Si chiama Key crime (chiave del reato) il software sviluppato da due poliziotti dell’Ufficio prevenzione generale e soccorso pubblico della questura di Milano. Un programma che permette di raccogliere i dati degli episodi criminosi, di confrontarli tra loro per ricercare analogie e individuare il colpevole.
È la nuova frontiera nella lotta alla criminalità, la cosiddetta predictive policing. Negli Stati Uniti l’Fbi analizza con interesse esperimenti analoghi adottati da alcune polizie locali, come quella di Santa Cruz, in California. Dove l’analisi al computer dei reati commessi permette di inviare le pattuglie nelle strade e negli orari più a rischio. Oltreoceano l’impiego dell’informatica per contrastare il crimine risale al 1995, quando a New York il sindaco Rudolph Giuliani fece adottare dal New York police department il Compstat, un programma che studiava le statistiche dei reati per organizzare la risposta delle forze dell’ordine. Oggi alcune università americane collaborano con vari dipartimenti di polizia per creare algoritmi che supportino il lavoro degli agenti nella loro attività, riassunta nel motto to protect and to serve, a cui in futuro sarà aggiunto, forse, to predict. Ma la polizia italiana, almeno su questo fronte, è avanti di anni. Perché, invece di analizzare solo i dati storici (i reati), si concentra sull’autore. Che, se si tratta di un rapinatore seriale, certamente ripeterà le sue azioni. Una volta individuato il rapinatore, anche senza conoscerne i dati anagrafici, il Key crime studia i suoi comportamenti e prevede le sue azioni.
Gli uomini della questura di Milano hanno da tempo messo a punto un esclusivo protocollo dove, per ogni rapina, vengono inseriti circa 20 mila dati. Questa nuova tecnologia permette di raccogliere i dati degli episodi criminosi, di confrontarli tra loro per ricercare analogie e individuare il colpevole. I dati utili all’analisi sono non solo la connotazione geografica, le testimonianze a caldo della vittima e dei testimoni, i filmati, le foto, la descrizione fisica e l’abbigliamento di chi compie il reato, le vie di fuga dopo il colpo persino il suo odore. Ma anche le risposte che le vittime e i testimoni meno coinvolti nel fatto danno agli investigatori a distanza di 12-24 ore dall’accaduto. Tutti i particolari, anche quelli apparentemente senza importanza come l’odore del rapinatore, possono risultare molto utili per la ricostruzione di serialità criminali. A ogni informazione (esempio il colore rosso di un’automobile) è attribuito un codice. Basti pensare che da soli 3 secondi di filmato di una telecamera di sorveglianza possono essere ricavati 60 indizi. Le analogie, riscontrate dal sistema, assegnano un codice alfanumerico al reato. Per le investigazioni questo è come una traccia di Dna. In pratica è la firma che il rapinatore lascia durante il colpo. Non è fantascienza o preveggenza, ma è un’elaborazione che riesce a dare interessanti indicazioni sui crimini seriali e, in alcuni casi, a prevederli.
Nel 2007, quando è iniziata la sperimentazione del Key crime, la questura di Milano risolveva circa il 27% dei casi di rapina. L’anno seguente, grazie anche al software, i successi passarono al 45% e nel 2009 hanno toccato il 56%. E l’aumento è stato impressionante perché, a ogni rapinatore seriale che viene arrestato, viene interrotta la sua capacità di delinquere. Non solo, grazie al Key crime il colpevole sconterà la pena per tutti i reati che ha commesso. Infatti, ogni volta che viene arrestato un rapinatore grazie al computer diventa possibile attribuirgli anche altri colpi rimasti a carico di ignoti (l’ultimo caso è di qualche giorno fa).
Chi ha potuto apprezzare da vicino i risultati del Key crime è il vicecapo della polizia, Alessandro Marangoni, che dal 2010 al 2012 è stato questore di Milano. Può darsi che con uno sponsor di così alto rango la polizia riesca a vincere la ritrosia verso le nuove tecnologie, tanto più quando sono autoprodotte e a costo zero. Un auspicio anche per Felice Romano, segretario generale del Siulp, il maggiore sindacato di polizia. “Programmi come il Key crime” sottolinea Romano “integrano la tecnologia con il lavoro dell’agente e sono una risorsa efficace, che va sviluppata, vista la scarsità di risorse a disposizione e i 13 mila operatori di polizia in meno rispetto all’organico previsto”.
Il problema è che il sistema ultramoderno è rimasto confinato a Milano. Il software sarebbe decisamente utile anche in territori caldi del Mezzogiorno devastati dalla criminalità. Ma siamo in Italia un Paese alla rovescia.