Chissà, in vita sua, quante volte Madame Fischer avrà detto: “Urs, metti a posto. Questa stanza è inquadrabile!”. E chissà quante volte Urs avrà fatto finta di non sentirla. E, nel suo specifico caso, bene fece. Siamo con lui, col suo disordine, con la sua polvere, con l’accumulo apparentemente insensato di carta e oggetti, plastiline masticate e legnetti scheggiati. Lui, che generosamente ci fa entrare nel primordiale caos della sua mente, da cui nascono immagini, spunti, idee, opere filosofiche o solo buffe. “Madame Fisscher” si chiama (così con doppa esse, forse per non confonderla con la mamma) la puntuale ricostruzione del primo studio di un giovanissimo Urs Fischer a Londra, che ora occupa il sontuoso ingresso di Palazzo Grassi.
Quattro pareti di compensato e dentro il Fischer mondo: tavoli schiacciati da cianfrusaglie; pareti pullulanti di fogli, immagini, appunti, post-it; apparente ciarpame ovunque. Un detonatore che poi esplode, intorno a noi e nei piani superiori, coagulandosi in opere e situazioni sconcertanti.
Nessun percorso è suggerito. Si gira a caso, ognuno come vuole. Perché il caso è l’unica legge che governa il caos e guida il nostro. Eccolo Urs Fischer: l’anti Damien Hirst.
Disordine contro ordine. Bulimia della vita contro perfezione della morte. L’istinto creativo e procreativo vs. la formalizzazione razionale e l’eterno riposo. La trasformazione che risponde alla cristallizzazione. “L’idea di fare l’artista non mi è mai passata per la testa. Mi piace fare arte non essere artista”, è il massimo di risposta che concede persino a un compagno di strada come Francesco Bonami, critico e curatore a lui vicino da sempre. “Hai guardato molto alla Pop Art?”, gli chiede Bonami. E lui: “Mai stata un mio punto di riferimento. La trovo quasi sentimentale”. Per forza. Il mondo di Fischer non è quello dei consumi, ma quello del consumato. Un pacchetto di sigarette strizzato che rotola in una stanza, una nuvola ritagliata nel polistirolo, il mobile sfranto e ricostruito malamente col vinavil, il calco-gesso di una mano che accarezza una guancia rosa confetto. Un girotondo di immagini, frammenti di incubi, di sogni, di lapsus visivi. “La testa è tonda per permettere al pensiero di cambiare direzione”, diceva Francis Picabia che le foto ci tramandano immerso in uno studio altrettanto incasinato che quello di Urs. E che, per nostra fortuna, nessuno dei due ha messo a posto. Né lo studio né la testa, s’intende.
(Fonte l’Espresso)