Mentre viene celebrato l’Expo come una grande occasione per rilanciare il Made in Italy, intere filiere agricole sopravvivono grazie allo sfruttamento del lavoro. Dal sud della Spagna alla Grecia, fino in Puglia, Sicilia e Calabria, tutta l’Europa mediterranea produce in condizioni di grave sfruttamento i prodotti ortofrutticoli destinati in gran parte ai mercati del Nord.
Il modello si estende e non risparmia regioni un tempo immuni come ad esempio il Piemonte. Quella che a prima vista appare come un’emergenza umanitaria – ghetto di Rignano (Foggia), baraccopoli-tendopoli di Rosarno (Reggio Calabria), area di Saluzzo (Cuneo) etc. – è in realtà il frutto di un vero e proprio sistema di produzione che in tutta l’Europa del Sud ha le stesse caratteristiche e che si nutre dello sfruttamento.
Che fine fanno le arance raccolte sfruttando il lavoro dei migranti? E quali sono le responsabilità delle multinazionali, dei commercianti e dei produttori? A queste domande cerca di rispondere il rapporto “#FilieraSporca. Gli invisibili dell’arancia e lo sfruttamento in agricoltura nell’anno di Expo“, realizzato dalle associazioni “daSud”, “Terra! Onlus”, “Terrelibere”. Un percorso lungo la filiera, dal campo allo scaffale, per stanare i veri invisibili dello sfruttamento del lavoro in agricoltura: la grande distribuzione e le multinazionali.
Quando lo sfruttamento è strutturale, è inutile riferirsi all’emergenza, perché è il prodotto di una filiera malata che scarica costi e disagi sul soggetto più debole, i braccianti, spesso migranti di origine africana o dell’Est Europa.
Il rapporto nasce con l’idea di offrire una prospettiva nuova al problema complesso dello sfruttamento del lavoro in agricoltura. Perché se è vero che ci sono migliaia di persone costrette a subire lo sfruttamento e a paghe da fame, è altrettanto vero che esiste una filiera che si nutre dello sfruttamento come terreno di coltura su cui svilupparsi. Ed è proprio la filiera a dover essere indagata se vogliamo rintracciare le cause e offrire possibili soluzioni.
Quanti sono i consumatori che sarebbero disposti a comprare un’arancia, un pomodoro, una bottiglia di vino, un succo, una conserva, sapendo che vengono dallo sfruttamento e dalla schiavitù? Probabilmente nessuno. Ma nessuno al momento è in grado di sapere se quello che sta mangiando è frutto di questo sfruttamento, se è sporco. Quella che il rapporto ricostruisce è una filiera lunga, troppo lunga, composta da troppi passaggi per portare un’arancia dall’albero al supermercato. Passaggi in cui ogni singolo anello deve guadagnare, fino a far lievitare il costo di un kg di arance a 2.10€ in un supermercato di Roma, e di cui solo 0,03/0,06€ vanno al bracciante agricolo.
Come funziona il caporalato. La raccolta è l’unico elemento visibile di un meccanismo complesso. Il basso salario e il caporalato producono condizioni abitative degradanti. I ghetti sono “fotografabili”, creano immaginario e diventano la spia di un sistema malato. Il caporalato deriva dalla necessità di forza lavoro molto flessibile, specie quando il prodotto è deperibile (pomodoro, frutta, etc.). Allora è necessario organizzare la manodopera in squadre e capisquadra, che diventano gli interlocutori unici per pagamenti e dispiegamento dei lavoratori nei campi. Per un padrone, ovviamente, è molto più semplice parlare con un caporale che con dieci o venti braccianti. I caporali possono affiancare o sostituire cooperative formalmente legali che però finiscono per svolgere una funzione analoga. Mentre i medi produttori ricorrono direttamente ai caporali, le realtà più grandi preferiscono rivolgersi a strutture formalmente legali come le “cooperative senza terra”. Sono formate sia da italiani che stranieri, non producono ma offrono servizi come la potatura e raccolta. Spesso sono aziende serie, altre volte forme di caporalato mascherato. Dietro un contratto formale con l’azienda committente, infatti, possono nascondersi lavoro nero, decurtazione delle buste paga, evasione contributiva.
Soluzioni? Puntare sulla trasparenza, dare il giusto a chi lavora eliminando gli intermediari inutili che sfruttano la manodopera, permetterebbe di abbassare il prezzo finale e porre fine a questa schiavitù.