“Non si può chiedere a un napoletano, classe ‘44, di mandar giù ogni santo giorno quella ciofeca che nemmeno si può chiamare caffè. Eppure Luciano Cimmino – il fondatore di Carpisa e Yamamay prestato alla politica – per un anno e mezzo l’ha trangugiato senza fiatare. Appoggiato al bancone della buvette di Montecitorio, osservava quel via vai di tazzine, turandosi il naso ogni volta che ne arrivava una a lui. Non che avesse molto altro da fare: tra quei corridoi del Parlamento si sentiva un po’ spaesato, lui che 6 volte su 10, quando c’era da votare, non era in Aula. E poi anche questo rito del presentare le leggi: perché mai farsene venire in mente una quando ci sono da firmare, bell’e pronte, quelle dei colleghi.
In due anni, il suo contributo ai lavori parlamentari è di: due interrogazioni, un ordine del giorno, qualche intervento in commissione (soprattutto sulle aperture festive dei negozi). Ma la noia fa brutti scherzi. E a Cimmino un giorno, lì dentro, è addirittura venuta un’idea. Perché non cambiare miscela in Parlamento? Così si è trovato un ambasciatore: Stefano Dambruoso, questore della Camera, eletto in quota Scelta Civica. Compagno di banco di Cimmino, lassù in quella fetta di emiciclo che un tempo sognava di portare alta in Parlamento la bandiera del fu governo Monti.
Così, il 18 settembre dell’anno scorso, il collegio dei questori di Montecitorio, su proposta di Dambruoso, “autorizza l’utilizzazione presso la buvette di una miscela di caffè offerta da un deputato”. La battaglia di Cimmino contro la brodaglia della buvette è indefessa. Prima fornitura gratuita, perché un imprenditore di razza come lui sa che il mercato si affronta così. D’altronde, si ragionò, perché non valutare l’offerta di un Cavaliere del Lavoro (lo ha insignito Napolitano nel 2012), uno che ha fondato marchi così di successo? L’ufficio di presidenza acconsente: proviamolo, sto caffè.
Alla buvette arriva la consegna: sono 5 o 6 chili, qualità diverse, arabica e robusta. I commessi non si stupiscono. Capita che qualche deputato non sappia rinunciare alla bevanda favorita (ai tempi di Marco Pannella non poteva mancare mai il digestivo prediletto del leader radicale: abruzzese, se non ricordano male). Così, alla vista del caffè di Cimmino, nessuno ha battuto ciglio. Per un paio di giorni ai deputati è stata servita la miscela d’eccezione. Cimmino osservava lo sguardo dei colleghi con la tazzina alla bocca, cercava di cogliere il guizzo di piacere negli occhi di chi sorseggiava per la prima volta quel gusto rotondo. Niente da fare. Al terzo giorno, la sentenza dei commessi è lapidaria: non ci piace. Dev’es sere lì, in quel pomeriggio di inverno, guardando oltre le vetrate del Transatlantico che Cimmino ha cominciato a maturare il proposito a cui è giunto l’altro ieri. Dimissioni. “Senza Mario Monti per me è venuto meno un punto di riferimento fondamentale”, spiega. Poi ammette: “Da imprenditore potrò misurare i miei risultati, in politica non sempre ci sono riuscito”. Addio Parlamento ingrato, che pessimo gusto”. Paola Zanca