“In un Paese civile non ci sono malati. Ci sono solo pazienti”. E in un Paese civile non ci sono medicine. Ci sono solo prodotti farmaceutici. Prodotti inventati apposta per patologie altrettanto inventate, prodotti che vanno pubblicizzati, spinti, venduti, anche (e soprattutto) in maniera criminale. Antonio Morabito decide di raccontare con un film (in uscita oggi) parte di questa criminalità, costruendo una sceneggiatura incentrata sul reato di comparaggio. A beneficio di quelli che si staranno chiedendo “e che roba è?”, e anche per quelli che fanno finta di saperlo, il comparaggio è un accordo illecito tra industrie farmaceutiche e medici/farmacisti, che prevede la prescrizione di specifici prodotti farmaceutici in cambio di un compenso.
Un compenso che può essere rappresentato da un iPad (attrezzatura utile per la professione, eh! Badate bene!), da una cena a base di pesce e vini pregiati o da una settimana di soggiorno presso la “spiaggia dei dottori”. “Ricordatevi: qui nessuno è intoccabile. Buon lavoro”. O meglio, bon voyage!
Apro (e chiudo) una piccolissima parentesi. Rivelava Peter Rost, ex vicepresidente di marketing della Pfizer (che è quella del Viagra, tanto per citare un “prodotto farmaceutico” famoso) nel 2009: “Il settore farmaceutico è molto potente e se qualcuno prova a parlare apertamente di quello che succede in quel mondo viene letteralmente mandato via a calci. Ha un potere sulla politica molto simile a quello della mafia». Basterebbe pensare al fatto che l’industria farmaceutica è quella che, dal 1998 ad oggi, ha speso di più per influenzare la politica statunitense.
2.501.745.267: non è un numero di telefono internazionale. Sono i dollari spesi per attività di lobbying nei gloriosi Stati Uniti d’America. Le lobby, queste oscure materie. Non sono creature mitologiche, eh? Esistono per davvero, pure in Italia. E hanno in mano il mondo.
Date queste premesse, tanto assurde quanto reali, bisogna ammettere che è un vero e proprio atto di coraggio quello che Morabito fa. Dare un volto, nudo, crudo e credibile, a qualcosa che sembra essere trattato dai media come se fosse la compagnia dell’anello di Tolkien, bè ammettiamolo, fa paura. E non mi riferisco solo al volto di Claudio Santamaria, che domina la sceneggiatura calandosi nei panni sudici e sudati di un informatore scientifico, senza scrupoli o rimorsi. O di quello di Isabella Ferrari, capa stronza di turno. O di quello di Marco Travaglio (che uno si chiede, boh, che c’azzeccherà mai?) primario di oncologia incorruttibile, soltanto in apparenza. Perché i volti qui diventano parole; diventano inquadrature secche, essenziali; diventano ritmo serrato e claustrofobico.
Morabito si addentra nei corridoi degli ospedali, staziona nelle sale d’attese per sviscerare i segreti, le nomenclature – sapevate che i medici vengono classificati in base ai numeri dei pazienti? Ci sono Scrittori, Regine e Squali, per esempio, e poi c’è la regola dell’undici ma non ve la svelo – e il modus operandi di un’industria bellica. Perché i farmaci sanno fare la guerra e non risparmiano nessuno. Men che meno le cavie.
“La conosci la storia della doppia impossibilità?/No, qual è?/Due topi sono chiusi in gabbia con un pezzo di formaggio che nasconde una scarica elettrica. Se mangiano muoiono, se non mangiano muoiono lo stesso. È la doppia impossibilità./E come va a finire?/ Che i topi impazziscono e cercano di mangiarsi l’un l’altro”.
C’è da capire che il tizio in giacca e cravatta, con la valigetta in mano, quello che vi passa davanti mentre siete in fila dal vostro amato medico di famiglia, il topo fregato dalla storia della doppia impossibilità, è solo un capro espiatorio, il signor Malaussène del caso. Un burattino che Mangiafuoco può sostituire in qualsiasi momento e che, se vuole sopravvivere e guadagnare, deve fare il lavoro sporco. Per conto di altri. Per conto della compagnia dell’anello. Morabito, questo, lo sa e lo sottolinea magistralmente in ogni momento.
Perciò, se dopo aver visto questo film, ogni qualvolta ne incontrerete uno, vi verrà voglia di lanciargli addosso le riviste di gossip che la segretaria del vostro medico, cordialmente, vi ha piazzato in mano per ingannare il tempo, ripensateci. Fatevelo amico, piuttosto, e, se ci riuscite, fatevi raccontare qualche retroscena. La vostra salute ve ne sarà grata. In eterno.
Chissà se Mamma Rai, che ha anche, in parte, prodotto questo piccolo e audace film di denuncia, lo manderà mai in onda su RaiUno, magari al posto di Un medico in famiglia. Tzè. È più probabile che se lo tenga chiuso in un cassetto, pieno di polvere e ragnatele, insieme ad altri film/documentari che non le conviene mostrare al pubblico/popolo caprone. Popolo che Trilussa, più amabilmente, chiamava cojone.
(Fonte popoff.globalist)