Ricevo e pubblico volentieri una email su un’ennesimo caso di malasanità.
“Era Natale, come lo sarà tra qualche giorno. Era il 2009. Ricordo che quell’anno gli addobbi li avevamo piazzati io e mia sorella minore, perché chi l’aveva fatto sempre negli anni passati era impegnato in un letto d’ospedale a combattere la morte e chi gliela stava procurando. Quella persona era Domenico Pizzuto, mio nonno, che però non aveva mai dimostrato d’aver l’età che aveva. A inizio novembre ne aveva compiuti 83, ma solo pochi mesi prima del suo ingresso in ospedale si era arrampicato sulle alte cime dei pini di casa per tagliarne le lunghezze. Come le stagioni che si rincorrono, abbiamo corso a fianco del nonno quando nell’estate dello stesso anno gli veniva diagnosticato un adenocarcinoma al retto. Abbiamo cercato l’eccellenza affinché potesse guarirlo, e abbiamo trovato invece uno specchio che c’ha sputato in faccia quando la negligenza dei medici dell’Ircc di Candiolo (Torino) nel non avere accertato preventivamente la scomparsa della malattia ce lo portò via. Nell’inutile operazione inflissero infatti al nonno quattro lesioni di cui la più grave, una perforazione del fondo gastrico di due centimetri. Taciuta a lui e a noi. Né papà, nonna, zio, mamma e neanche noi nipoti sapemmo nulla mentre tutto avveniva silenzioso tra quelle mura. Con l’imperita cura gli causarono danni sempre più gravi, fino all’instaurarsi di una peritonite cronica. In ultimo, nell’affrontare imperitamente una colecistite, la fecero incancrenire prima dell’ultima tardiva operazione. Tutto questo fece riacutizzare la sepsi, portando al decesso del nonno dopo 151 giorni di ricovero ininterrotto. Nonno restò all’internò dell’Ircc pur non avendo più il tumore, e quando la situazione andò peggiorando, noi familiari ne chiedemmo ripetutamente lo spostamento in altro ospedale, ricevendo invece sempre il rifiuto dei clinici. Dal giorno del ricovero risalente al 6/08/2009, nonno non è mai stato lasciato da solo ed è sempre stato assistito da uno di noi familiari nell’arco delle 24 ore, tranne quando il personale ospedaliero ce l’ha impedito. La notte del 3/01/2010 un continuo trillo ha spaccato un silenzio quasi sacro, e il volto di nonno presente nel mio sogno è andato via via sfumando. Le chiamate nel cuore della notte non sono mai buon segno, e infatti quella fu per dirci che nonno non c’era più. Nonna, che allora di anni ne aveva 78, ha dormito per 5 mesi su una poltrona, al fianco di nonno. Per quel tempo, tutto è passato in secondo piano, ma a noi era andato bene così. Da quel giorno siamo rimasti otto meno uno, e con da smontare tante lucine colorate di un Natale e un inizio anno segnati. Montare e smontare. Smontare e montare. E’ quello l’andi che abbiamo intrapreso da allora, tra aule di tribunali, porte sbattute in faccia, risposte da media che non arrivavano. Però noi siamo ancora qua, a crederci. A credere che a qualcuno, oltre noi, importi della storia di nonno. A credere che i luoghi sacri dove dolore e speranza risiedono insieme possano essere timonati da mani esperte e meritevoli. Che gli ospedali possano essere quindi capeggiati dai capaci, non dai macellai, e che nelle aule di tribunale sia sovrana l’uguaglianza di chi siede davanti al banco, e non che il favoritismo si sostituisca a quel diritto inviolabile. Per questo abbiamo provveduto ad effettuare denunce su denunce verso i medici che ebbero in cura il nonno. E per ogni denuncia ingiustamente archiviata, ne abbiamo proposta una nuova. Continueremo questa battaglia fino a che, oltre che da perizie medico legali di parte, anche la giustizia non ammetterà che nonno morì per negligenze dei medici che dicevano d’essere dalla sua parte. Crediamo che giustizia possa essere fatta per nonno, che lui nel sistema ci credeva eccome. Per lui in primis, e anche per tutte quelle persone la cui morte dalla voce flebile come la fiamma di una candela spazzata via dal vento, viene con troppa facilità soffocata e schiacciata al fondo di scatoloni posti su scaffali impolverati, pronta per essere archiviata e dimenticata da tutti. O quasi.” Roberta P.