triade dei canali generalisti targati Fininvest. Canale 5, Retequattro e Italia Uno hanno chiuso con uno share giornaliero del 32,1 per cento contro il 35,2 del 2010 e il 44 per cento del 2003, quando l’ammiraglia Canale 5 valeva da sola più del 30. Il primo trimestre 2012 è in ulteriore ribasso, con un 30,62 per cento complessivo per le tre reti principali del gruppo Fininvest.
Certo, la tv generalista sconta l’arrivo del digitale. Ma anche includendo gli spettatori del Dtt, i conti non tornano. La crisi è di sistema e Mediaset non fa più eccezione. Nel 2012 l’insieme dei canali generalisti di Mediaset, Rai e La7 è sceso per la prima volta sotto la soglia del 70 percento (69,81 per cento). Sembra un secolo quando la tv tradizionale corrispondeva al 91 per cento dell’Auditel. Invece era nove anni fa. Ci sono voluti sei anni per scendere sotto il muro dell’80 per cento e poco più di due per andare sotto il 70. L’emorragia cresce in progressione geometrica.
Ogni prospettiva di rilancio passa dallo scrigno di Mediaset, ossia dagli spot di Publitalia, la macchina da guerra creata nel 1980 sotto la guida di Marcello Dell’Utri e oggi in mano a Giuliano Adreani, amministratore delegato anche di Mediaset. Dallo scorso novembre, quando Berlusconi si è dimesso dalla guida del governo, le tre reti generaliste hanno perso circa il 10 per cento della raccolta. Nel 2011 Mediaset ha segnato a consuntivo 2,66 miliardi di ricavi pubblicitari lordi (quasi due terzi del mercato pubblicitario tv) e 2,4 miliardi al netto degli sconti di agenzia. Gli incassi sono scesi di 130 milioni di euro rispetto al 2010 con una flessione del 4,5 per cento sui ricavi lordi e del 5,1 per cento sui ricavi netti. Sono entrambe perdite superiori a quelle del mercato nazionale che, tolta Mediaset, è in calo del 4,2 per cento nel 2011. La fatica di portare a casa questo risultato è ancora più evidente se si considera che Mediaset, secondo stime della Nielsen, ha aumentato del 26 per cento l’offerta di spot sulle sue reti dal 2010 al 2011.
Il grosso degli spot venduti al Biscione finisce sui canali generalisti. L’insieme dei canali dtt e della Mediaset Premium non raggiunge i 200 milioni di ricavi pubblicitari sui 2,66 miliardi complessivi. In altre parole, per ogni punto di audience che Mediaset perde sulle tre reti principali vanno in fumo circa 76 milioni di euro di spot. Nei primi tre mesi del 2012, con il calo dello share totale di Canale 5, Rete quattro e Italia Uno dell’1,5 percento, i minori ricavi pubblicitari dovrebbero aggirarsi intorno ai 110 milioni. Non bene, soprattutto per gli analisti di Borsa che con i loro report mettono sotto pressione il management del Biscione.
Esperti, vip del settore e illustri ex concordano sul fatto che il punto debole di Mediaset è la programmazione. La linfa creativa sembra esaurita. Tolti i successi recenti di “Italia’s got talent” e di Giorgio Panariello, il prime time e il preserale dei canali berlusconiani sono un misto di flop (“Sta- sera che sera”, “Baila!”, “Muzik show”), attempati ma pur validi fuoriclasse (“Zelig”, “Scherzi a parte”, “Le iene”, “Striscia la notizia”) e pugili suonati come il “Grande fratello”. Proprio martedì 3 è stata rivista anche la logica dell’investimento fatto da Mediaset in Endemol con la decisione di uscire del tutto dalla società di produzione oggetto di una ristrutturazione da oltre 2 miliardi.
Altre difficoltà arrivano dal settore all news di TgCom24, e da Mediaset Premium. La piattaforma pay diffusa su digitale terrestre ha superato il mezzo miliardo di euro di fatturato ma ha un risultato operativo 2011 in rosso per quasi 70 milioni di euro dopo un 2010 in sostanziale pareggio. Anche qui i costi sono condizionati dal rialzo continuo dei diritti per le partite di calcio. I 2 milioni di abbonati del network non bastano a fare quadrare i conti.
Un arricchimento dei contenuti è in programma, ma comporterà un aggravio dei costi. Non c’è altra strada per conquistare quella che il marketing orrendamente definisce “fascia aspirazionale”, gli esigentissimi paganti che vogliono vedere la finale di Champions League in alta definizione sull’iPad alla fermata dei taxi o nella lounge di un aeroporto. Il futuro di un mercato cresciuto fino a 8,7 miliardi di euro dipende da loro, dall’Hd, dalla banda larga, dal Web e sempre meno dalla tv gratis, che nel 2003 valeva oltre quattro quinti del mercato e oggi meno di due terzi (62,9 per cento). Se i ricavi della televisione sono in crescita il merito è di clienti molto diversi dallo zoccolo duro della platea berlusconiana, invecchiato, impoverito e annoiato dalla miliardesima replica di “Walker Texas Ranger”. Chuck Norris e Silvio, due eroi di altri tempi.
(Articolo integrale L’Espresso n.15)