Mai come in questa fase storica i costi delle mancate riforme in Italia si fanno sentire, ma si continua a parlare di riforme per poi fare poco o nulla. Esiste però un insieme di cittadini pronti a sostenere un programma di cambiamento, opposti alla difesa di rendite non più sostenibili, che andrebbe mobilitato a sostegno delle riforme da realizzare. Riforme illustrate e spiegate nel libro “Non ci resta che crescere. Riforme: chi vince, chi perde, come farle” (Università Bocconi editore, 2011, 194 pagg. 16 euro), curato da Tommaso Nannicini e da una serie di esperti tra cui Pietro Ichino, Tito Boeri, Maurizio Ferrera, Carlo Scarpa, Dario Di Vico, Giorgio Vittadini e Chicco Testa. Tommaso Nannicini è docente di Econometria e Political economy all’Università Bocconi e ha svolto periodi di ricerca a Harvard, MIT e IMF. Qui un estratto dal libro.
È necessaria una classe politica con le carte in regola. Idee giuste e visione d’insieme, da sole, non bastano. Serve una risorsa che in politica è un bene prezioso: la credibilità. Una risorsa che l’attuale classe politica sembra aver esaurito. Come rendere credibili, allora, politici chiamati a far passare nel paese una terapia shock di selezione? Innanzitutto, mettendo ordine a casa propria. Perché, francamente, è difficile convincere il paese che servono più merito e concorrenza, mentre si è immersi nella difesa delle proprie rendite e posizioni di potere. Prima di abbozzare qualsiasi delle riforme discusse in questo libro, la classe politica dovrebbe (senza altri annunci): dimezzare il numero dei parlamentari; ridurre gli enti territoriali; introdurre controlli a tutti i livelli sulle spese per collaboratori, sedi di rappresentanza e affini; instituire una commissione indipendente che valuti costi e benefici di enti e istituzioni sotto il controllo della politica e degli interessi organizzati (per esempio, le camere di commercio sono davvero utili?); realizzare ulteriori privatizzazioni che, ancor prima che far cassa, riducano gli spazi di potere discrezionale dei politici nazionali e locali.
L’attuale classe politica è prigioniera di vecchi tic: il gioco distributivo della Prima Repubblica o le scorciatoie populiste della Seconda sono le uniche vie di ricerca del consenso che conosce. Ogni tanto infiocchetta i propri discorsi con parole come «concorrenza », «meritocrazia», «innovazione», ma non ne coglie appieno la portata per il semplice fatto che non ha mai sperimentato nessuna di queste dimensioni. Occorre riaprire, quindi, i canali dell’impegno politico e della selezione della classe dirigente. Un messaggio politico è convincente solo se le persone che lo propongono ne sono convinte, perché, nel nostro caso, hanno vissuto sulla propria pelle i costi del mancato dinamismo.
La Lega Nord ci è in parte riuscita nel suo campo: se si guardano i dati sulla provenienza professionale degli amministratori locali in Italia, si vede che l’avvento della Lega nel sistema politico ha creato una rottura evidente, portando nelle istituzioni categorie e professioni prima quasi assenti (piccoli imprenditori, professionisti). Anche questa forma di reclutamento sta dietro alla capacità della Lega di parlare con il popolo delle partite IVA. Chi si proporrà di far passare nel paese l’opera di selezione abbozzata in questo libro dovrà fare qualcosa di simile: aprendo le porte dell’impegno politico agli italiani che hanno voglia di crescere, a giovani, donne e apolidi dei flussi. Un modo per farlo è rendere più aperta e concorrenziale la selezione delle candidature che contano. I meccanismi istituzionali che influenzano la selezione politica, a cominciare dalla legge elettorale, devono essere rivisti. C’è bisogno di più competizione anche nella scelta dei politici. Sull’attuale legge elettorale, il famigerato Porcellum, è già stato detto tutto il male possibile, da chi non l’ha né proposta né approvata, ma l’ha comunque usata per difendere le oligarchie di partito, e finanche da chi l’ha partorita, proposta e approvata. Il proporzionale con liste bloccate rimette la scelta dei parlamentari nelle mani delle segreterie di partito e non consente agli elettori di «punire» quei parlamentari che si sono contraddistinti in negativo, se non votando per un altro partito. Con partiti chiusi e autoreferenziali, e in un quadro politico polarizzato, il Porcellum fornisce incentivi perversi nella selezione della classe politica. Purtroppo non esistono ricette magiche. Il ritorno al sistema maggioritario uninominale, in vigore al 75 per cento ai tempi del Mattarellum, non avrebbe poteri taumaturgici visto che, anche allora, nei collegi blindati si poteva far eleggere anche il cavallo di Caligola. Ma proprio questo ci suggerisce un’ultima «riforma» che potrebbe aumentare la competizione anche in politica. In uno studio scientifico con Vincenzo Galasso, abbiamo trovato che ai tempi del Matterellum i candidati migliori (più istruiti, con maggiori esperienze amministrative o successi professionali) erano eletti nei collegi contestabili, mentre i funzionari di partito tendevano a essere eletti nei collegi sicuri. Ecco quindi la proposta: tornare ai collegi uninominali (come propone un’iniziativa referendaria di cui c’è da augurarsi il successo) e, nello stesso tempo, incaricare una commissione indipendente di disegnare i nuovi collegi tenendo conto della composizione dell’elettorato, così da rendere il più competitivo possibile l’esito atteso dello scontro elettorale in ogni collegio. Il risultato sarebbe quello di disciplinare i partiti a scegliere candidati migliori e più appetibili per gli elettori mobili e portati al voto d’opinione (soprattutto giovani).
Lo so: al momento non c’è traccia di tutto questo. I meccanismi di selezione della classe politica sono bloccati. E le misure per ridurre l’invadenza della politica sono proposte in un mese e rinviate quello dopo. Torna alla mente la descrizione delle classi dirigenti di una democrazia in crisi fatta da Ignazio Silone, per bocca di Tommaso il Cinico, nel libro La scuola dei dittatori: «Una classe dirigente in declino vive di mezze misure, giorno per giorno, e rinvia sempre all’indomani l’esame delle questioni scottanti. Costretta a prendere decisioni, essa nomina commissioni e sottocommissioni, le quali terminano i loro lavori quando la situazione è già cambiata. Arrivare in ritardo significa chiudere la stalla quando i buoi sono già scappati. Significa anche illudersi di evitare le responsabilità, lavarsene le mani, per mostrarle bianche e pure agli storici futuri. Il colmo dell’arte di governo per i democratici dei paesi in crisi sembra consistere nell’incassare degli schiaffi per non ricevere dei calci, nel sopportare il minor male, nell’escogitare sempre nuovi compromessi per attenuare i contrasti e tentare di conciliare l’inconciliabile». Sembra, purtroppo, la cronaca degli ultimi anni. Ma questo circolo vizioso può essere spezzato. Ne esistono le condizioni, perché i costi economici e sociali dell’immobilismo stanno crescendo e si sta formando nel paese una constituency delle riforme. Abbiamo risorse umane e materiali che pochi paesi possono vantare, che aspettano una prospettiva credibile per rimettersi a rischiare e crescere. Manca solo un imprenditore politico (leader o partito) che accenda la miccia. Un Tony Blair italiano che trovi il coraggio di rischiare di prendere qualche calcio, pur di smettere di stare immobile e inebetito a ricevere ceffoni. L’esito potrebbe essere dirompente. Sì, nonostante le insidie del dolce declino, c’è da essere ottimisti sul futuro dell’Italia.