Intervento di Viviane Reding Vicepresidente della Commissione europea e Commissaria per la giustizia, e per i diritti fondamentali e la cittadinanza, al Centro di diritto europeo dell’università di Passau.
“Se si vuole una politica di bilancio sana e duratura, occorre un Ministro delle finanze europeo responsabile del proprio operato dinanzi al Parlamento europeo e che disponga di chiari poteri per intervenire nei confronti degli Stati membri. L’arbitrarietà dei giudizi pubblicati dalle agenzie di rating non può certo rappresentare un’alternativa!”
“A Maastricht hanno voluto farci credere che era possibile introdurre un’unione monetaria stabile e una nuova valuta internazionale senza creare in parallelo gli Stati Uniti d’Europa. È stato un errore, e questo errore di Maastricht va corretto adesso se vogliamo continuare a vivere in un’Europa stabile ed economicamente prospera.”
“Al momento attuale vedo un pericolo soprattutto nel fatto che, sia il meccanismo europeo di stabilità, sia il patto di bilancio sono costruzioni improvvisate al di fuori dei trattati europei. È vero, di fronte alla crisi non c’erano alternative, bisognava agire subito. Sotto il profilo del parlamentarismo democratico questa però non può e non deve essere una soluzione duratura.”
“Quando decisioni del genere sono prese a livello europeo, va anche garantito un controllo democratico a livello europeo, da pari a pari. Sono pertanto a favore dell’integrazione a medio termine del patto di bilancio e anche del meccanismo europeo di stabilità nei trattati europei, in modo da sottoporre questi strumenti al controllo del Parlamento europeo.”
“Auspicherei che in futuro divenisse norma per un Commissario esser stato prima eletto al Parlamento europeo. Ciò contribuirebbe a rafforzare la legittimazione democratica del governo europeo.”
“Dopo matura riflessione ritengo l’idea degli Stati Uniti d’Europa la più condivisibile, ma anche quella che definisce in modo più appropriato la struttura definitiva cui l’Unione europea aspira.”
“L’Europa ha bisogno di un sistema bicamerale come quello degli Stati Uniti. Forse un giorno avremo addirittura bisogno di un Presidente della Commissione europea eletto direttamente.”
“Per me gli Stati Uniti d’Europa sono la visione giusta per superare la crisi attuale, ma anche e soprattutto per rimediare alle carenze del trattato di Maastricht. Perché in fin dei conti una cristiano-democratica europea come me non può certo farsi dettare la visione per il futuro dagli euroscettici britannici!”
Sono particolarmente lieta di trovarmi qui con voi oggi all’università di Passau.
Ora capisco perché a Bruxelles abbiamo così tanti giuristi o economisti che hanno studiato all’università di Passau e che lavorano con grande ambizione e slancio allo sviluppo ulteriore dell’Europa: qui a Passau, al crocevia di tre Stati, non si può fare a meno di essere europei! Per me che sono nata nel Lussemburgo è una cosa ovvia: nel mio paese, i confini sono una realtà quotidiana e, quindi, di riflesso anche l’Europa lo è. Non a caso l’accordo di Schengen sulla libera circolazione delle persone in Europa è stato firmato nel Lussemburgo nel 1985, a bordo di una nave ormeggiata sulla Mosella, proprio sul confine tra Lussemburgo, Francia e Germania. Per questo oggi, qui a Passau, nella bella “città dei tre fiumi”, mi sento un po’ come a casa mia.
Devo questo invito all’onorevole Manfred Weber, deputato al Parlamento europeo, con il quale collaboro strettamente a Bruxelles e a Strasburgo sui temi della giustizia e degli affari interni. Negli ultimi mesi ci siamo entrambi adoperati per potenziare la libertà di circolazione prevista dall’accordo di Schengen su tutto il territorio europeo. Il 48% dei cittadini europei ritiene che il diritto di circolare e soggiornare liberamente all’interno dell’UE sia il più importante dei diritti civili. Non dobbiamo quindi permettere che in periodi di crisi, dietro spinte populiste, si cerchi nuovamente di erigere delle barriere in Europa!
Vorrei inoltre ringraziare il Centro di diritto europeo dell’università di Passau, il CEP, per aver contribuito ad organizzare la manifestazione odierna. In quanto Commissaria per la giustizia dell’UE sono anche competente per la cittadinanza europea: per questo, sono particolarmente compiaciuta del fatto che, da oltre dieci anni, il CEP gestisca un cosiddetto “centro per i cittadini dell’Unione”. Qui nella regione i cittadini si rivolgono regolarmente a questo “sportello” per sottoporre problemi di natura transfrontaliera con i quali si scontrano ogni giorno. Ad esempio, un dentista di Passau può aprire uno studio sull’altra sponda dell’Inn? Una lavoratrice dipendente ungherese residente in Bassa Baviera ha diritto al sussidio di disoccupazione tedesco? Uno studente di Passau di nazionalità tedesca che vive sulla sponda austriaca del fiume può partecipare alle elezioni per il Parlamento europeo in Austria? Quando si pongono problemi di questo tipo, i cittadini possono chiedere una prima consulenza legale gratuita al CEP. Oltre a dare un contributo molto concreto all’Europa, questo centro promuove anche la buona reputazione dell’università di Passau, soprattutto quando le esperienze raccolte in questi contatti con i cittadini confluiscono direttamente nell’insegnamento e nella ricerca scientifica. In ciò l’università di Passau costituisce un modello esemplare!
Il tema del mio intervento odierno sono gli Stati Uniti d’Europa. Si tratta di una visione forte, ambiziosa e sicuramente controversa per il futuro del nostro continente. Sono certa che quello che sto per dire provocherà un dibattito molto acceso, ossia il fatto che, per uscire dalla crisi finanziaria e del debito, dobbiamo compiere il passo decisivo verso gli Stati Uniti d’Europa. Non vedo l’ora di confrontarmi con voi su questo tema, perché ritengo che in questo periodo di crisi sia più importante che mai discutere apertamente e lealmente sulle alternative che si prospettano all’Europa. Vi sono sempre alternative e spetta ai politici democraticamente eletti individuarle ed esplicitarle in modo chiaro affinché i cittadini possano scegliere con cognizione di causa, nelle elezioni legislative, regionali o alle elezioni per il Parlamento europeo del 2014.
Da parte mia, vorrei innanzitutto spiegarvi dove ha origine la nozione di “Stati Uniti d’Europa” e cosa significa, cercando di capire perché negli ultimi 20 anni questo sia stato per i politici un argomento tabù. Infine cercherò di spiegare perché oggi quest’idea di Stati Uniti d’Europa sia improvvisamente tornata di attualità.
Innanzitutto: Da dove proviene l’idea di Stati Uniti d’Europa e cosa significa?
Nel corso della storia sono tante le personalità famose che hanno parlato o sognato degli Stati Uniti d’Europa: da George Washington a Napoleone Bonaparte o Giuseppe Mazzini fino a Richard Coudenhove-Kalergi. Tuttavia è senza dubbio lo scrittore francese Victor Hugo ad aver formulato la visione più limpida e concreta.
Questa visione si può comprendere solo sullo sfondo del caos che regnava in Europa nel XIX secolo e che lo scrittore visse in prima persona: una serie di guerre tra Francia e Germania, l’esilio coatto di Victor Hugo sulle isole della Manica per la sua opposizione a Napoleone III, la traumatica annessione tedesca dell’Alsazia e della Lorena dopo la guerra del 1870/1871 e, infine, la partecipazione di Hugo al difficile decollo della nascente Terza Repubblica francese. In un’epoca così drammatica, è comprensibile che Victor Hugo anelasse alla pace e alla democrazia sul continente europeo. In occasione della conferenza di pace di Parigi, che si svolse alla metà del XIX secolo, lo scrittore illustrò la sua visione degli Stati Uniti d’Europa con queste parole:
“Verrà un giorno in cui le armi vi cadranno dalle mani; verrà un giorno in cui la guerra vi sembrerà tanto assurda, tanto impossibile fra Parigi e Londra, fra San Pietroburgo e Berlino, fra Vienna e Torino, quanto non lo sia oggi fra Rouen e Amiens, fra Boston e Filadelfia. Verrà un giorno in cui voi – Francia, Russia, Italia, Inghilterra, Germania – tutte le nazioni del continente senza perdere le vostre qualità distinte e la vostra gloriosa individualità, vi fonderete in modo stretto in un’unità superiore, formerete in modo assoluto la fraternità europea […]. Verrà un giorno in cui non vi saranno campi di battaglia al di fuori dei mercati che si aprono al commercio e degli spiriti che si aprono alle idee. Verrà un giorno in cui le pallottole e le bombe saranno sostituite dai voti, dal suffragio universale dei popoli, dal venerabile arbitrato di un grande senato sovrano che sarà per l’Europa ciò che il Parlamento è per l’Inghilterra, ciò che l’assemblea legislativa è per la Francia! Verrà un giorno in cui esporremo i cannoni nei musei sorprendendoci di ciò che è avvenuto in passato. Verrà un giorno nel quale l’uomo vedrà questi due immensi insiemi, gli Stati Uniti d’America e gli Stati Uniti d’Europa, posti l’uno di fronte all’altro, tendersi la mano al di sopra dell’oceano, scambiare fra loro merci, prodotti, artisti, scienziati […]. Non ci vorranno quattrocento anni per vedere quel giorno poiché viviamo in un tempo rapido”.
Si può chiaramente percepire come la visione di Victor Hugo degli Stati Uniti d’Europa fosse principalmente una visione di pace. Era anche una visione di democrazia, come dimostra la sua idea innovativa di un suffragio universale e di un grande parlamento per l’Europa. Infine Victor Hugo espone a chiare lettere un obiettivo fondamentale, profondamente radicato nella storia europea e che fino ad oggi ha permeato qualsiasi dibattito su una maggiore integrazione dell’Europa. Si tratta di un tema che mi sta particolarmente a cuore: ossia la necessità per le nazioni d’Europa di unirsi in una comunità superiore, una fratellanza più ampia, senza perdere le loro qualità distinte e la loro gloriosa individualità. Il motto dell’Unione, “Unita nella diversità”,espressamente ancorato nel trattato costituzionale per l’Europa nel 2003, compare già nel discorso di Victor Hugo.
Che Hugo auspicasse per l’Europa una struttura costituzionale analoga a quella che all’epoca già esisteva sull’altra sponda dell’Atlantico è del tutto comprensibile. Alla metà del XIX secolo, infatti, gli Stati Uniti d’America erano, insieme alla Svizzera, l’unico paese al mondo in cui vi fosse un’unione prima confederale, poi federale, di Stati originariamente sovrani e quindi diversi tra di loro come il Maine e la Louisiana. Inoltre, gli Stati Uniti, come la Svizzera, erano l’unica democrazia salda in tutto il mondo. Per un pacifista come Hugo gli Stati Uniti d’America costituivano quindi proprio il modello ideale per la sua rappresentazione utopica di una futura Europa unita.
Proprio questa radice pacifista e democratica dell’idea di Victor Hugo fa capire perché, dopo la drammatica esperienza della prima guerra mondiale e, ancor più, dopo la tragedia che la seconda guerra mondiale è stata per l’Europa, il progetto di Stati Uniti d’Europa abbia ottenuto così ampia diffusione.
Non sorprende il fatto che già nel 1942 Altiero Spinelli, che aveva combattuto nella Resistenza e che in seguito diventò uno dei padri fondatori delle Comunità europee, avesse contrapposto nel suo Manifesto di Ventotene all’esperienza della guerra e del totalitarismo la visione di Stati Uniti d’Europa democratici, dei quali avrebbe fatto parte persino una Germania democratica e denazificata, una visione davvero lungimirante per il 1942!
Non è così strano che il cristiano-democratico tedesco Konrad Adenauer, dopo la guerra, il nazismo e la detenzione da parte della Gestapo volesse a ogni costo che la Repubblica federale tedesca facesse parte degli Stati Uniti d’Europa che, nelle sue memorie, definisce la garanzia migliore e più duratura per i vicini occidentali della Germania. Non stupisce neanche che il lussemburghese Joseph Bech, che dal 1940 al 1945, durante l’occupazione tedesca, fu Ministro degli esteri del governo lussemburghese in esilio, trasse la sua idea dell’Europa direttamente da questa visione degli Stati Uniti d’Europa come dimostra il discorso tenuto quando gli fu conferito il premio Carlo Magno nel 1960.
Ma ancor più sorprendente fu il celeberrimo discorso di Zurigo tenuto dal Primo ministro britannico in quell’università. Nel lontano 1946, Churchill parlò, senza mezzi termini, delle condizioni in cui versava l’Europa, un continente devastato da un’ennesima guerra fratricida e a cui restava un’unica possibilità per ridare pace, sicurezza, libertà e prosperità ai propri cittadini. Churchill esortò i governi europei con queste parole: “We must build a kind of United States of Europe” (Dobbiamo creare una sorta di Stati Uniti d’Europa). Secondo Churchill, gli Stati Uniti d’Europa dovevano basarsi sul principio che le piccole nazioni avrebbero avuto lo stesso valore delle grandi. In quanto cittadina lussemburghese, devo dire che eccezionalmente, su questa questione, condivido pienamente la visione britannica dell’Europa. Churchill riteneva giustamente che il primo passo necessario per una riconciliazione della famiglia europea dipendesse da un partenariato tra Francia e Germania. Dal canto suo, la Gran Bretagna non avrebbe fatto parte degli Stati Uniti d’Europa, poiché di fatto allora aveva già un’unione a livello mondiale, il Commonwealth. “Let Europe arise!” (Facciamo risorgere l’Europa!) furono le dirompenti parole con cui Churchill concluse il suo discorso di Zurigo.
Si potrebbe obiettare che tutte queste personalità appartenevano alla generazione dell’immediato dopoguerra. Purtroppo questa generazione dovette rendersi subito conto che gli Stati Uniti d’Europa non sarebbero diventati realtà. Quando, come sappiamo, il 30 agosto 1954, l’assemblea nazionale francese bocciò il trattato sulla Comunità europea di difesa, anche i federalisti europei più convinti dovettero arrendersi all’evidenza. Si rinunciò quindi anche a ratificare il trattato sulla Comunità politica europea, che era stato negoziato parallelamente e che costituiva una prima bozza costituzionale interessante di un’unione politica europea. A questo punto, si potrebbe pensare che la generazione dei politici del dopoguerra dovette rinunciare al proprio sogno ambizioso degli Stati Uniti d’Europa.
Invece, solo alcuni anni più tardi, nel 1957, vi fu un nuovo slancio: i trattati di Roma diedero vita alla Comunità economica europea e alla Comunità europea dell’energia atomica. Sicuramente, all’inizio si pensò che fossero semplicemente accordi di collaborazione economica e tecnica, un organismo di cooperazione per un’integrazione funzionale, secondo la definizione del giurista tedesco Hans Peter Ipsen. Dopo le esperienze fallimentari del 1954, si evitò intenzionalmente di collaborare su questioni più politiche. Tuttavia gli Stati fondatori della CEE avevano questa ferma intenzione: l’unione economica in seno ad un mercato comune avrebbe portato gradualmente a una coesione così forte che questa forma inizialmente limitata di integrazione sarebbe sfociata necessariamente in un’integrazione politica. I padri dei trattati di Roma pensavano che questo effetto di ricaduta avrebbe portato direttamente a una forma di governo federale e quindi agli Stati Uniti d’Europa.
Era questo il pensiero di fondo di Walter Hallstein, primo presidente della Commissione europea, quando illustrò la situazione delle Comunità europee nel suo libro dal titolo incisivo “Der unvollendete Bundesstaat” (Lo Stato federale incompiuto). Questa era anche la posizione dei due grandi partiti popolari tedeschi. Fino al 1992 l’obiettivo degli “Stati Uniti d’Europa” figurava chiaramente nel programma di partito della CDU, mentre il partito socialdemocratico SPD l’aveva già inserito nel suo programma di Heidelberg del 1925, in vigore fino al 1959.
Anche tra gli altri partiti politici europei questa visione continuava ad essere popolare. Ad esempio, l’8 novembre 1988, Jacques Santer, all’epoca Primo ministro cristiano-democratico del Lussemburgo e ex presidente del Partito popolare europeo, dichiarò:
“Noi cristiano-democratici del partito popolare europeo vogliamo che la Comunità europea diventi gli Stati Uniti d’Europa”.
Oltre a questi statisti cristiano-democratici, il più grande sostenitore di questa visione è stato senza dubbio il cancelliere tedesco Helmut Kohl. Nella sua biografia su Kohl pubblicata qualche settimana fa, Hans-Peter Schwarz descrive chiaramente la determinazione del cancelliere su questo argomento. Per Kohl i negoziati sul trattato di Maastricht dovevano mirare proprio agli Stati Uniti d’Europa. Mentre la maggior parte degli altri politici si interessò unicamente alla conferenza intergovernativa sull’Unione economica e monetaria e allo statuto della Banca centrale europea, Kohl insistette a più riprese che si compissero progressi ambiziosi all’interno della conferenza intergovernativa sull’unione politica, che era stata indetta parallelamente. Per il cancelliere, le due conferenze intergovernative erano parimenti importanti: l’unione monetaria e l’unione politica erano due facce della stessa medaglia.
Il 31 maggio 1991, poco dopo la firma del trattato di Maastricht, Kohl dichiarò davanti alla direzione federale della CDU che, sebbene il nuovo trattato avesse dato vita solo a un’unione monetaria e non ancora politica, come lui avrebbe auspicato, gli “Stati Uniti d’Europa” rimanevano un obiettivo irrinunciabile. In un discorso del 3 aprile 1992 Kohl espresse in questo modo il suo apprezzamento per il trattato di Maastricht:
“A Maastricht abbiamo posto le basi per il completamento dell’Unione europea. Il trattato sull’Unione europea introduce una nuova tappa decisiva dell’opera di unificazione europea che fra qualche anno condurrà alla realizzazione di quello che i padri fondatori dell’Europa moderna sognavano all’indomani dell’ultima guerra: gli Stati Uniti d’Europa”.
Il messaggio è inequivocabile: Maastricht aveva compiuto un passo importante verso una moneta comune europea e il successivo passo logico sembrava imminente: l’unione politica che avrebbe portato agli Stati Uniti d’Europa.
Invece le cose andarono diversamente e il sogno degli Stati Uniti d’Europa scomparve quasi subito dall’ordine del giorno. Praticamente dal 1993 questo concetto non è mai più stato utilizzato, neanche da Helmut Kohl.
Cosa ha provocato una simile inversione di rotta? Il motivo di fondo è stato il particolare compromesso che gli Stati membri raggiunsero nel 1991 a Maastricht sull’architettura dell’unione monetaria. Gli Stati membri si erano accordati alla fine per creare un’unione monetaria senza una parallela un’unione politica. Fu il fallimento delle ambizioni di Helmut Kohl, ma anche di tanti politici europeisti del Benelux che si erano impegnati per una concomitante unione politica. A Maastricht ebbe la meglio una nuova impostazione: sarebbe stata creata una Banca centrale europea indipendente ma nessuna forma di governo economico europeo. Il presidente della Banca centrale, dotato di rilevanti poteri, sarebbe stato affiancato non da un Ministro delle finanze europeo bensì da 17 Ministri delle finanze nazionali. L’Europa avrebbe avuto una moneta comune ma non un bilancio comune significativo attraverso il quale fissare obiettivi di politica economica.
Questa architettura asimmetrica di Maastricht deriva dalla convergenza storica di due correnti politiche. Innanzitutto quella neoliberista, che all’inizio degli anni ‘90 imperava a livello mondiale e alla quale aderivano numerosi capi di Stato e di governo europei. Nell’ottica neoliberista, la costruzione asimmetrica di Maastricht era persino la soluzione ideale, perché rafforzava i mercati e indeboliva la politica. La moneta unica poteva stabilizzarsi unicamente attraverso la disciplina di mercato sancita dal trattato. Secondo i neoliberisti, l’introduzione di una politica economica e finanziaria a livello europeo avrebbe provocato solo distorsioni sul mercato. Il fatto che gli Stati membri continuassero ad attuare diverse politiche economiche, di bilancio, fiscali e sociali a livello nazionale non rappresentava una debolezza, ma piuttosto una conquista di Maastricht. Perché in questo modo, le decisioni politiche nei settori di cui sopra sarebbero state adottate in base alla “concorrenza tra sistemi”.
Questa corrente di pensiero neoliberista dominante all’epoca si incontrò a Maastricht con la posizione di coloro che nutrivano sostanziale scetticismo verso il trasferimento di sovranità nell’ambito dell’unione monetaria e che insistevano per mantenere il più ampio grado possibile di sovranità nazionale. Ad esempio, la delegazione britannica a Maastricht insistette che il termine “federale” fosse stralciato dalla bozza di trattato sull’unione politica. I sostenitori degli Stati Uniti d’Europa dovettero incassare questa grave sconfitta.
È stato quindi a causa di una convergenza tra correnti neoliberiste e fautori della sovranità nazionale che Maastricht non diede vita agli Stati Uniti d’Europa ma solo a un’unione incompiuta. Infine, la sentenza della Corte costituzionale tedesca del 1993 diede il colpo finale a questa aspirazione. La Corte sancì che, anche in seguito al trattato di Maastricht, gli Stati membri sarebbero rimasti “i signori dei trattati” e che, se necessario, la Germania avrebbe potuto persino uscire dall’unione monetaria. Sia per i neoliberisti che per i fautori della sovranità nazionale, la sentenza fu un vero e proprio trionfo. Il filosofo tedesco liberalconservatore Herrmann Lübbe, in un controverso saggio del 1994, scrisse a proposito del trattato di Maastricht che si poteva dire addio al Superstato e che gli Stati Uniti d’Europa non sarebbero mai diventati realtà.
La delusione di Helmut Kohl di fronte a questi sviluppi fu grande: il suo biografo Hans-Peter Schwarz riferisce che, in seguito alla sentenza della Corte costituzionale tedesca su Maastricht, Kohl smise di utilizzare il concetto di Stati Uniti d’Europa in pubblico. In una riunione della presidenza della CDU del 1994, Kohl dichiarò tuttavia di aver avuto “a cuore” questo concetto per decenni.
All’epoca io ho vissuto questo dibattito in prima persona all’interno del Partito popolare europeo, l’unione dei partiti cristiano-democratici europei. Quasi contemporaneamente ai negoziati sul trattato di Maastricht, si era iniziato a discutere dell’adesione al PPE dei due partiti conservatori di Italia e Regno Unito, Forza Italia e i Tory, che avrebbe reso per molto tempo il PPE il gruppo più forte all’interno del Parlamento europeo. Questo obiettivo politico ha avuto un caro prezzo: in contropartita, il PPE doveva accettare che la realizzazione di un’Europa federale di stampo cristiano e la visione degli Stati Uniti d’Europa fossero cancellate dallo statuto del partito. Ricordo ancora come fosse oggi le accese discussioni nelle quali le convinzioni cristiano-democratiche dovettero scontrarsi con calcoli di natura politica. Insieme a un gruppo di colleghi cristiano-democratici del Belgio, dei Paesi Bassi e del Lussemburgo, all’epoca io votai contro questo nuovo orientamento all’interno del PPE. Con esponenti cristiano-democratici che la pensavano come me, arrivammo a redigere la dichiarazione di Atene. Tuttavia eravamo destinati a soccombere: la ragione politica fu più importante della visione dei padri fondatori riguardo all’unificazione europea.
L’esperienza di Maastricht spiega perché i politici di allora, molti dei quali ancora in carica, oggi descrivano la loro visione sul futuro dell’Europa con un certo grado di rassegnazione: “Da giovane sognavo gli Stati Uniti d’Europa. Oggi mi rendo conto che bisogna essere più realisti e che si tratta di un sogno difficile da realizzare.” Quest’atteggiamento rassegnato si è ulteriormente rafforzato quando nel 2005 il trattato costituzionale europeo, l’ultimo tentativo di trasformare comunque, almeno parzialmente, l’Unione europea di Maastricht in un’unione politica, è stato bocciato nei referendum di Francia e Paesi Bassi, nonostante la ratifica del trattato da parte 18 Stati, di cui due, Lussemburgo e Spagna, tramite referendum. Nel 2001, in occasione del decimo anniversario del trattato di Maastricht, il Primo ministro lussemburghese Jean-Claude Juncker si lasciò sfuggire: “Il trattato di Maastricht avrebbe dovuto diventare la nostra costituzione”.
Quando i cittadini oggi chiedono a noi politici “Qual è il futuro dell’Europa?” oppure “In che direzione va il treno dell’unificazione europea?”, in genere eludiamo la domanda. “Nessuno vuole un Superstato”, questa è di solito la prima reazione, preoccupati come siamo di venire frantesi dai neoliberisti, dai sostenitori della sovranità nazionale o dalla Corte costituzionale tedesca. Poi in genere aggiungiamo: “Bisogna capire che l’UE è una costruzione sui generis”. “Vogliamo non uno Stato federale europeo, ma una costruzione di tipo confederale o federale” o una “unione di Stati nazionali”.
Grazie alla mia esperienza di lunga data ho piena comprensione per queste capriole linguistiche che farebbero certo strappare i capelli agli esperti di diritto costituzionale. E devo ammettere di aver cercato anch’io in passato più volte rifugio in sofismi del genere. Ma mi rendo conto che questo linguaggio è sempre più criticato dai cittadini per la sua fumosità, che non li convince. Infatti, come mi ha scritto di recente un cittadino per e-mail dopo un incontro a livello comunale in Austria, “Come può un cittadino identificarsi con questo progetto europeo che tanto lodate, se nessuno dice apertamente verso dove si sta andando? Se continuate a definire l’Europa in modo così tecnocratico e complicato, non dovete meravigliarvi se vi consideriamo solo dei tecnocrati.” Signore e signori, questo cittadino non ha del tutto torto. Anzi, a dire il vero, ha ragione.
È giunto quindi il momento, nonostante l’esperienza traumatica di Maastricht, di riconsiderare l’idea degli Stati Uniti d’Europa. Da alcuni mesi questa idea sta avendo una vera e propria rinascita. Di fronte alla crisi, molti leader politici si dicono ora apertamente a favore dell’istituzione degli Stati Uniti d’Europa, dai cristiano-democratici, come il Ministro tedesco del lavoro Ursula von der Leyen e il mio collega alla Commissione Günter Oettinger, passando per i socialdemocratici, come l’ex cancelliere austriaco Alfred Gusenbauer, e i liberali, come il Ministro degli esteri tedesco Guido Westerwelle, per arrivare infine a Daniel Cohn-Bendit, l’eloquente capogruppo dei verdi europei. L’anno scorso l’associazione d’imprese francese MEDEF ha lanciato una vera e propria campagna a favore degli Stati Uniti d’Europa. E come forse vi è noto, dall’inizio dell’anno io stessa, in diversi discorsi e articoli, ho preso posizione a favore di una visione federalista degli Stati Uniti d’Europa. Naturalmente si alzano anche voci contrarie: Martin Schulz, Presidente del Parlamento europeo, e Volker Kauder, capogruppo della CDU al Bundestag tedesco, mettono apertamente in guardia dal risuscitare l’obiettivo politico degli Stati Uniti d’Europa dopo le esperienze negative fatte in passato. È un atteggiamento legittimo. Resta però il fatto che l’idea viene oggi discussa ed è così di nuovo all’ordine del giorno. E questo è un bene.
La crisi finanziaria e del debito sovrano è certo il motivo all’origine di questo rinnovato interesse. Nei periodi di crisi l’Europa ha sempre trovato la forza per rinvigorire l’integrazione. Personalmente sono convinta che anche stavolta sarà così e che l’Europa uscirà più forte di prima dalla crisi attuale. Questa crisi riveste particolare importanza per la concezione di un’Europa federale perché mostra agli occhi di tutti come un’unione monetaria dall’architettura asimmetrica, come quella creata a Maastricht da neoliberisti e sostenitori della sovranità nazionale, non possa durare a lungo.
Come si può pensare che la disciplina di mercato e le norme giuridiche bastino da sole a garantire finanze pubbliche sane, se per 20 anni abbiamo constatato che né il mercato né le norme giuridiche più rigorose riescono a contrastare un debito pubblico eccessivo in nessuno degli Stati membri dell’UE? E purtroppo anche la Germania è stata a lungo un pessimo esempio in questo campo. Se si vuole una politica di bilancio sana e duratura, occorre un Ministro delle finanze europeo responsabile del proprio operato dinanzi al Parlamento europeo e che disponga di chiari poteri per intervenire nei confronti degli Stati membri. L’arbitrarietà dei giudizi pubblicati dalle agenzie di rating non può certo rappresentare un’alternativa!
Come si può pensare di riuscire sul serio ad attuare una politica economica europea orientata alla crescita, se l’Unione europea non dispone di risorse di bilancio adeguate? A livello dell’Unione stiamo discutendo animatamente se a Bruxelles si debbano impegnare, come risorse finanziarie comuni, l’1% del prodotto interno lordo o l’1,05% del prodotto interno lordo europeo. Come possiamo meravigliarci se noi europei incontriamo difficoltà ben maggiori rispetto agli Stati Uniti d’America quando si tratta di accendere i motori della crescita nel nostro continente? Washington dispone di una dotazione federale di bilancio pari a circa il 35% del prodotto interno lordo degli Stati Uniti d’America!
C’è davvero da meravigliarsi che il dollaro americano non sia in preda a una crisi di fiducia, sebbene gli Stati Uniti d’America abbiano un debito pubblico superiore a quello della maggior parte degli Stati europei e un disavanzo di bilancio ben maggiore rispetto ai paesi della zona dell’euro e nonostante diverse regioni degli Stati Uniti abbiano dovuto dichiarare fallimento negli ultimi anni? Orbene, non è questo il punto. Il motivo è che, a differenza dell’Europa, in America nessuno mette in dubbio il fatto che gli Stati Uniti continueranno a essere una federazione di Stati, malgrado tutte le difficoltà economiche e finanziarie del momento presente. Nessuno mette in dubbio l’appartenenza del Minnesota agli Stati Uniti d’America, sebbene il Minnesota abbia dichiarato insolvenza nel luglio del 2011. Il tasso del dollaro USA non è nemmeno oscillato in quell’occasione, benché il peso economico del Minnesota per gli Stati Uniti d’America sia più o meno paragonabile a quello della Grecia per l’Unione europea.
A Maastricht hanno voluto farci credere che era possibile introdurre un’unione monetaria stabile e una nuova valuta internazionale senza creare in parallelo gli Stati Uniti d’Europa. È stato un errore, e questo errore di Maastricht va corretto adesso se vogliamo continuare a vivere in un’Europa stabile ed economicamente prospera. Ed è un bene che nel frattempo lo abbiano capito anche i capi di Stato e di governo della maggior parte degli Stati membri. Dal 2010 è in corso un processo che porterà a una sostanziale ristrutturazione dell’unione monetaria europea. Sulla base di una relazione sottopostagli dai Presidenti delle istituzioni europee, in questi giorni il Consiglio europeo sta elaborando quattro nuovi livelli di integrazione:
- un’unione bancaria europea dotata di un organismo centrale europeo di vigilanza bancaria;
- un’unione fiscale europea munita, da un lato, di meccanismi rafforzati di controllo sui bilanci nazionali e, dall’altro, di una capacità finanziaria propria a livello europeo;
- un’unione economica europea nel cui ambito le decisioni in materia di politica economica, fiscale e sociale siano prese in comune più di quanto non avvenga oggi;
- e, infine, un’unione politica.
Questo processo presenta opportunità, ma anche rischi. Senza dubbio questa è l’occasione per rimediare a quanto è stato omesso a Maastricht nel 1991 e per portare a compimento un’unione incompiuta sotto il profilo politico. Allo stesso tempo vi è però il rischio di limitare ancora una volta la nostra azione alle riforme economiche e finanziare, sacrificando di nuovo la cosa più importante: un’unione politica convincente, forte e democratica. In questi giorni in alcune capitali si registrano tendenze che ritengo molto preoccupanti.
Consentitemi di affermarlo senza mezzi termini: negli ultimi tre anni si è fatto molto per stabilizzare la nostra unione monetaria. Il nuovo meccanismo europeo di stabilità grazie al quale è possibile attivare fino a 500 miliardi di euro per stabilizzare in caso di necessità gli Stati dell’eurozona è una conquista storica. Lo stesso vale anche per il patto di bilancio europeo in base al quale 25 Stati europei si sono impegnati a garantire finanze pubbliche sane e a mettere in atto freni al debito nazionale. Anche le azioni svolte dalla Banca centrale europea rivestono un’importanza inestimabile per salvaguardare la stabilità della nostra valuta. Ma siamo onesti: si tratta di misure senza dubbio importanti per lottare contro la crisi; possono farci guadagnare del tempo, ma non possono stabilizzare in modo duraturo la costruzione traballante creata con il trattato di Maastricht.
Al momento attuale vedo un pericolo soprattutto nel fatto che, sia il meccanismo europeo di stabilità, sia il patto di bilancio sono costruzioni improvvisate al di fuori dei trattati europei. È vero, di fronte alla crisi non c’erano alternative, bisognava agire subito. Sotto il profilo del parlamentarismo democratico questa però non può e non deve essere una soluzione duratura. In futuro saranno prese decisioni fondamentali a livello europeo in merito all’orientamento delle politiche economiche, finanziarie e sociali nei singoli Stati della zona dell’euro. Sono decisioni che devono sottostare a un controllo democratico efficace e quotidiano. È mia convinzione che questo controllo non possa essere assicurato a livello di incontri intergovernativi tra ministri e segretari di Stato dei diversi paesi sorvegliati alla meno peggio da 17 parlamenti nazionali che agiscono individualmente. Quando decisioni del genere sono prese a livello europeo, va anche garantito un controllo democratico a livello europeo, da pari a pari. Sono pertanto a favore dell’integrazione a medio termine del patto di bilancio e anche del meccanismo europeo di stabilità nei trattati europei, in modo da sottoporre questi strumenti al controllo del Parlamento europeo.
Un principio democratico fondamentale è “No taxation without representation” (“Niente imposte senza rappresentanza”). Dovremmo prenderlo molto sul serio nel forgiare l’Europa del futuro. Una maggiore integrazione dell’Europa in un’autentica unione economica e monetaria richiederà decisioni a livello europeo in ambiti molto “sensibili”. Non è pensabile affidare queste decisioni solo a troike di esperti finanziari indipendenti! Per fare un esempio: la decisione di imporre all’Irlanda, in nome di un urgente e necessario consolidamento dei suoi conti pubblici, l’applicazione per la prima volta nella storia di una tassa sulla fornitura di acqua non dovrebbe essere solo tecnicamente corretta, ma anche legittimata democraticamente dal Parlamento europeo. Lo stesso vale per gli obblighi imposti da Bruxelles per le privatizzazioni in Grecia, l’indicizzazione dei salari in Lussemburgo o lo splitting dei redditi familiari in Germania, tutte questioni trattate nell’ambito del semestre europeo di quest’anno. Secondo me è il Parlamento europeo che deve discutere, nel quadro di dibattiti responsabili e pubblici, se questi obblighi siano giusti o sbagliati.
Per far ciò sono necessarie riforme che vanno ben oltre il funzionamento dell’unione monetaria. È necessario un sostanziale approfondimento delle basi politiche e democratiche dell’Unione europea attuale. I documenti di riflessione che circolano al momento nelle capitali europee affrontano purtroppo la questione solo molto timidamente, talvolta alla voce “Unione politica”. Se non vogliamo ripetere gli errori di Maastricht, credo che dobbiamo essere molto più ambiziosi su questo punto. Abbiamo bisogno di una visione chiara e ambiziosa per il futuro del nostro continente, per un’Europa forte e democratica, che sia molto di più di un grande mercato e di un’unione monetaria stabile.
A settembre, nel suo discorso sullo stato dell’Unione, il Presidente della Commissione José Manuel Barroso ha esortato tutti a non avere paura delle parole e dei concetti in questo dibattito sul futuro dell’Europa e a formulare la nostra visione con chiarezza e coraggio. Credo che sia molto importante usare parole chiare se vogliamo che questa visione sia condivisa dai cittadini.
Al riguardo vorrei fare un esempio: vi siete ormai tutti abituati a chiamare l’esecutivo di Bruxelles la “Commissione europea”. Vi invito tuttavia a riflettere un attimo su come questo termine suona all’orecchio dei cittadini. A Bruxelles sono i Commissari a decidere: ecco una frase che di primo acchito sa di tecnocrazia e burocrazia e non richiama decisioni politiche legittimate democraticamente. C’è forse da meravigliarsi se il sindaco di un comune bavarese non riesce a capire le decisioni del “Commissario per la concorrenza” di Bruxelles? All’inizio dell’anno la Cancelliera tedesca Angela Merkel ha invitato a fare della Commissione europea un governo europeo. Ritengo che questo cambiamento concettuale sia giusto e che avrebbe già dovuto aver luogo. Di fatto, è ormai da molto che la Commissione europea non è più un insieme di esperti e tecnocrati che nessuno ha eletto. Al contrario, la Commissione è nominata ogni cinque anni dai membri del Parlamento europeo, eletti in modo democratico e diretto sulla scorta dei risultati delle elezioni europee. Prima di essere nominato, un Commissario deve superare un’audizione di tre ore dinanzi alla commissione competente del Parlamento europeo. Qui viene sottoposto a un severo esame in merito alle sue conoscenze specifiche, ma anche ai suoi principi e all’orientamento politico. E il Parlamento europeo non si fa scrupoli a bocciare un candidato che non è all’altezza di questo esame. Manfred Weber ce lo può certo confermare. Rispetto a procedure analoghe a livello nazionale, si può quindi affermare che i membri della Commissione europea entrino in carica con una procedura più democratica di qualsiasi ministro del governo federale tedesco e del governo di un Land, nominati tutti senza la partecipazione del parlamento competente. Inoltre, prima di entrare in carica, molti commissari erano membri del Parlamento europeo. Io stessa sono stata eletta cinque volte di seguito al Parlamento europeo dai cittadini lussemburghesi. E auspicherei che in futuro divenisse norma per un Commissario esser stato prima eletto al Parlamento europeo. Ciò contribuirebbe a rafforzare la legittimazione democratica del governo europeo.
Nel definire l’assetto da dare in futuro a un’Europa unita politicamente, dovremmo essere altrettanto coraggiosi della Cancelliera tedesca. Per un’Europa federale sono possibili più modelli: un’“Europa alla svizzera”, una “Bundesrepublik Europa” oppure gli “Stati Uniti d’Europa”. Dopo matura riflessione ritengo quest’ultimo modello il più condivisibile, ma anche quello che definisce in modo più appropriato la struttura definitiva cui l’Unione europea aspira.
Un’“Europa alla svizzera” quale visione per il futuro non sarebbe un termine di paragone adeguato per un’Europa unita, nonostante la grande simpatia personale che nutro per la repubblica alpina, così ricca di tradizione. Di sicuro, infatti, l’Europa unita non sarà un neutrale “Stato di nicchia”, ma un attore politico sulla scena internazionale, una grande potenza mondiale. Non va poi dimenticato che, sebbene sia ormai da molto tempo uno Stato federale ben consolidato, la Svizzera è tuttora designata ufficialmente come confederazione, “Confoederatio”. Una visione di tipo svizzero per il futuro dell’Europa invece di chiarimenti apporterebbe così altre confusioni concettuali sotto il profilo del diritto pubblico.
“Bundesrepublik Europa”: è comprensibile che qui in Germania un simile modello possa trovare sostenitori entusiasti. È fuori dubbio che una futura Europa di stampo federale possa e debba decisamente ispirarsi al successo del federalismo tedesco. Mi si consenta tuttavia un’osservazione in quanto vostra vicina lussemburghese: quanti pensino che la Germania debba di nuovo servire da modello universale, foss’anche solo sul piano del diritto pubblico, non si attireranno le simpatie degli altri Stati dell’Unione europea.
Rimane infine il concetto degli “Stati Uniti d’Europa”. Torniamo allora a Victor Hugo.
Gli “Stati Uniti d’Europa”: fedele alla tradizione di Victor Hugo, l’obiettivo di unificazione sancito da questa espressione riflette l’idea di pace che continua a forgiare l’unificazione dell’Europa, come evidenziato di recente dal conferimento del premio Nobel per la pace all’Unione europea. Fa bene il nostro continente a non dimenticare la lezione impartitagli dalla sua terribile storia.
Gli “Stati Uniti d’Europa”: il plurale è un chiaro riferimento non a un unico Stato o a un Superstato, ma a un costrutto federale, nel cui ambito una molteplicità di singoli Stati stringe una nuova alleanza che salvaguarda in modo consapevole la diversità e l’individualità di ogni singolo Stato, come giustamente sottolineato a suo tempo da Victor Hugo.
Infine, gli “Stati Uniti d’Europa”: questo nome pur esprimendo a chiare lettere che aspiriamo a una forma costituzionale democratica e federale paragonabile a quella degli Stati Uniti d’America, significa anche che intendiamo realizzarla nel contesto specifico della storia europea, dei nostri valori e della diversità peculiare al nostro continente. Sì, l’Europa ha bisogno di un sistema bicamerale come quello degli Stati Uniti. Forse un giorno avremo addirittura bisogno di un Presidente della Commissione europea eletto direttamente, come ha proposto il Ministro tedesco delle finanze Wolfgang Schäuble e come ha di recente scritto nel suo programma il Partito popolare europeo. Nelle ultime settimane la campagna per le elezioni presidenziali americane ci ha mostrato in modo impressionante il potere mobilitante che la scelta di una persona può esercitare su un intero continente. Ma un effetto del genere lo si raggiunge solo se i politici hanno la disponibilità e la capacità di recarsi nella “Town Hall” di un piccolo centro sperduto dell’Ohio per dialogare a tu per tu con i cittadini. In Europa solo candidati che padroneggiano più lingue avrebbero una chance in elezioni dirette di questo genere.
Gli “Stati Uniti d’Europa”: questa formula consente inoltre a noi europei di evidenziare a chiare lettere i punti che ci differenziano dagli Stati Uniti d’America, specificando perché in Europa vogliamo adottare solo la struttura costituzionale e non certo ogni aspetto della realtà costituzionale degli Stati Uniti d’America. Sulla base della nostra storia, noi europei abbiamo infatti una concezione dei valori e dei diritti fondamentali spesso diversa da quella degli Stati Uniti d’America, come testimoniano soprattutto il nostro rifiuto della pena di morte, sancito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, e l’importanza del diritto fondamentale alla protezione dei dati. Noi europei concepiamo inoltre in modo diverso il rapporto tra mercato e Stato, poiché il nostro obiettivo non è un’economia di mercato pura e semplice, ma un’economia sociale di mercato, anche se, sotto la guida del presidente Obama, gli Stati uniti d’America vanno nella direzione europea, almeno nel settore sanitario. E naturalmente, in Europa, abbiamo una tradizione storica del tutto differente legata alla diversità delle nostre culture e delle nostre lingue, anche se va detto che oggi, negli Stati Uniti, il 16% della popolazione è di madrelingua spagnola, una tendenza in aumento.
Eccomi giunta alle conclusioni. Sì, per me gli Stati Uniti d’Europa sono la visione giusta per superare la crisi attuale, ma anche e soprattutto per rimediare alle carenze del trattato di Maastricht. Perché in fin dei conti una cristiano-democratica europea come me non può certo farsi dettare la visione per il futuro dagli euroscettici britannici! Constato inoltre con grande interesse che, stando a un’inchiesta del quotidiano tedesco “Die Welt”, il 43% dei cittadini tedeschi è già ora a favore degli Stati Uniti d’Europa, prima ancora che sia stato aperto un serio dibattito. Come punto di partenza mi sembra davvero incoraggiante.
Naturalmente so che non potremo realizzare gli Stati Uniti d’Europa dall’oggi all’indomani. Avremo bisogno di nuovi trattati, la Germania dovrà anche modificare la costituzione; su questo punto potremo certo fare affidamento sulla Corte costituzionale federale! In questo contesto dovremmo anche pronunciarci in merito alla questione se tutti gli Stati dell’UE o solo gli Stati dell’eurozona oseranno incamminarsi verso il futuro federale dell’Europa. La presa di posizione della Gran Bretagna svolgerà poi un ruolo strategico decisivo, anche se già nel 1946 Winston Churchill, nel suo discorso di Zurigo, ha reso nota la posizione britannica nei confronti degli Stati Uniti d’Europa. “We will be for, but not with it” (Li sosterremo, ma non ne faremo parte): così si può riassumere questa posizione, da una prospettiva tutt’oggi valida.
Come già Victor Hugo, non credo che dovremmo aspettare 400 anni per veder sorgere gli Stati Uniti d’Europa. Due guerre mondiali, 60 anni di esperienza nel campo dell’integrazione europea e, non da ultimo, l’attuale crisi hanno accelerato assai il ritmo degli eventi. Nel loro libro Questa volta è diverso. Otto secoli di follia finanziaria a seguito di un’analisi dettagliata delle crisi finanziarie degli ultimi otto secoli, gli economisti Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart pronosticano addirittura che:
sotto la pressione della crisi verrà a crearsi una dinamica come oggi non riusciamo nemmeno a immaginarcela e che potrebbe portare alla nascita degli Stati Uniti d’Europa molto prima di quanto pensino i più.
Sono sicura che le studentesse e gli studenti presenti oggi in questa aula avranno buone possibilità di assistere alla nascita degli Stati Uniti d’Europa.