Nel 2008, quando è iniziata la crisi economica, l’impatto immediato sul lavoro maschile è stato più marcato rispetto a quello sul lavoro femminile. Le donne, quindi, non sono state le prime vittime della crisi, ma a partire dal 2009 gli effetti negativi si sono aggravati. Nonostante le donne abbiano studiato di più, lavorano e sono pagate di meno. E sacrificano più spesso la loro carriera per occuparsi dei figli. Infatti guadagnano in media 8000 euro in meno all’anno rispetto agli uomini. Sembra che le donne abbiano ancora molto lavoro per arrivare in testa alla scala sociale. E la crisi economica ha peggiorato la situazione, aggravando le violenze perpetrate nei confronti delle donne (molestie, violenza al lavoro e violenze coniugali).
Le donne europee sono colpite da una crisi silenziosa. Gli effetti della crisi si sono fatti sentire più lentamente e meno violentemente rispetto agli uomini, ma sono comunque presenti. Ancora più tenace è l’idea secondo la quale la disoccupazione degli uomini è meno grave di quella delle donne. Le donne che lavorano nel settore pubblico, dove rappresentano in media quasi il 70% dei dipendenti, sono le principali vittime dei tagli di bilancio decisi dai governi degli Stati membri. La riduzione dei dipendenti pubblici ha raggiunto il 25% in alcuni Stati membri. Inoltre, le retribuzioni nel settore pubblico sono state ridotte o congelate e i contratti a tempo determinato spesso non sono stati rinnovati. Un altro effetto negativo è che le misure di riduzione degli assegni familiari, del congedo di maternità e degli assegni per le famiglie monoparentali hanno aumentato il rischio di povertà delle donne, rendendole maggiormente dipendenti da altri membri della famiglia. Per le donne che conservano il posto di lavoro, il lavoro è molto spesso sottoqualificato rispetto alla formazione ricevuta e al livello del titolo di studio ottenuto, pertanto per il mantenimento del posto di lavoro si paga il prezzo di un rischio di dequalificazione. Inoltre, i posti di lavoro proposti sono più spesso contratti a tempo determinato o a tempo parziale che contratti a tempo indeterminato. Per quelle che conservano il posto di lavoro si pone la questione di conciliare vita professionale e vita privata, in quanto esse devono cumulare il lavoro con le attività domestiche (che garantiscono in modo prevalente), oltre spesso al sostegno per persone a carico (figli, genitori, persone malate o persone affette da handicap). Le diverse riduzioni delle prestazioni sociali e le riduzioni dei fondi per le infrastrutture sociali, l’istruzione, la custodia dei bambini, la sanità e la cura delle persone dipendenti comportano il trasferimento di tale responsabilità alle famiglie, nella maggior parte dei casi alle donne, spingendole a lasciare il posto di lavoro o a ridurre l’attività lavorativa remunerata per prestare i servizi che non vengono più forniti dallo Stato o che non si possono più permettere. Le prospettive lavorative per gli anni a venire mostrano che il 15% dei posti di lavoro con qualifiche non particolarmente elevate è destinato a scomparire, mentre il 15% dei nuovi posti di lavoro richiederà qualifiche elevate. È quindi indispensabile ripensare tutte le politiche di formazione tenendo conto del ruolo specifico e fondamentale delle donne.
Valorizzare le donne conviene. All’affermazione di principio per cui bisogna favorire la partecipazione femminile al mercato del lavoro per rispondere a principi di pari opportunità e di eguaglianza tra i generi, si aggiunge un’argomentazione ulteriore, decisiva, che potrebbe far convertire anche gli uomini alla causa della valorizzazione femminile: il lavoro delle donne fa crescere l’economia.